Da qualche tempo le cose sono diverse. Mi riferisco alla luce del mattino, alle finestre abbaglianti, alla sveglia due ore prima delle sei, al freddo nelle ossa, ai vestiti sporchi, ai bambini che non sono più bambini ma ombre d’estate. Si guarda con un interesse insolito la via che conduce al turno delle otto o delle sedici. La fabbrica ha chiuso da mesi. Molti di noi continuano ottusamente a mantenere le abitudini di un prima insapore. Cerchiamo uniformità mentre le chiese sono attraversate da atei e il parco urbano è una distesa di coperte. Le fontane storiche testimoniano la spietata bellezza dell’asse di parata da dove le facciate fanno traboccare minuscole macerie di cristallo ancora caldo, ancora vivo. In questi scenari appena divenuti definitivi, le donne mostrano un’affezione impressionante nei confronti dei cuccioli di qualunque essere, dal momento che i bambini sono perduti. Pare che esclusivamente l’età infantile venga colpita da un male balordo che palesa i propri sintomi in un crescendo di convulsioni silenziose, costringendo i corpicini a contrarsi e a distendersi senza sosta per giorni. Gli spasmi impongono che le feci e le urine cadano incontrollate, straziando il cosmo delle madri e dei padri. Uno a uno. Mucchi a mucchi. I nostri figli scompaiono nel tanfo dell’umanità.
Questo è l’assioma comune. Ma pochi sanno che non è così. Gli occhi dei rimasti vedono ombre soprattutto d’estate quando i suoni registrati dei giochi fanno una eco ancora più assordante e nell’immensa desolazione squarciano le suture malconce delle retine di chi non si rende conto che i bambini sono migrati altrove. E così che è andata veramente. La più grande migrazione dell’Antropocene l’hanno fatta i bambini. Nessuno sa indicare le loro traiettorie. Nessuno poteva immaginare che se ne sarebbero andati via, tutti, lasciando i popoli alla deriva. Migrano chissà dove. Meglio non sapere, per il loro bene. Perché i bambini possano essere allegri, innocenti e senza cuore.