3 dicembre 1984
Molti non saranno d’accordo, ma a mio avviso Fabrizio De André ha dato il meglio di sé mettendo in musica l’Antologia di Spoon River, la raccolta poetica sotto forma di epitaffio pubblicata da Edgar Lee Masters fra il 1914 e il 1915. De André, con gli arrangiamenti di Nicola Piovani, ne ha fatto un disco uscito nel 1971. Personalmente, un piccolo capolavoro per la sua capacità di unire musica, letteratura e geografia. De André sublima l’immaginario geografico di un’America inedita, a tratti meschina, decadente, disperata. Un’anticipazione, forse, della grande Depressione. Nella geografia immaginaria cantata dai morti si ha come l’impressione di percorrere le strade di una qualsiasi Dogville del midwest. La mia è certamente una deformazione. Quella di un mondo in cui tutto è geografia. Anche se in fondo forse, è proprio questo rapporto all’immaginario che fa di ogni essere umano un geografo a sua insaputa. Non al denaro, non all’amore né al cielo (così si chiama il disco) regala dunque musica e voce ai morti. Ce ne sono tanti. Alcuni vanno in coro. Altri invece da soli. Tutti ricordano il giudice nano, il blasfemo o ancora il suonatore Jones. Un po’ in sordina c’è il chimico. Ed è quella la mia canzone preferita. Non so perché. Forse perché ero assai scarso in chimica… forse perché trovavo romantica la storia di un chimico che sapeva bene come mettere insieme gli elementi della tavola periodica, ma al quale sfuggiva il senso proprio dell’amore. “Ma gli uomini mai mi riuscì di capire perché si combinassero attraverso l’amore“. Nella poesia originale il chimico si chiamava Trainor e faceva il farmacista. Secondo De André morì in un “esperimento sbagliato, proprio come gli idioti che muoiono d’amore. E qualcuno dirà che c’è un modo migliore”.
C’è sempre un modo migliore. Soprattutto quando si ha a che fare con la chimica. Non è bello morire di chimica. Nè per un esperimento sbagliato, né tantomeno per uno riuscito.
Idrogeno – Carbonio – Azoto – Carbonio – Ossigeno

L’Isocianato di Metile (o MIC per gli amici) è un composto organico ottenuto facendo reagire la metilammina con il fosgene. Allo stato normale si presenta sotto forma di liquido incolore con un odore non proprio gradevole che ricorda il cavolo lesso. Una delle sue caratteristiche principali è la sua instabilità. Il MIC è particolarmente volatile. La sua temperatura di ebollizione è bassissima (39°), ma soprattutto reagisce al minimo contatto con l’acqua. Inoltre, si tratta di uno dei composti più tossici che esistano. Nonostante questo, ancora oggi, il suo uso nella produzione di pesticidi è altamente diffuso
Di norma, viste le sue caratteristiche, il MIC viene lavorato attraverso un sistema detto “a ciclo continuo”. In sostanza il composto, una volta prodotto, viene immediatamente immesso nel ciclo di lavorazione delle diverse sostanze che ne derivano. Questo avviene per ragioni di sicurezza. L’obiettivo del ciclo continuo è proprio quello di evitare l’accumulo e dunque lo stoccaggio di una sostanza altamente instabile e mortalmente tossica.
Uno dei prodotti derivati dall’Isocianato di Metile è il Carbaryl, brevettato dalla multinazionale americana della chimica Union Carbide, (oggi proprietà del colosso DOW Chemical), un pesticida altamente efficace, tossico per tutti i parassiti, ma non per l’uomo. Nel 1969, nell’ambito della Green Revolution – ovvero quell’insieme di tecniche e strategie che miravano fra gli anni ’40 e ’70 al miglioramento delle rese agricole nei paesi del terzo mondo -, la Union Carbide decise di lanciarsi nel mercato indiano con la costruzione di uno stabilimento adibito alla produzione di pesticidi nella città di Bhopal (distretto federale del Madhya Pradesh). L’India in quegli anni rappresentava un mercato gigantesco, soprattutto per via della vocazione prettamente agricola della sua economia. Negli anni successivi l’impianto fu ampliato aggiungendo una sezione adibita alla produzione di MIC in loco, l’unica al di fuori degli Stati Uniti per quanto riguarda il colosso chimico. Come ci racconta Eduardo Munoz, responsabile della Union Carbide in India per ben nove anni, la multinazionale in quegli anni fece una scommessa, un azzardo. La politica messa in atto era particolarmente aggressiva, nel senso che mirava ad occupare interamente il mercato secondo delle previsioni che in seguito si rivelarono errate. Era il 1980 e ormai ci si era resi conto che l’azzardo non aveva dato i suoi frutti. Il mercato indiano non si era rivelato poi così fruttuoso.
Dapprima la produzione del Sevin (questo era il nome commerciale del Carbaryl) fu rallentata. Poi ovviamente si ridussero i costi, cercando al contempo di elaborare una strategia d’uscita. Gran parte del personale venne messo a spasso e allo stesso tempo il budget per la manutenzione e la sicurezza fu visibilmente ridotto. Arriviamo così al 1983, anno in cui la produzione di pesticidi nello stabilimento di Bhopal fu definitivamente sospesa. La Union Carbide aveva perso e continuava a perdere milioni di dollari. L’unica soluzione era lo smantellamento dell’impianto e la sua rivendita pezzo per pezzo… così… tanto per recuperare qualcosina. “Ci abbiamo provato. Non ha funzionato”.

Nell’autunno del 1984 la fabbrica fu definitivamente chiusa e tutte le attività furono limitate alle operazioni di manutenzione strettamente indispensabili. Il personale specializzato venne quasi interamente licenziato. Nello stabilimento però, all’interno di tre serbatoi interrati, erano rimaste circa 60 tonnellate di Isocianato di Metile. In teoria, lo abbiamo detto, al fine di limitare i rischi, il MIC si utilizza a ciclo continuo, ovvero attraverso un processo che evita il più possibile l’accumulo del composto. A Bhopal invece si preferì agire diversamente. In un documento del 1973, recuperato recentemente e riguardante il budget previsionale dell’impianto, si scopre che la Union Carbide aveva approvato lo stoccaggio di grandi quantità di MIC, in barba alle più sicure pratiche di produzione a ciclo continuo.

