Voglio parlare di Luhmann

‘Il lettore attento avrà notato che stiamo discutendo la differenza fra identità e differenza e non la loro identità’ – hmm, bene, ci siamo, è proprio da lui, di Niklas Luhmann, il sociologo che nel 1969, iniziando a insegnare all’Università di Bielefeld, definì il suo programma di ricerca come “elaborare una teoria della società”. Tempo previsto, 30 anni. Costo previsto, 0 marchi.

Quando arrivi a quella famosa frase secondo cui né gli uomini né le menti possono comunicare perché “solo la comunicazione può comunicare”, oppure quando ti rendi conto di cosa significa davvero il concetto di contingenza, cioè “che tutto può essere diverso da come è ma che non puoi fare nulla per cambiarlo”, ma soprattutto quando, dopo aver fatto lo sforzo non indifferente di aver studiato (non diciamo capito: studiato) la ‘teoria’ luhmanniana ti accorgi che non hai in mano alcun piano di battaglia, programma di partito, menù a tendina di scelte, checklist da completare, ma solo una precisa mappa in scala 1 : 1 della società nella quale poi ti dovrai orientare assolutamente da solo perché Luhmann, come disse un altro grande tedesco, Peter Sloterdijk, faceva parte di una nuova generazione di pensatori che non vogliono in alcun modo essere dei preti, beh, a questo punto, almeno per me, si può provare un notevole senso di liberazione.

Mi capita di pensare che Niklas Luhmann (1927-1998) sia il principale pensatore del nostro tempo e uno di quelli che ci potrebbero aiutare di più a mappare la nostra via per la salvezza, proprio perché ci lascia del tutto liberi e contingenti, assolutamente non essenziali né tanto meno radicati.

Che proprio io sia finito per incapricciarmi del pensiero del sociologo tedesco tanto da considerarlo uno dei pochi pensieri moderni che ne valgano davvero la pena è per me ancora un mezzo mistero, dato che scrive favolosamente male e io giudico i saggisti in base agli stessi criteri dei romanzieri e poeti, cioè l’entertainment value (e poi sì, anche il contenuto).

Concetti di rara complessità sono espressi in una prosa faticosa e piena di tecnicismi e ripetizioni e rimandi ad altre opere altrettanto illeggibili, il tutto reso ancor più irritante dagli occasionali momenti di ironia e chiarezza: lo fa apposta e avrebbe potuto scrivere in maniera del tutto diversa ma aveva deciso di non farlo per motivi suoi (e guarda caso, in praticamente tutte le sue foto ride o sorride). All’epoca delle scorse elezioni tedesche la FAZ metteva a confronto i programmi dei partiti su una ‘scala Luhmann’ di illeggibilità: cioè, era pure diventato un modo di dire. Pure prolifico come un coniglio: libri su praticamente tutto, compreso l’amore. L’unica cosa di cui non scrisse mai nemmeno una riga è la guerra.

In più, oltre a essere illeggibili, le fonti del pensiero di Luhmann non le avevo mai sentite nemmeno nominare o quasi: Talcott Parsons, Von Foerster, Von Glaserfeld, Gordon Spencer Brown, Maturana e Varela, Bertalanffy, Husserl – si salvava giusto il buon Gregory Bateson.

Riassumendo: mentre leggere, che so, Derrida, mi dava la sensazione di un mucchio di foglie secche mosse dal vento per ore e ore, leggere Luhmann era come ascoltare un messaggio urgente da un radio di scarsa potenza, molto disturbata, e in una lingua che si padroneggia solo in parte.

Hans-Georg Moeller è uno studioso tedesco che si è addossato l’ingrato compito di far conoscere Luhmann al mondo anglofono. Sostiene che quello di Luhmann sia il quarto insulto all’umanità dopo quelli di Copernico (non siamo il centro dell’universo), di Darwin (non siamo il culmine della creazione), di Freud (non siamo nemmeno padroni di noi stessi): per il sociologo tedesco non siamo in alcun modo padroni del nostro destino come società: la società si evolve per conto suo, aumentando in complessità e organizzandosi in sistemi operativamente chiusi tanto quanto i sistemi psichici e biologici (cioè noi) che servano a creare senso dalla massa di comunicazioni nella quale ci troviamo a esistere. Le nostre comunicazioni hanno effetti all’interno del sistema di riferimento in cui avvengono e che le processa secondo i suoi codici, e possono anche mettere in moto reazioni a catena in cui un sistema irrita gli altri sistemi, che formano il suo ambiente (e i sistemi hanno nomi importanti: Diritto, Economia, Politica, Arte, Scienza, Religione, Famiglia, Media, ognuno col suo codice binario e i suoi protocolli interni con cui osservare e organizzare l’ambiente esterno attraverso un confine in continuo movimento) e nota bene, nessuno di questi ambienti ha la capacità di guidare la società, certo non la politica e nemmeno l’economia, per non parlare della scienza o dei media. Tutto quel che possono fare è ‘irritarsi’ (proprio così, ‘irritieren’) l’un l’altro.

