Matteo Meschiari, La Grande Estinzione. Immaginare ai tempi del collasso, Armillaria 2019. (In libreria dal 24 ottobre)
Estratto delle prime pagine:
L’Alzheimer della specie
Una vecchia miniera. Caldo. Arsura. Mancanza di ossigeno. Polveri cancerogene e lavoro da schiavi. In media un minatore non superava i cinquant’anni, eppure i minatori c’erano eccome, si adattavano, sputavano anima e sangue finché potevano. E tacevano, completamente sottomessi. Se ce ne fosse bisogno, sarebbe l’ennesima prova dell’insondabile capacità di adattamento e sopportazione della nostra specie, al limite dell’annientamento. Pensate adesso a un pianeta torrido, senz’acqua, pieno di schiavi sfiniti e malati. È distopia? È allarmismo apocalittico? Purtroppo no. Ci arriveremo sopportando il peggio un passo alla volta, negando, tacendo, consolandoci con minuscoli zoo di animali, di piante, di dèi. Che tipo di minatore voglio essere? Quale miniera sto prenotando per i miei figli? Immaginate un mondo in cui l’eccesso di CO2 attacca le capacità cognitive umane al punto da rendere impossibile la comprensione di macrofenomeni come il surriscaldamento globale. Immaginate un’umanità che un po’ alla volta perde il sapere senza accorgersi di perderlo, come una specie di Alzheimer della specie. Il mondo è sempre quello, è lì fuori, ma le strutture mentali per comprenderlo si sono dissolte. Non è solo ignoranza, analfabetismo, indifferenza. È una de-evoluzione generata da avvelenamento chimico. Non è deriva populista, sovranista, totalitarismo. È una resa collettiva a modelli sociali brutalmente semplici per chi non è in grado di pensare. Immaginate un mondo simile: il nostro. Perché ormai possiamo solo immaginarlo. Pensarlo no. Che cosa fare? Che cosa possiamo lasciare come strumento di resistenza alle generazioni future? La tecnologia, certo, ma non sarà abbastanza. Dobbiamo invece sviluppare delle tecniche di resistenza mentale, come la facoltà di immaginare, la capacità di narrare storie alternative, l’utopia di un mondo che non si rassegna allo status quo. Non è un caso se le più altre concentrazioni di CO2 si registrano nei luoghi chiusi e affollati, principalmente uffici e aule scolastiche. Allora è tempo di aprire le finestre, anche se l’aria là fuori è compromessa, triste.
Volere la luna
È difficile realizzare che cosa potesse voler dire vivere nel 1962 e sentire JFK annunciare al Congresso che per la fine del decennio l’uomo avrebbe camminato sulla luna e sarebbe tornato indietro sano e salvo. Un po’ come se oggi si annunciasse l’imminenza di un viaggio interstellare verso Alpha Centauri. Nel 1962 l’America aveva eseguito un solo lancio suborbitale con equipaggio umano della durata di 15 minuti, mentre la luna è a 384.400 km dalla terra. Nel 1962 i computer erano armadi meno intelligenti di un frigorifero odierno e un volo in economy Roma-New York costava l’equivalente di 4000 euro. Annunciare un viaggio sulla luna era come se Edward G. Robinson avesse promesso dagli Studios di Hollywood di gareggiare per il salto in alto alle Olimpiadi del 1968. Eppure il 20 luglio 1969 Neil Amstrong onorò la promessa. Al di là dell’incredibile accelerazione tecnologica in una finestra di tempo così stretta, il successo fu soprattutto ascrivibile al “fattore umano”, ma in un’articolazione curiosamente improbabile. Mentre la punta dell’iceberg furono gli astronauti, il modulo spaziale e la diretta televisiva, il lavoro sommerso del Mission Control fu la vera chiave di volta del progetto: l’équipe di terra non era formata da superlaureati, tecnici iperselezionati, vecchi esperti in materia, ma da ragazzi giovanissimi, neolaureati, provenienti dalla working class, gente abbastanza comune, insomma, ma che si inventò un modus operandi di successo completamente inedito. È quello che qualcuno ha chiamato l’Apollo Mindset, un paesaggio mentale che rese possibile, probabile e infine realizzabile qualcosa che in origine era considerato completamente fuori portata.
Che cosa significa immaginare?
Da un lato una molteplicità di campi: percezione, memoria, anticipazione, inconscio, visione, parola, ancestralità, materialità, figura, simbolo, analogia, mimesis, ontologia, trascendenza, metafisica… Dall’altro una strana ambiguità terminologica: immaginario, immaginazione, fantasia, fantasticheria, invenzione, utopia, vagheggiamento, finzione, illusione, prefigurazione, creazione, sogno… Nel frattempo si continua a immaginare proprio come si ascolta musica senza saperla leggere. Invece di darne una definizione parziale e insoddisfacente, è forse più importante elencarne gli effetti nella vita quotidiana. In pratica, a che cosa serve immaginare? A costruire rappresentazioni del mondo, delle relazioni, di sé. A moltiplicare scenari e alternative possibili. A fuggire dalla tirannia dell’adesso-qui, a criticarla, a rovesciarla. A pensare l’invisibile. A inventare l’altro. A scegliere tra molteplici direzioni. A fare emergere connessioni tra presente, passato e futuro. A credere in ciò che non esiste. A credere in ciò che esiste. A dialogare con le parti prelinguistiche del proprio cervello. A fare ipotesi. A costruire modelli. A riempire le lacune del pensiero razionale. A cogliere connessioni. A sperare… Se quindi la parola “immaginazione” è svalutata e ridotta all’angolo delle cose marginali, in realtà non esiste attività cognitiva umana, ragione inclusa, che possa prescindere da essa. L’immaginazione però si coltiva, si allena, si nutre, e quando questo non accade si atrofizza, diventa passiva, si scoraggia. Una persona, un gruppo, un popolo senza immaginazione è automaticamente vittima di chi controlla le immagini al posto suo. Per questo immaginare significa soprattutto fare politica.
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