Come funziona un impianto chimico? In teoria è semplice. Si tratta di mettere in atto a grande scala una serie di reazioni fra diversi elementi al fine di ottenere, chimicamente giustappunto, un prodotto. In natura “nulla si crea e nulla si distrugge” diceva il buon Lavoisier, “ma tutto si trasforma”. Per semplificare al massimo, possiamo immaginare un impianto chimico come un intricato sistema di tubi, condutture, valvole, serbatoi e altri sistemi adatti a generare o semplicemente ospitare una serie di reazioni chimiche precedentemente testate nei laboratori. Ecco. Prendete un laboratorio chimico, prendete le beute, gli alambicchi, le pipe e immaginate il tutto 10, 100, 1000 volte più grande. È un problema di quantità oltre che di qualità. Un impianto chimico è dunque un intricato groviglio di condutture che fanno di esso una sorta di sistema interconnesso. A Bhopal l’Isocianato di Metile veniva stoccato in dei serbatoi rinforzati ed interrati, collegati al resto del sistema da una serie di tubi. Ogni conduttura, ogni tubo, ogni serbatoio, dispone di diverse valvole, di chiusure, di sistemi di dosaggio e di isolamento. Si gestiscono le quantità da fare reagire, ma allo stesso tempo si permette di poter isolare una sezione per poterla pulire o riparare in caso di problemi. Per quanto riguarda il MIC, il suo stoccaggio, anche se in teoria occasionale, è regolato da alcuni fondamentali sistemi di sicurezza. Innanzitutto, vista l’instabilità, i serbatoi che lo contengono devono garantire una certa robustezza. Nel caso di Bhopal, questi ultimi vennero interrati sotto uno spesso strato di cemento armato. Le condutture e gli stessi recipienti devono inoltre essere costantemente puliti. Anche le minime impurità infatti possono reagire con il composto provocandone la volatizzazione e dunque la produzione di gas a pressione. Una particolare attenzione deve essere dedicata all’acqua che in nessun caso deve entrare in contatto con il MIC. Poche gocce infatti sono sufficienti ad innescare la reazione. Nello stabilimento della Union Carbide, oltre a questi accorgimenti strutturali, esistevano tre fondamentali sistemi di sicurezza. Del resto il motto era “Safety First“. Il primo sistema era la refrigerazione. L’Isocianato di Metile va in ebollizione a soli 39° e dunque un impianto di refrigerazione aveva il compito di mantenere costantemente la temperatura del liquido a 0°. In caso di fuoriuscita nelle condutture, il gas dovrebbe poi attraversare un sistema chiamato “scrubber”, ovvero un separatore di gas, il cui scopo è quello di “depurare” un composto abbattendo le concentrazioni di sostanze nocive (stiamo ovviamente semplificando). Gli scrubber sono presenti in tutti gli impianti chimici e i loro scopi sono molteplici. Oltre a costituire un sistema di sicurezza, essi sono altresì indispensabili nei processi di depurazione e di trasformazione dei composti. Questo a Bhopal in teoria costituiva il secondo sistema di sicurezza atto a scongiurare la fuoriuscita di sostanze tossiche nell’aria. Se invece per un motivo X o Y il separatore non dovesse funzionare, oppure magari si trovasse ad essere bypassato, esisteve un’ultima fondamentale barriera: la torcia o fiaccola. Si tratta di una fiamma costantemente accesa che si trova all’estremità dei camini ai quali è collegato l’intero sistema di tubi e condutture dell’impianto chimico. Le fiaccole hanno diversi usi. In ogni impianto, a regime normale, la produzione di gas indesiderati e gli episodi di sovrappressione sono inevitabili. Le miscele in questo caso vengono convogliate nel camino e bruciate dalla torcia al fine di eliminare ogni residuo potenzialmente nocivo. In regime normale le sfiaccolate sono un evento frequente. Per pulire una conduttura ad esempio, è necessario dapprima svuotarla dal suo contenuto, il quale viene convogliato verso la torcia che lo brucerà. Lo stesso avviene in caso di fenomeni di sovrappressione. Gli eccessi di gas anche questa volta vengono combusti.

Per riassumere, a Bhopal esistevano dunque una serie di sistemi atti a scongiurare l’immissione di MIC nell’aria: isolamento dei serbatoi tramite valvole e chiusure di varia natura (come in ogni sezione di un impianto chimico); interramento dei serbatoi; refrigerazione per preservare la stabilità del composto; scrubber o separatore per abbattere le concentrazioni di sostanze nocive ed infine, ultima barriera, la fiaccola che distrugge il gas prima che si disperda in modo irreversibile.
Come abbiamo visto però, la scommessa che la Union Carbide fece in India si era rivelata poco redditizia e i tagli al budget avevano interessato in primis proprio i sistemi di sicurezza. Quando la produzione di pesticida fu sospesa nel 1983 le cose si aggravarono ulteriormente. In effetti, a che serve mantenere a pieno regime tutti questi sistemi all’interno di un impianto che di fatto non produce nulla? Quanto costa mantenere attivo uno “scrubber”? Per non parlare della torcia, la quale, per restare perennemente accesa, necessita di grandi quantità di combustibile. A che serve mantenere una fiaccola in un impianto di fatto inattivo? A Bhopal si smobilitava e si cominciò a lesinare anche nella manutenzione ordinaria, che, come possiamo facilmente immaginare, in un impianto chimico non è cosa da poco. Ci sono tubi. Ci sono valvole. Ci sono interruttori, saracinesche, condutture di tutte le forme e di tutte le dimensioni. Ci sono i serbatoi, in particolare quelli dell’Isocianato di Metile, che come abbiamo visto reagisce anche in presenza di piccole impurità quali ad esempio la ruggine.
La notte dei profumi
Nell’ottobre del 1984, il 26 precisamente, la fabbrica venne definitivamente chiusa in attesa di essere smantellata e rivenduta. Al suo interno il personale era ridotto al minimo.
Poche settimane dopo, verso i primi di dicembre del 1984, in tre serbatoi denominati E610, E611 ed E619 e dalla capacità di 68.000 litri ciascuno, giacevano ancora circa 60 tonnellate di MIC. Nel solo E610 in particolare ve ne erano stoccate più di 40, sebbene, sempre per ragioni di sicurezza, fosse preferibile non riempire mai un serbatoio più del 50% della sua capacità massima. Si scopre inoltre che in quei giorni il sistema di refrigerazione era stato spento per mancanza di gas refrigerante (freon). Il 2 dicembre alcuni operai fatti venire apposta da una vicina fabbrica di batterie (sempre di proprietà della Union Carbide) furono incaricati di pulire alcuni tubi per manutenzione ordinaria. Quasi tutti gli operai specializzati, lo abbiamo detto, erano stati licenziati ed il personale restante non era in numero sufficiente per svolgere queste mansioni. I malcapitati, seguendo le istruzioni ricevute, cominciarono a lavare con acqua alcune condutture precedentemente isolate e svuotate. Qualcosa però non andava come previsto. L’acqua si disperdeva da qualche parte. La sezione in fase di pulitura, in teoria, avrebbe dovuto essere isolata dal resto dell’impianto. Se immetti dell’acqua ad un capo di un condotto isolato, essa dovrebbe uscire dall’altro lato. In quel caso non usciva nulla. Il tubo era probabilmente incrostato e alcune valvole erano bloccate dalla ruggine e dall’incuria, mentre altre invece non erano probabilmente chiuse come avrebbero dovuto essere. Di fatto quella sezione, all’insaputa di un gruppo di operai che non aveva alcuna dimestichezza con quel tipo di impianto, non era affatto isolata.
