Perché scrivere un saggio narrativo sull’evoluzione delle piante? Non sarebbe come banalizzare le trattazioni scientifiche sull’argomento?
La motivazione più sincera che sottende il progetto per la stesura di un libricino che affronti in modo narrativo e poetico questo tema, nasce dall’ambizione di innescare un processo di trasmissione orale partendo dal racconto scritto. È possibile risvegliare l’immaginario in chi legge e in chi ascolta facendo leva sull’analogia, sull’immedesimazione e quindi sull’empatia. Se la prospettiva attuale è assolutamente antropocentrica, volendo dare un valore prettamente negativo al termine, si pensi a un graduale cambio di visuale, o meglio, a un recupero di una visuale cosmocentrica. Dunque, se Homo sapiens si serve di schemi cognitivi che lo portano a comprendere
i fenomeni attraverso l’analogia, la classificazione, la sintesi, è possibile riportare alla luce la sua ancestrale disposizione a interagire con le cose naturali per mezzo del suo ingenuo e intimo approccio fenomenologico col mondo, iniziando proprio dall’analogia. La narrazione offre un supporto impareggiabile per il buon esito di questo intento. Userei il termine “contatto”
prendendolo in prestito dalla psicologia sociale. L’immaginazione suscitata dalla parola
risveglierebbe la sensazione di contatto (unione, poi fusione) con la natura e lo stimolo necessario a risignificare il suo ruolo chiave per la sopravvivenza umana. Se lo stupore della conoscenza rapisce l’immaginario rendendo nuovamente comprensibile il mondo naturale che ci circonda, scoprendone la straordinaria somiglianza con la nostra storia evolutiva, sarebbe possibile sviluppare una “catena generazionale” di salvaguardia inter e intraspecifica. Pensiamo alla forza del linguaggio. È noto che la botanica, così come le altre scienze naturali, abbia un ricchissimo vocabolario legato etimologicamente a saperi molto antichi, ormai scollegati dalla realtà dei nostri tempi, ma che è necessario rinvenire e risignificare per contribuire ad aprire nuove rotte culturali e ricollocare in
modo flessibile l’umanità nel sistema natura di cui è uno dei componenti e con i quali dovrebbe tornare a interagire attraverso una sorta di “intelligenza affettiva”. Il linguaggio, come tecnologia primaria, potrebbe essere una delle strategie finali per la sopravvivenza. Non preoccupiamoci della complessità fonologica dei termini usati in botanica: la loro qualità espressiva è fortemente evocativa, specialmente se il buon lettore/narratore sa stimolare la dimensione emozionale, identitaria e quindi culturale insita nell’ascoltare storie, aspetto tipico dell’essere umano sin dall’età infantile. Certo, i bambini: pensiamo alla loro formidabile e intuitiva disponibilità a scorgere la vita
anche in ciò che (apparentemente) vita non ha. Un giorno, volendo testare di persona uno degli esperimenti di Piaget sulla sua “teoria dell’animismo infantile”, ho chiesto al mio bambino (che allora aveva cinque anni) se, a suo avviso, il Sole fosse vivo. D. rispose di si: “ Il Sole è vivo perché si muove e dà calore e vita a tutte le cose”. Stesso esito ho riscontrato alla domanda se i fiumi fossero vivi: “Certo, sono vivi perché scorrono e fanno bene alle piante, agli animali e pure alle persone”. Proseguendo, ho chiesto se le piante potessero pensare proprio come lui. La risposta è stata: “Sicuro: ho visto come si aprono e si chiudono i loro fiori se c’è luce o buio. Di giorno pensano e di notte dormono”. Quindi, secondo l’umanità infantile (i test di Piaget, come si sa, sono
stati svolti su campioni molto numerosi e per lungo tempo, anche se hanno incontrato
successivamente non poche critiche sulle modalità di allestimento dei setting e sul tipo di approccio relazionale messo in atto dagli sperimentatori nei confronti dei bambini) le cose naturali hanno vita propria e comunicano continuamente fra loro e con l’uomo per motivi fondamentali legati al benessere di ciascuno.
Leggiamo, come esempio, un breve frammento che racconta il passaggio evolutivo che portò le prime piante a colonizzare la terra ferma lasciando l’immenso mare antico dopo che emersero dall’acqua, pur mantenendo con essa un rapporto estremamente intimo. Le briofite: Le prime piante a uscire dall’antico ventre oceanico, circa 480 milioni di anni fa, furono le briofite (dal greco bryon, muschio e phyton, pianta), tenere tallofite (dal greco thallós, germoglio e phyton, pianta) dal portamento prostrato ancora memore della mobilità delle acque, quando l’alga verde più superficiale, da cui derivano, nei periodi di bassa marea, fece capolino nel mondo aereo e, col passare del tempo, sviluppò la capacità di assorbire il sole in modo diretto e più abbondantemente rispetto a quanto facesse nello spazio sommerso, superando i limiti primordiali che la costringevano a competere con molte altre specie per assicurarsi la sopravvivenza. Questo corpo senza radici, fusto, foglie, talloso appunto, flessibile e ricettivo, dovette mutare gradualmente d’aspetto e di funzione, elaborando una postura quasi eretta per catturare al meglio la luce e iniziare a farsi strada sul primo terreno che iniziò a colonizzare. La superficie verde delle briofite mantenne uno strato di cellule permeabili estremamente bisognose d’acqua da cui dipendevano (e dipendono tutt’ora) il loro sostentamento e la loro riproduzione…
È urgente raccontare in modo appassionante come le piante si siano sviluppate nel corso dei tempi e come alcune loro specie abbiano “preferito” strategie di sopravvivenza più primitive e così durature. Dalla lettura di una breve narrazione che ha l’intenzione di servirsi di termini scientifici e fortemente suggestivi, è possibile passare alla fase prettamente orale. Ricordiamo che apprendere nuove modalità espressive in seno allo stesso linguaggio è assolutamente in linea con le nostre capacità cognitive, soprattutto se intensamente evocative. Tramite le immagini portate al livello di consapevolezza, potremmo imparare per analogia a virare la rotta che abbiamo intrapreso verso
l’estinzione. Potremmo ritornare a leggere i messaggi impliciti ed espliciti che i luoghi naturali inviano: la steppa non torna gariga e poi macchia e poi foresta se insistiamo a ignorare e a essere indifferenti, “tanto non ci riguarda. E poi cosa sono la steppa, la gariga, la macchia e la foresta?…”
Sono ciò che l’ecologia profonda ci racconta.
Letture
Bruner J., (ed.it. 2003), La mente a più dimensioni, Laterza, Bari
Coccia E., (2018), La vita delle piante. Metafisica della mescolanza, Il Mulino, Bologna
Piaget J., (ed.it. 2013), La rappresentazione del mondo nel fanciullo, Bollati Boringhieri, Torino
Snyder G., (ed.it. 2010), La pratica del selvatico, FioriGialli edizioni, Roma