Hannah Arendt definiva come carattere peculiare dell’azione politica il fatto che è impossibile prevedere tutte le conseguenze della propria azione, che sfugge immediatamente al nostro controllo; in Luhmann questo vale per tutte le azioni, cioè comunicazioni, possibili. Il fatto positivo, se vogliamo, è che i sistemi che formano la società non dipendono da noi, si riproducono autopoieticamente qualsiasi cosa facciamo o non facciamo, almeno finché non decadono e muoiono come un tempo sono nati e cresciuti, da sé. A livello di società (che è una e mondiale) funziona la differenziazione funzionale e questo significa che i vecchi, cari concetti ereditati dall’Illuminismo per un’era di stratificazione sociale – l’uomo, la soggettività, la ragione, il dover essere, il progresso, la libertà, la democrazia, l’uguaglianza etc – vanno rivisti, ridefiniti, o abbandonati interamente a favore di una descrizione più realistica, e perciò più astratta, del nostro tempo.

L’impressione è di un pensiero astratto e iperrazionale (che è un po’ l’impressione che al lettore/letterato medio fa sempre l’uso di concetti cibernetici) ma Luhmann è capace di scrivere che ‘già l’idea che lo stile di vita dell’individuo illuminato e socialmente responsabile che adora esclusivamente la ragione rappresenti il telos dell’umanità dovrebbe essere terrificante’ – che non è quel che si solito ci si aspetta dai sociologi (che poi, sociologo: non usa nemmeno per sbaglio cose come cifre, statistiche o sondaggi, né tanto meno propone soluzioni a urgenti problemi sociali. Filosofo, direi, anche se lui respingeva la definizione, dichiarandosi modestamente ‘teorico’).

Ora, potrei provare a spiegare certi concetti luhmaniani – Doppia Contingenza! Re-entry nel sistema! Mezzi di comunicazione generalizzati simbolicamente! – o approfondire certi temi come la sua definizione di democrazia – in pratica basta che il vertice del potere si possa dividere in governo e opposizione (troppo poco? No, basta e avanza) – ma preferisco spendere qualche parola sulla sua antropologia, che il punto di ogni pensiero serio è sempre quello, credo.

Un passo indietro: si definisce ‘antropologia filosofica’ una scuola di pensiero tedesca della prima metà del XX secolo. I suoi esponenti più importanti sono Max Scheler, Arnold Gehlen e Helmut Plessner (tutti discretamente illeggibili, un po’ meno Scheler). Coordinate spaziotemporali ovviamente infauste: Scheler morì nel 1929, ma Gehlen aderì al nazismo mentre Plessner dovette andare in esilio.

Si tratta di antropologi nel senso in cui Luhmann è un sociologo: come lui non usa statistiche o cifre, loro non facevano ricerca sul campo negli imperi coloniali (in compenso, molto aggiornati sulla scienza del momento). Credo proprio che non li insegnino, nelle facoltà di antropologia. L’idea di base sulla quale lavorano è: cosa distingue l’Uomo dagli altri animali?

L’idea di base, per esempio in Gehlen, è che l’Uomo è un ‘animale deficitario’, che non ha una sua specificità ecologica ma è soggetto a una profusione di stimoli assolutamente estranea alla natura animale che rendono il mondo un campo di sorprese imprevedibili, che gli impongono di creare degli ‘esoneri’ (Entlastungen), tecnologici e istituzionali, che trasformino le sue condizioni deficitarie della sua esistenza in possibilità di conservarsi la vita.

In Scheler si tratta della capacità dell’Uomo di dire ‘NO’ alla realtà; in Plessner alla sua posizione ‘eccentrica’ nel mondo, che lo vede trovarsi contemporaneamente all’esterno e all’interno del mondo. Se ci pensa, è anche l’antropologia di Jean-Paul Sartre, per cui l’Uomo deve compensare la sua mancanza di una definizione essenziale a priori – cioè la sua Libertà- con scelte e progetti di vita (appunto: non per niente Sartre si era formato filosoficamente in Germania).

In Luhmann la Negazione ha un primato funzionale, che permette di mantenere accessibile il mondo nonostante l’inevitabile selettività operativa dei sistemi sia sociali che psichici. La Negazione rimanda a altre possibilità oltre a quelle effettivamente attualizzate e permette di costituire il senso di ogni comunicazione e di ogni pensiero. Non per niente, il senso, che è il centro di tutto il sistema luhmaniano, è una forma specifica con due lati, reale e possibile, ma anche attuale e potenziale. Nella teoria la negazione ha qualcosa in comune con l’Arte, il mezzo di comunicazione generalizzato simbolicamente che aspira a riattivare delle possibilità rimosse in quanto altre possibilità sono diventate reali, mostrando come sia possibile in quest’ambito un ordine dotato di una sua necessarietà insita esclusivamente nell’opera stessa che però rimanda alla possibilità del mondo – che è un po’, secondo me, quel che vuole fare il Progetto TINA.

Nulla di tutto questo sarebbe stato possibile senza il già citato Moeller (‘Luhmann explained’ e ‘The radical Luhmann’), ma ancora di più i divulgatori italiani di Luhmann: Baraldi, Corsi e Esposito per ‘Luhmann in glossario’ (Franco Angeli, 1995, 2002) e ‘Teoria della società’, che Luhmann scrisse insieme a Raffaele De Giorgi (Franco Angeli 1991, 2003) ed è il suo libro più leggibile, quasi bello. Per l’antropologia filosofica si può leggere ‘La specificità dell’umano. Percorsi di antropologia filosofica’ di Maria Teresa Pansera (Inschibboleth, 2019)

Stefano Trucco

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