Nel frattempo, era giunta la sera. L’acqua si disperdeva nei tubi di fronte ad un gruppo di operai che non aveva assolutamente idea che a poche centinaia di metri da loro vi fosse un serbatoio ricolmo di oltre 40 tonnellate di MIC. Anzi, probabilmente, non avevano nemmeno idea di cosa fosse il MIC, di quanto fosse tossico, e di quanto poco d’accordo andasse con l’H20. L’acqua superò le valvole aperte, trascinando con sé la ruggine e le impurità che in quegli anni di inattività si erano accumulate nelle condutture. Infine, si riversò all’interno del serbatoio E610. La reazione era iniziata. L’Isocianato di Metile allo stato liquido cominciò a volatizzarsi generando enormi quantità di gas senza che nessuno sospettasse nulla. Che qualcosa non andava si era capito. Ma gli operai di una fabbrica di batteria non erano di grado di interpretare quel nauseabondo odore di cavolo lesso che da qualche minuto impestava le loro narici e irritava i loro occhi. Nella sala di controllo intanto, poco dopo la mezzanotte, si prendeva il thè. Era appena iniziato il giorno 3 di dicembre 1984 quando i vetusti manometri cominciarono ad indicare un significativo aumento di pressione nelle condutture. Poco dopo le misurazioni arrivarono fuori scala. Nel frattempo, all’esterno, il cemento che ricopriva i serbatoi si mise letteralmente a ballare come se ci fosse un terremoto. Poco dopo ancora, un sibilo fortissimo si diffuse in tutto l’impianto. Il cemento aveva retto, ma la pressione aveva spinto il gas verso la sua via di fuga naturale: le tubature dell’impianto. Il gas giunse dunque allo scrubber, il quale però era fuori servizio, probabilmente danneggiato dall’assenza di manutenzione. Poi si diresse verso l’uscita delle condutture, ovvero verso il camino dove sfiatò con violenza come in una pentola a pressione. La torcia, che avrebbe potuto bruciarlo, era spenta. Ufficialmente in manutenzione. Il personale a quel punto, resosi conto della gravità della situazione, mise in atto un ultimo disperato tentativo per evitare il disastro. Con gli idranti si cercò di spruzzare acqua sul camino al fine di limitare la dispersione del gas. Il camino pero’ era in alto, mentre gli idranti erano in basso. La pressione dell’acqua non era sufficiente a spingere il getto verso la cima. Qualcuno azionò una sirena che risuonò in una tiepida notte dell’India centrale.
Nei primi anni ’80 la popolazione ufficialmente recensita a Bhopal era di circa 800.000 persone. Però siamo in India. Registri anagrafici come da noi non ce ne sono. È assai probabile che questo numero debba essere rivisto. La fabbrica della Union Carbide si trova poco a nord del centro cittadino, in una zona densamente abitata poco lontana dal quartiere di Nagar. Siamo in India, in una delle zone più povere di una città mediamente povera. Siamo in India e da queste parti non si parla propriamente di sprawl o di urbano diffuso. Attorno allo stabilimento sorgevano (e sorgono ancora oggi) numerosissime bidonville. Abitazioni di lamiera e di altro materiale si intasano le une sulle altre, intercalate da piccole stradine sterrate. La densità è molto alta.
La notte fra il 2 e il 3 dicembre 1984 tirava un leggero vento da nord-ovest. Per lo più si dormiva, ma come ci racconta Marco Paolini nel suo splendido monologo su Bhopal, quello era il periodo dei matrimoni e quindi in molti casi si festeggiava. In barba a Trainor il chimico, da quelle parti non ci si limita a sposare gli elementi della tavola periodica. Magari molti dei matrimoni erano combinati e la sposa non conosceva ancora lo sposo. Ad ogni modo non ci si preoccupava di paragonare l’unione fra un uomo e una donna all’unione di idrogeno e ossigeno. Da quelle parti la chimica significava solo lavoro, anche se da qualche anno ormai il sogno sembrava essere finito. Quella notte si dormiva ma in molti festeggiavano una nuova unione fino a tarda notte.
Era dunque passata da poco l’una di notte quando d’improvviso una sirena irruppe nel silenzio. Nessuno sapeva però cosa volesse dire quella sirena. Nessuno sapeva come interpretarla e dunque come comportarsi. L’Isocianato di Metile allo stato gassoso è due volte più pesante dell’aria e quindi tende a scendere verso il suolo. A poco a poco la nube che fuoriusciva dal camino della fabbrica cominciò ad adagiarsi sui quartieri della città, sospinta da una leggera brezza. Sembrava nebbia, anzi foschia. La si poteva vedeva ad occhio nudo per quanto era densa. In due ore 40 tonnellate di gas si riversarono nell’abitato di Bhopal, seguendo la direzione del vento, da nord-ovest verso sud-est e dunque, guardando l’ubicazione della fabbrica, verso i quartieri più densamente popolati. La nube si sparse sino ad 8 chilometri dalla fabbrica.

Che cosa succede al corpo umano quando entra in contatto con il MIC? Niente di buono. Anzi. Spesso si muore. Ma a volte ci vuole tempo. Molto tempo. E non sono momenti piacevoli. Ci sono certamente modi migliori di crepare. Molto meglio morire d’amore. Molto meglio morire di tante altre cose. Il primo segno è l’odore di cavolo bollito. L’odore diventa forte e ti da un senso di nausea. Poi la nausea arriva davvero. Gli occhi si irritano. Bruciano in modo intollerabile e si mettono a lacrimare. Poi viene la tosse. Insistente. Inarrestabile. Dolorosa. Non riesci a respirare. Una schiuma bianca e densa comincia a fuoriuscire dal naso e dalla bocca. In alcuni casi cominci a vomitare e non la smetti più. La gola brucia come quando vieni colpito da un lacrimogeno. Solo che non passa. Anzi va sempre peggio. Il gas reagisce con i fluidi corporei che cominciano a riversarsi nei polmoni. Il vomito si mischia alla schiuma che ti fuoriesce senza sosta. La morte, l’agonia o la sopravvivenza dipendono ovviamente dalla quantità di gas che hai respirato. Certo è che se l’esposizione va oltre una certa soglia, allora è meglio crepare subito.
Sebbene da più di un decennio ci fosse un’industria chimica nei paraggi, nessuno quella notte in città fu in grado di capire cosa stesse succedendo esattamente. Nessuno aveva mai parlato dei rischi, delle precauzioni, dei comportamenti da seguire in caso di fuoriuscita. Ad esempio, nessuno in tutti quegli anni aveva preparato un piano d’emergenza. Nessuno aveva mai detto che uno straccio bagnato a coprire naso e bocca, sebbene rudimentale, avrebbe comunque limitato l’esposizione. Nessuno aveva detto alla popolazione di prendere sempre in considerazione la direzione del vento. Nessuno aveva mai spiegato agli abitanti di Bhopal il significato di una sirena in piena notte.
