Se c’è un avvenimento catastrofico che segna più di altri gli ultimi decenni del secolo breve, quello è proprio l’incidente di Chernobyl, avvenuto la notte del 26 aprile 1986. Se ne parlò tanto di Chernobyl, e le conseguenze furono immediate. L’incubo radioattivo non portò soltanto neutroni impazziti. In Italia ad esempio esso significò la fine della produzione nucleare nostrana. Si trattò di una scelta forse azzardata, probabilmente frutto di un isterismo tutto sommato giustificato. Ma l’isterismo di cui parlo non è quella giusta e sana opposizione al gioco dell’atomo. Mi riferisco a quella rinuncia hic et nunc che non prese in conto il fatto che quasi tutti i nostri vicini di casa possedevano, e possiedono ancora, reattori attivi, talvolta nelle immediate vicinanze dei nostri confini. Detto volgarmente: ci accolliamo dei rischi al pari degli altri senza però ricevere in cambio alcunché.
Ad ogni modo questa è solo una delle tante conseguenze del disastro e tutto sommato fra le meno importanti. Per cercare di capire cosa significhi Chernobyl al di là di dell’orrore materiale della radiazione, occorre forse alzare un po’ il tiro. A questo proposito può venirci in aiuto la serie prodotta e diffusa da HBO in questo 2019 (Chernobyl), la quale, complice anche un buon successo in termini di pubblico mondiale, ha il merito di riportare a galla un avvenimento che rischia costantemente di essere sottovalutato. L’intenzione di voler usare la fiction non è tuttavia frutto di superficialità. Non stiamo confondendo la realtà con la finzione, né tantomeno vogliamo farlo. Del resto, il mio ruolo non è affatto quello di stabilire, al di là di ogni ragionevole dubbio, l’esatto svolgersi degli avvenimenti, né tantomeno fornirvi chiavi di lettura sulla radioattività e sui suoi effetti a corto, medio e lungo termine. Per questo non si può e non ci si deve limitare ad un gioco di attori e set ricostruiti. Un fenomeno culturale di questo tipo ha un tutto un altro ruolo. La serie tv può essere considerata un testimone di quei solchi (sulla cui natura e profondità voglio interrogarmi) che il disastro ha senza dubbio inciso nel nostro immaginario e nella nostra coscienza. La fiction è un segno di come la catastrofe di Chernobyl abbia influito sul nostro modo di percepire e vedere il mondo. Le qualità intrinseche della produzione HBO si identificano proprio nella sua capacità di porre degli interrogativi più che pertinenti, nel suo contributo indiscutibile ad un immaginario, nella sua portata estetica, la quale, come vedremo, non si limita ad un puro aspetto formale. Fedele alla sua natura, la fiction, in costante dialettica con il mondo materiale, offre la grande opportunità di sollevare dei quesiti che trascendono ampiamente la natura di “puro intrattenimento” e che ci permettono di esplorare un terreno difficilmente misurabile altrimenti.
Per giungere al dunque, occorre chiedersi se e in che modo la catastrofe di Chernobyl costituisca – o possa costituire – una “rottura”? E se sì, di che tipo? Storica? Politica? Epistemologica? Filosofica? Estetica…?
Partiamo da due certezze, o comunque da due ipotesi tutto sommato più che ragionevoli. In primis Chernobyl costituisce una rottura nell’immaginario e nell’estetica. Un mondo fino a quel momento immaginato e descritto nei libri e nei film trova una sua sublimazione in una realtà tangibile. In questo senso il dubbio può essere uno: siamo di fronte all’arricchimento di un immaginario e di un’estetica già esistenti (la zona contaminata, le mutazioni genetiche, ecc.), oppure abbiamo a che fare con qualcosa di nuovo e specifico (Prypiat, la ruota panoramica, le maschere, il mistero, la città abbandonata dall’oggi al domani…)? In secundis, Chernobyl, produce un nuovo modo di concepire in toto il sistema del nucleare civile, fino a quel momento considerato il rovescio “buono” della grande medaglia atomica. Anche su questo aspetto non dovrebbero esserci dubbi.
Per quanto riguarda tutto il resto, occorre procedere con più prudenza. Io sarei portato a credere che Chernobyl sia una rottura epistemologica collettiva, la genesi di un nuovo modo di percepire i nostri spazi e i nostri tempi ad un livello assai più ampio. Ma è troppo presto. Del resto, sappiamo benissimo come fra un avvenimento e la sua assimilazione nella coscienza collettiva possano passare talvolta decenni o magari anche di più. Di certo però possiamo dire di non avere imparato la lezione. Se così non fosse non ci sarebbe stata Fukushima, la dimostrazione perfetta di quel luogo comune che attribuisce al “peggio” il proverbiale carattere di infinito.
Infine, – ed è da qui che voglio partire -, si può inquadrare il disastro nel contesto dell’Unione Sovietica, e soprattutto della sua caduta. Non è un caso che proprio Gorbachev, all’epoca segretario generale, abbia più volte affermato che la vera causa della fine dell’URSS siano proprio gli avvenimenti della notte del 26 aprile 1986. Non è un argomento semplice, se non altro per via dei rapporti fra oriente ed occidente, fra Russia e Nato, i quali sembrano richiamare gli anni della guerra fredda, con un’aggravante non da poco: la comunicazione ed i social.
Per poter dunque cercare di rispondere almeno in parte ai quesiti di cui sopra, è necessario forse partire da qui. Seguiranno l’immaginario dell’atomo, l’estetica delle rovine, Fukushima e più generalmente lo “spirito del tempo” del nostro Antropocene Inferiore.
Alfonso Pinto
Chercheur Postdoctoral École Urbaine de Lyon
Université de Lyon.