Quella notte a Bhopal la realtà fu degna di un’agghiacciante sceneggiatura horror/apocalittica. Nelle strade buie, spesso prive di illuminazione pubblica, la gente correva, scappava senza sapere dove e da cosa. Tutti tossivano, molti vomitavano, molti andavano a sbattere accecati dall’irritazione. Nessuno aveva idea di cosa stesse succedendo. Si seguiva un istinto animale. Si scappava. Si correva. Solo che quando si corre ci si affanna. È inevitabile. E quando ci si affanna si respira più in fretta e più profondamente. Più gas nei polmoni dunque. Molti cominciarono ad inciampare sui cadaveri che già invadevano le strade. Sebbene le idee fossero tutt’altro che chiare è naturale che il pensiero andasse alla fabbrica. Si cercava allora di allontanarsi. Ma il vento veniva proprio da lì e cosi in molti si trovarono a fare un’inutile fuga sottovento. Ma vallo a fare questo ragionamento con la bocca piena di schiuma in mezzo al buio e ad un silenzio interrotto da rantoli e colpi di tosse. Alcuni testimoni raccontarono proprio di un silenzio surreale. Tutti avrebbero voluto urlare. Ma non potevano. Ovviamente.
È ragionevole pensare che l’Hamidia Hospital, situato qualche chilometro a sud della fabbrica, avesse vissuto una serata tranquilla sino a quel momento. Saranno state le 2 o le 3 tre del mattino quando a poco a poco le sale cominciarono a riempirsi di orrore. Sembrò davvero una sceneggiatura degna del miglior epidemic movie. È la scena del panico, della confusione, di un montaggio serrato fra le facce dei malati, fra i medici che corrono, le madri che piangono tenendo in braccio un bambino con la bocca ed il naso da cui travasa una schiuma biancastra. Infatti, nel giro di poco tempo il pronto soccorso fu ovviamente saturo. I letti non bastavano e di li’ a poco neanche i pavimenti. Le persone si accalcavano, si ammassavano in ogni spazio disponibile. I medici non sapevano che fare. Non avevano idea di cosa stesse succedendo a quelle persone che arrivavano tossendo, vomitando, con gli occhi irritati e con la bava alla bocca. Alcuni arrivarono morti. Molti morirono lì dentro soffocati dai propri fluidi polmonari. Poco dopo i cadaveri cominciarono ad essere accumulati all’esterno. Fu richiamato ovviamente tutto il personale disponibile, incluso il primario che a quell’ora stava dormendo. Non appena arrivato si rese immediatamente conto dell’orrore. In effetti, è probabile che le parole agitate di quelli che lo avevano chiamato non fossero riuscite a rendere conto della situazione. Quando arrivò il medico pensò in un primo momento ad un avvelenamento da ammoniaca. Poi ebbe la ragionevole idea di telefonare direttamente alla Union Carbide.

“C’è stata una fuga dunque?!”.
“Si si, c’è stata una fuga purtroppo”.
“Sì, ma di cosa??? Qui arrivano a migliaia e noi non sappiamo cosa fare! Vomitano! Hanno la bava alla bocca!”.
“Non posso dirglielo purtroppo. Non sono autorizzato. È un segreto industriale”.
Ci vollero delle ore per sapere che si aveva a che fare con l’Isocianato di Metile. Il direttore della fabbrica si rifiutò più volte di rivelare il contenuto dell’impianto. Immaginate un ospedale che, come in un film sulle epidemie, viene letteralmente invaso da migliaia di persone in preda a sintomi la cui gravità è agghiacciante. Immaginate un medico che si sente dire al telefono, in piena notte, “si c’è stata una fuga di gas ma non posso dirvi di cosa si tratta perché altrimenti i capi si incazzano”. Uno sceneggiatore formato e pagato per questo non avrebbe mai potuto pensare ad una cosa del genere. “Non tiene” – direbbe – “gli spettatori una stronzata simile non se la berrebbero neanche sotto l’effetto di droga”. Eppure, è andata così. Nel pieno di un’apocalisse tossica in piena regola, il direttore dell’impianto, che pure era indiano, si rifiutò per lunghe ore di rivelare la natura della fuga.
Tuttora, la Union Carbide non ha ancora pubblicato gli studi sugli effetti del MIC sugli organismi viventi. Segreto industriale.
The day after without tomorrow
Il problema principale di Bhopal è che non tutti morirono subito. E neanche nelle ore immediatamente successive. Molti le passarono a tossire, a vomitare schiuma, a contorcersi in preda all’ipossia. Molti altri invece dovettero attendere giorni, settimane o addirittura mesi. Per tantissimi anni e per altri ancora la morte arriverà e continuerà ad arrivare. I polmoni sono pieni di liquido. I tessuti sono compromessi. Gli occhi non vedono più. Ma il cuore resiste e quel filo di aria che si insinua nel tuo corpo e che ti provoca dolore, è sufficiente a farti rimanere in vita per un tempo drammaticamente lungo. La pace eterna poi arriva, ottenuta però ad un prezzo che mai nessuno al mondo dovrebbe pagare. E se non è il liquido nei polmoni, allora sarà in il cancro, o peggio ancora una breve e malformata vita che nel dicembre del 1984 non esisteva nemmeno.

Giusto per farsi un’idea, è stato calcolato che nelle camere a gas durante l’olocausto, lo Zyklon B provocava la morte in 10 massimo 15 minuti. Ho sempre pensato che quello fosse un tempo schifosamente lungo, nonostante la tanto decantata efficienza nazista. Molti testimoni dicono che spesso qualche sfortunato sfuggiva allo Zyklon B. In quel caso allora i Sonderkommando erano costretti a finire il lavoro.
A Bhopal nessuno finiva il lavoro. La speranza era l’ultima a morire. Anche se non si sa bene se questo fosse un bene o un male. Morire fa schifo. Sempre. Ma morire per avvelenamento da MIC fa assai più schifo. Tutti direbbero senza esitare che c’è un modo migliore, anzi che ce ne sono tanti e tanti.
Nei giorni seguenti la portata dell’accaduto cominciò ad essere chiara. I morti erano ovunque. Le fosse comuni si riempivano come botti, rigurgitando letteralmente cadaveri che giacevano poi agli angoli delle strade. Il conteggio fu difficilissimo e ancora oggi le cifre sono incerte anche se comprese tra una forchetta spaventosamente alta. Fra le incertezze però una verità appare indiscutibile: Bhopal è stato il peggiore incidente industriale della storia.
Siamo in India negli anni 80. Immaginate una bidonville. Immaginate intere case, interi isolati, intere famiglie gasate. Chi mai li riconoscerà? Chi mai darà’ loro un nome? Nelle prime ore le autorità parlarono di 1000 vittime e di un imprecisato numero di feriti. Oggi però le stime più attendibili parlano di almeno 8000 morti nei primi tre giorni e di almeno 250.000 feriti. I morti totali invece si aggirano fra i 15 e i 25.000, anche se a distanza di 35 anni gli studi sugli effetti a lungo termine rivedono al rialzo questi numeri.

Il problema non era però risolto. Mentre si cercava di contare le vittime. Mentre le persone schiumavano di orrore, la Union Carbide rese noto che nelle cisterne E611 ed E619 si trovavano ancora stoccate circa 20 tonnellate di Isocianato di Metile. Le condizioni dell’impianto erano quelle che erano e il rischio di un’ulteriore fuga era davvero elevato. Il 16 dicembre venne presa una decisione drastica. Il modo più sicuro per liberarsi di quella merda tossica era produrre Sevin. Con una vena un po’ mistica la chiamarono “operazione fede”, anche perchè riattivare quella fabbrica era davvero un atto di fede, per quanto inevitabile. Per scongiurare un’altra catastrofe si riattivò dunque una fabbrica con gravissime carenze in termini di manutenzione e sicurezza. A Bhopal non la presero bene. In 200.000 furono evacuati o fuggirono terrorizzati da quello che sarebbe potuto succedere. Per tre giorni e tre notti l’impianto si rianimò fino a consumare tutto il MIC che venne trasformato nell’assai più innocuo pesticida (sempre che tu non sia un insetto). Poi l’impianto chiuse per sempre dopo una brevissima e parzialissima decontaminazione. Talmente parziale che il serbatoio E610 è ancora lì, adagiato su un terreno contaminato, sopra una falda interamente contaminata, in mezzo ad interi quartieri che dopo 35 anni sono ancora contaminati.
Dura lex sed lex
Come la prese la Union Carbide? A parte negare informazioni preziosissime la notte del disastro, quale fu la loro reazione? La notizia dell’incidente arrivò quasi subito nella sede centrale del Connecticut che allora era presieduta da Warren Anderson. Il vicepresidente invece si chiamava Robert D. Kennedy da non confondere con l’altro più famoso Robert F. Kennedy, fratello di John Fitzgerald. Nonostante i forti pareri contrari da parte dei legali della Union Carbide e dell’intero c.d.a., Warren Anderson si recò in India immediatamente per constatare di persona la situazione dell’impianto. Arrivato a Bhopal fu però arrestato. Ovviamente non ebbe mai il piacere di vedere di persona una prigione indiana dal momento che fu messo agli arresti domiciliari nella locale sede della compagnia. Pochi giorni dopo fu liberato dietro il pagamento di una stratosferica cauzione che ammontava a circa 500 dollari americani ed espulso. Non rimise mai più piede in India. Le sue prime dichiarazioni misero l’accento sul fatto che tutte le fabbriche della UCC, in ogni parte del mondo, rispettavano i medesimi standard di sicurezza.
La storia giudiziaria che seguì è alquanto deprimente. L’inchiesta interna della Union Carbide “divisione agricoltura” pubblicò un rapporto che attribuiva la responsabilità dell’incidente ad un sabotaggio, messo in atto “probabilmente” da un operaio scontento. La tesi, piuttosto fantasiosa, era resa ancora meno credibile dal fatto che il rapporto ometteva sistematicamente e vistosamente ogni riferimento allo stato della manutenzione e alla sicurezza. A chi toccava giudicare i fatti? Come procedere? Nel 1985 il governo indiano promulgò il Bhopal Gas Leak Act che sostanzialmente sanciva che lo stato avrebbe rappresentato le vittime. Due furono i procedimenti che si cercò di mettere in atto: lo stato del Madhya Pradesh contro l’Union Carbide India e contro la Union Carbide Corporate e il governo federale indiano sempre contro UCI e UCC, ma anche contro il governo degli Stati Uniti. La Federal District Court americana nella persona del giudice Keenan suggerì che in nome di una “basilare ed umana decenza” la Union Carbide avrebbe dovuto versare fra i 5 e 10 milioni di dollari per le vittime. L’UCC accettò a condizione che questo non costituisse legalmente un’ammissione di responsabilità. Gli indiani però rifiutarono. La Union Carbide Corporate sostenne allora che la sezione indiana, la UCI, aveva piena responsabilità ed autonomia in materia di sicurezza e manutenzione e che dunque doveva costituire un soggetto giuridico indipendente. Questa tesi era stata nel frattempo smentita dall’allora responsabile della UCI Eduardo Munoz, il quale invece affermava che decisioni di tal genere provenivano unicamente dalla casa madre del Connecticut. A confermare le sue parole fu un documento del 1973 che sanciva le riduzioni al budget sicurezza e manutenzione decise dalla UCC e non dalla UCI.
Nonostante questo, nel 1986 la stessa corte americana dopo aver invitato all’umana e basilare decenza la UCC, accettò la richiesta di quest’ultima e gettò la palla nelle mani dell’Indian Supreme Court. Riferendosi al principio della territorialità del diritto gli americani sostennero che questo era l’unico ente giuridico in grado di giudicare la UCI. C’era poco da stare allegri. Gli indiani infatti contavano su due aspetti cruciali. A differenza dell’India, la storia giudiziaria americana era farcita di casi di maxi-risarcimenti da parte di multinazionali. Inoltre, gli Indiani sapevano benissimo che una condanna in America avrebbe rappresentato una garanzia certa per quanto riguarda l’indennizzo, mentre al contrario, un tribunale indiano avrebbe faticato non poco per ottenere soldi da un’azienda che si trova nel territorio di un altro paese
Ad ogni modo, la UCC offrì 350 milioni di dollari che però il governo Indiano rifiutò garbatamente, preferendo rilanciare a 3,3 miliardi di dollari. Successivamente l’Indian Supreme Court invitò le parti (il governo del proprio paese e la Union Carbide Corporate) a trovare un accordo. L’Union Carbide si impegnava a pagare immediatamente 470 milioni di dollari come risarcimento alle vittime più un ulteriore investimento di 17 milioni di dollari per la costruzione di un ospedale a Bhopal specializzato nel trattamento degli intossicati. In cambio l’Indian Supreme Court si impegnava a non intentare alcun procedimento contro la multinazionale ed i suoi dirigenti.
Fra 350 milioni e 3,3 miliardi, la cifra di 470 milioni non è propriamente una via di mezzo.

La UCC mantenne l’impegno, solo che per vedere operativo il Bhopal Memorial Hospital bisognò aspettare più di vent’anni. Nel frattempo, le autorità locali non si rassegnarono alle decisioni della loro corte suprema e avviarono tutta una serie di procedimenti legali contro la UCC ed in particolare contro Warren Anderson che negli anni ’90 fu condannato in contumacia a 10 anni di prigione per omicidio. Ovviamente non si presentò mai in tribunale e non mise mai più piede piede in India. Morì in una casa di riposo della Florida nel 2014. Anche i 470 milioni tardarono ad essere distribuiti. Rimasero per più di vent’anni nelle casse del governo federale e furono distribuiti solo a partire dagli anni 2000.
La decontaminazione del sito, come anticipato, fu limitata e parziale. L’area è ancora oggi altamente contaminata, non solo dal MIC, ma da tutti gli scarti dell’impianto chimico in rovina. La situazione della falda acquifera è spaventosa ed i quartieri limitrofi alla fabbrica non possono disporre di acqua corrente. I danni all’ecosistema si estendono a tutta l’area urbana. Ovviamente le statistiche a 35 anni dall’incidente sono impietose quanto ad incidenza di tumori e malformazioni. Questo ovviamente porta a dover riconsiderare costantemente il numero delle vittime della tragedia, e, più in generale, della produzione chimica di quell’impianto.

Da allora, ogni anno la gente di Bhopal scende in piazza per esprimere il proprio disprezzo verso quella che a ragione considera un’ingiustizia insanabile, un massacro assai più che evitabile. Negli anni immediatamente successivi all’11 settembre 2001, per le strade di Bhopal nei giorni di dicembre, si potevano leggere cartelloni del tipo: “Prendetevi Osama! Dateci Anderson!“. Ogni anno, in quei giorni di dicembre, a Bhopal bruciano dei manichini con le facce di Anderson et di Kennedy. A Bhopal il terrorismo chimico ha una precisa identità, dei nomi, delle facce, dei ruoli.
Homo sum, humani nihil alienum a me puto (Terenzio)
Come concludere questo racconto? Su questa tragedia immane, sull’orrore sia quantitativo che qualitativo, sulle morti e sulle sofferenze, ci sarebbe ancora tantissimo da scrivere, da vedere, da dire. Le opzioni sono tante. Una delle più immediate sarebbe quella di sprofondare nel lato umano. In fondo arricchire un immaginario significa proprio questo: offrire un numero maggiore di dettagli, di interpretazioni, ma anche usare la fantasia per cercare di raccontare ciò che non ci è stato raccontato. La cosa più naturale sarebbe allora quella di sforzarsi di immaginare la notte fra il 2 e il 3 dicembre dal punto di vista di un bambino che si è appena addormentato o di una sposa alla sua prima notte di nozze. O magari semplicemente cercare di mettersi nei panni di un mendicante che sta dormendo su una stradina delle bidonville che circondano la fabbrica. Ci sarebbe sicuramente del materiale dal quale trarre ispirazione senza che la fantasia si inalberi in un cammino troppo lontano dal reale.
Lo sforzo sarebbe giustificato poiché l’immaginario di Bhopal – quell’insieme di saperi, di rappresentazioni, di immagini, di racconti, che nella loro interazione forgiano appunto le “immagini” di quell’avvenimento -, non è cosi ricco come dovrebbe essere. Esistono libri. Esistono documentari. Esiste perfino un film del 2014, Bhopal: A Prayer for Rain, diretto dall’indiano Ravi Kumar con Martin Sheen nella parte di Anderson. Tuttavia, se compariamo Bhopal a Chernobyl ci rendiamo conto che il trattamento culturale è stato diverso. Tutti più o meno conoscono Chernobyl. Moltissimi sarebbero in grado di associare all’incidente del 1986 la silhouette della centrale nucleare, la ruota panoramica arrugginita o ancora i calendari fermi al 27 aprile 1986. Al di là della drammaticità dell’avvenimento, al di là dell’orrore provocato, Chernobyl è una tragedia che ha sublimato un immaginario attribuendogli anche un’estetica propria. L’immaginario della rovina nucleare, dell’abbandono, della post-apocalisse, ha trovato in Chernobyl una drammatica conferma nella realtà fisica e materiale. Le fiction dirette o indirette sul disastro nucleare hanno certamente giocato un ruolo fondamentale, in ultimo la serie HBO uscita nel 2019, che condensa tutta l’estetica attraverso i codici dell’horror.
Per Bhopal il problema non è quello di aver dimenticato del tutto la tragedia, ma al contrario la difficoltà di associarvi delle immagini che siano capaci di testimoniare l’ampiezza dell’orrore. I fanatici del postcolonialismo sosterrebbero che le ragioni di questa differenza di immaginario siano da attribuire alla nostra miopia culturale eurocentrica. Non c’è dubbio che in parte sia così. Bhopal è lontana. Gli indiani sono tanti e tendenzialmente sono poveri. Talmente poveri da non avere risorse sufficienti per raccontare a sufficenza l’orrore subito. Ma questa è solo una parte della storia ed il rischio è quello di incanalare l’analisi all’interno di una sola grande narrazione nel quale tutto si legge attraverso una sola lente. Che poi è il paradosso del postcoloniale che nasce proprio come una rivolta alle grandi narrazioni. Ad esempio, come abbiamo visto, il sequel giudiziario della tragedia non si limita ad una classica opposizione fra stati ricchi e stati poveri. Esistono una miriade di cortocircuiti interni che oppongono le decisioni del governo federale indiano a quello locale di Bhopal e del Madhya Pradesh, i quali (a ragione) hanno rifiutato il misero accordo con la UCC. Certamente le caratteristiche essenziali della tragedia non possono prescindere da una riflessione sulle modalità “coloniali” di un certo tipo di attività industriale e dunque dai rapporti perversi fra nord e sud del mondo. Il problema è che, scavando a fondo, è assai difficile non trovare delle situazioni simili anche all’interno dello stesso “nord”. In questo caso siamo di fronte ad una multinazionale ricca, potente, priva di scrupoli, che si lancia in un’avventura fallimentare e che colpevolmente non applica i dovuti standard di sicurezza perché probabilmente ritiene che la popolazione indiana non li meriti… e forse anche perché semplicemente non c’è nessuno che sia capace di imporli. Scavando a fondo, questi rapporti gerarchici non interessano solo gli stati ricchi e gli stati poveri. È un problema di scala geografica. Chiamateli rapporti fra centro e periferia, fra nord e sud, fra ricchi e poveri. Alla fine, si tornerà al punto di partenza: qualcuno è in grado di imporre dei rischi a chi è obbligato ad accettarli; qualcuno provoca morte e sofferenza, direttamente o indirettamente, a qualcuno che materialmente non è in grado di difendersi. Tutti vogliamo la benzina. Nessuno però vuole un petrolchimico sotto casa. Tutti usiamo la chimica. Nessuno però tiene particolarmente a passeggiare sotto una ciminiera che da un momento all’altro ti strozza le viscere facendoti schiumare sangue da vari orifizi.
Forse invece c’è anche un’altro aspetto. Il nucleare è solo una delle maniere con le quali possiamo produrre energia elettrica. Dalla bomba atomica fino a Fukushima, siamo abituati ad una condanna senza appello assai più facile e diffusa. Senza la bomba atomica il mondo potrebbe benissimo essere com’è. Senza energia nucleare… beh le cose sono più complicate, ma in gran parte del pianeta si arriva comunque ad ovviare. La storia ci ha abituati ad una presa di coscienza e ad una condanna radicale delle tecnologie legate all’atomo. Per la chimica è diverso. Non ci sono altri modi. Non esistono alternative sicure per ottenere una miriade di prodotti che fanno di noi quello che siamo e che, nonostante le apparenze, vogliamo in fondo continuare ad essere. La chimica non può essere “sostenibile”. Certamente può essere più sicura di come lo è stata a Bhopal (non è che poi ci volesse granché). Ma sappiamo bene che la sicurezza assoluta è un’astrazione. L’immaginario chimico, anzi petrolchimico, tocca delle corde sensibili che ci obbligano a prendere in considerazione delle storture che non possono essere considerate unicamente come un puro frutto delle circostanze. Le corde sensibili sono quelle che investono direttamente quelle strutture materiali che costituiscono la conditio sine qua non della nostra realtà sempre più avviata ad un inevitabile collasso.
Per esempio, il senso comune porta le persone a chiedersi perché una serie di leggi sulla regolamentazione degli impianti chimici porta il nome di una piccola località a nord di Milano. Eppure, qualcosa (e più di qualcosa) su Seveso è stata scritta. Già la parola ICMESA non evoca quasi più nulla ai più.
La chimica fa paura.
Per arricchire l’immaginario, allora, le scelte sarebbero tante. Qui però se ne vuole fare una che risulta assai scomoda, particolarmente difficile da assumere. La compassione per le vittime, la solidarietà, la vicinanza per quanto ipocrita possa essere, è comunque il frutto della più naturale delle reazioni. Le modalità e le cifre di Bhopal, anche se in modo solo apparente, impediscono l’indifferenza. Cosa c’è di più innocente di un grandissimo numero di esseri umani, per la stragrande maggioranza poveri, anzi poverissimi, che une tiepida notte di dicembre finisce gasato con conseguenze indicibili? La presa di posizione è facile, anzi facilissima. Ed è giusto che sia così. Da un lato delle persone la cui colpa è semplicemente quella di incarnare quel preciso hic et nunc… dall’altro una multinazionale, una creazione dalle fattezze non umane, impersonale, senza un volto, senza una morale, senza un’etica che non sia quella del profitto. Carne, sangue, pensieri e sentimenti da un lato… un groviglio di tubi arrugginiti dall’altro. L’immaginario dominante descrive le multinazionali come una mostruosità assoluta, come une prodotto non umano, animato da dinamiche interne che sfuggono al nostro controllo e che spesso neanche capiamo.
Questa visione tutto sommato romantica – quella di una creazione irragionevolmente mostruosa – più che un immaginario è una favola. Proviamo per un istante a spostare il nostro sguardo dalle vittime verso i carnefici. Da un punto di vista materiale è assai più facile e gradevole crepare in una bella villa di Miami piuttosto che affogati dalle secrezioni in una stradina buia di Bhopal. Ma da un punto di vista etico ed umano, è difficile incarnare i panni del cattivo. Le multinazionali, contrariamente alle vulgate, sono fatte da uomini in carne ed ossa, i quali, se esposti all’isocianato di metile, reagiscono nello stesso identico modo dei cittadini di Bhopal.
Il cattivo in questione ha un nome ed un cognome: Warren Anderson.
L’amministratore delegato della Union Carbide dal 1982 al 1986 è forse il personaggio umanamente più interessante. Il mostro per eccellenza. Colui il quale, anche se in modo ovviamente indiretto, è l’unico responsabile in carne ed ossa della tragedia di Bhopal. Come racconta un articolo del New York Times, Anderson nacque nel 1921 da una famiglia di immigrati svedesi. Suo padre faceva il carpentiere. Dopo la laurea in chimica divenne pilota della marina. Fu assunto in seguito dalla Union Carbide in qualità di semplice venditore e ad essa egli dedicò tutta quanta la sua vita. Nel 1979, quando Anderson era già prossimo ai vertici, la compagnia si trovava ad affrontare delle gravi difficoltà economiche. Come la storia di Bhopal lo dimostra, le previsioni degli anni precedenti si erano rivelate errate e i guadagni in quel periodo si erano ridotti del 90%. Non era certo il migliore dei momenti per ricoprire la carica di amministratore delegato, eppure nel 1982 Anderson riuscì a risollevare le sorti della compagnia, migliorando sia la produttività che le vendite. Certamente all’interno di questo piano di risanamento un qualche ruolo doveva averlo avuto anche il taglio delle spese della filiale indiana di Union Carbide. Anche se, come abbiamo visto, le riduzioni al budget sulla sicurezza dello stabilimento di Bhopal erano state decise già nel 1973 e dunque assai prima dell’era Anderson. Tutto andava bene dunque per il figlio del carpentiere divenuto capo di uno dei più imponenti colossi chimici del pianeta. Poi venne quella notte di dicembre con tutto quello che abbiamo raccontato. Al di là di ogni giudizio morale, l’immediata reazione di Anderson alla tragedia non fu scontata. La sua decisione di partire subito per l’India nonostante i pareri contrari, puo’ essere considerata normale e dovuta da noi (è il minimo). Nel mondo delle multinazionali non è cosi’. Di solito non ci si pongono questi scrupoli. Il resto lo abbiamo già detto.
Anderson andò in pensione nel 1986. Avrebbe voluto chiudere la sua carriera come l’artefice di un importante risanamento aziendale, ma invece lasciò la Union Carbide con una reputazione non proprio positiva e con lo spettro di un gigantesco risarcimento che avrebbe potuto comprometterne l’esistenza stessa. Come visse quei momenti Anderson? Non sappiamo molto. Il New York Times riporta una sua frase: “La mattina ti svegli e pensi “può davvero essere successa una cosa del genere?”. Poi ti rendi conto che è successo davvero e che con questa cosa dovrai convivere fino al resto dei tuoi giorni”. La moglie racconta che per la prima Anderson non riusciva a dormire (e ci credo). Poco dopo il ritorno dall’India si chiuse in un albergo del Connecticut con la moglie con la quale passava le nottate a leggere e a rileggere tutti gli articoli sulla tragedia. Come a voler convincersi oltre ogni percezione, oltre ogni corto circuito cognitivo, che “si’!” era cosi! Era davvero successo e vuoi non vuoi la responsabilità era anche sua. Quando erano al ristorante, la moglie Lilian racconta ancora del fastidio provato da lei e dal marito nel sentire la gente ridere in quelle circostanze. Non è necessario esprimere un giudizio morale. Sarebbe banale. In ogni caso. Così come non possiamo (e non dobbiamo per fortuna) sapere ciò che si prova quando il corpo viene avvelenato dall’Isocianato di Metile, allo stesso modo non possiamo sapere cosa succede quando vieni a scoprire che in un modo o nell’altro sei implicato nella più grande tragedia industriale della storia.
Come abbiamo detto, l’accordo fra governo federale indiano e UCC sulla base di 470 milioni di dollari fu raggiunto alla fine degli anni ’80. Anderson era ormai in pensione e dunque non più coinvolto in questa transazione. Fu però condannato per omicidio dalle autorità di Bhopal, dichiarato contumace e in seguito oggetto di una domanda di estradizione che ovviamente non fu mai accolta. A Bhopal vollero la sua testa sino al giorno della sua morte avvenuta in una clinica della Florida il 29 settembre 2014. Anderson disse in un’altra intervista che il seguito giudiziario della vicenda si svolse attraverso un compromesso fra l’umana compassione, le pressioni dell’opinione pubblica e le strategie di sopravvivenza aziendali.
Si potrebbe guardare alla figura di Anderson sotto la lente di quella banalità del male di cui parlava Hannah Arendt. Ingranaggi di un sistema. Di fatto impotenti poiché sostituibili. Non funziona. La Union Carbide era un’azienda il cui scopo era quello di generare profitti attraverso la produzione e la vendita di prodotti chimici. I funzionari del terzo Reich, volenti o nolenti, coscienti o no, facevano parte di un progetto politico che si basava essenzialmente sullo sterminio di milioni di persone. Non è un grande sforzo di immaginazione ritenere che Warren Anderson non avesse mai avuto l’intenzione di sterminare qualche decina di migliaia di indiani. Eppure indirettamente lo fece.
Non potremo mai sapere esattamente come Anderson visse gli anni del post-Bhopal. Non potremo mai sapere se dietro di lui si celasse quel cinismo industriale, quel disprezzo della vita che ha portò a tutto questo, o se invece le sue notti fossero davvero insonni come dice. Non potremo mai sapere se la sua auto-presunzione di innocenza fosse solo una farsa volta a nascondere il suo cinismo di fronte ad un’opinione pubblica giustamente disgustata. Non potremo mai sapere se al contrario, questo suo sentimento fosse invece una strategia di sopravvivenza. Come fai a vivere dopo che una mattina scopri che le tue azioni hanno causato un simile orrore? Di certo a Bhopal sopravvivono ancora con gli effetti a lungo termine del MIC e con quel senso di ingiustizia profonda che mai potrà essere sopito.
Ciò che sarebbe interessante sapere è anche e soprattutto la dinamica precisa, esatta, a grande scala, che vede implicato Anderson. Da un punto di vista meramente pratico quali sono le azioni precise di Anderson che condussero al disastro? Sappiamo che uno dei punti fondamentali è la decisione di tagliare il budget all’impianto viste le impreviste evoluzioni del mercato. Quel documento però è del 1973. E noi sappiamo che Anderson prese le redini dell’azienda solo nel 1982. Cosa successe in quei due anni. Di certo, dietro lo stop definitivo alla produzione di Sevin e dietro alla successiva decisione di dismettere l’impianto c’è Anderson, il quale però gestiva un’azienda con centinaia di impianti sparsi per il globo. Le domande legittime allora potrebbero essere queste: Anderson lesse mai dei resoconti dettagliati sullo stato degli impianti? Anderson sapeva quanto MIC era ancora pericolosamente stoccato nei serbatoi? Quali erano realmente i rapporti fra la casa madre e la filiale indiana? È possibile ritenere che questa separazione di responsabilità e competenze non fosse altro che una strategia più o meno consapevole di un perpetuo scarica-barile? Gli indiani dicono che queste decisioni spettarono alla casa madre. Gli americani sostengono il contrario. Quale che sia la verità, hanno torto entrambi. Entrambi possono risultare responsabili di gravi omissioni. Ad ogni modo, la vicenda permette comunque di riflettere sul lacunoso funzionamento interno di strutture alle quali affidiamo delle enormi responsabilità.
La banalità non è dunque quella di Hannah Arendt. La banalità è quelle di arrivare all’inequivocabile conclusione che è lo stesso funzionamento della produzione chimica mondiale ad essere strutturalmente perverso. Che Anderson e i suoi omologhi siano o meno dei semplici ingranaggi questo è assolutamente irrilevante. È questa irrilevanza a non essere banale, poiché ci permette di mettere in atto un ragionamento di cui abbiamo profondamente bisogno e che consiste nella demistificazione dell’immaginario del mostro non umano. Non ci vuole un grande sforzo cognitivo per constatare che l’amministratore delegato di una gigantesca società per azioni in fondo è come il Papa: viene eletto da un collegio di azionisti e quando muore, o viene rimosso oppure qualcun altro prende il suo posto. Si applicano strategie, si prendono decisioni le cui innumerevoli conseguenze sono materialmente impossibili da valutare in toto. Per un problema di quantità, per un problema di qualità, per un problema di puro istinto di autoconservazione aziendale. Per il bene della struttura, dei suoi lavoratori, dell’economia che genera. Per il bene dell’umanità intera, o meglio per il bene di ciò che significa oggi essere umani in un mondo fatto di matrimoni fra elementi della tavola periodica.
Difficilmente troveremo qualcuno disposto a dire con estrema sincerità che la vita umana non conta un cazzo e che, tutto sommato, il sacrificio di un’intera città è un effetto collaterale, un qualcosa che non dovrebbe accadere, ma che in fondo accade per cause che sfuggono alla nostra comprensione. Sebbene non sia certo una novità, la stortura strutturale, sistemica, indipendente dalla stragrande maggioranza delle singole azioni che tanto in modo sintagmatico che paradigmatico, hanno condotto all’orrore, non appartiene al solo mondo delle produzioni industriali.
L’essere umano è capace di incarnare con una facilità disarmante e inaccettabile la più assoluta innocenza, – quella di un abitante di Bhopal inserito in uno sventurato e casuale hic et nunc -, quanto la colpevolezza di un Warren Anderson fra i tanti, il cui ruolo è proprio quello di preservare integra la nostra coscienza, di rendere serene le nostre notti.
La stortura, dunque, è talmente grande e talmente gravida di potenziali conseguenze che ancora oggi, sul sito della Union Carbide (dal 2001 sussidiaria della DOW Chemical Inc.) è possibile leggere questo:

La Union Carbide ha evidentemente bisogno di continuare a credere, nonostante tutto, al sabotaggio. Per la sua stessa sopravvivenza morale e materiale. Noi abbiamo bisogno di credere ad un mondo che separa i buoni dai cattivi. Per la sopravvivenza dei nostri sogni. Per la sopravvivenza della nostra “umanità”.
No beast so fierce but knows some touch of pity. But I know none, and therefore am no beast.
(W. Shakespeare)
Alfonso Pinto