Magari conoscete il film di Peter Brook o magari vi siete imbattuti nel suo spettacolo teatrale; o magari non ne sapete nulla. In ogni caso potreste avere voglia di leggere questo antichissimo poema epico, scritto in sanscrito a partire dal IV a.C..

95000 /82000 /75000 versi a seconda delle varianti, Mahabarata è uno dei testi più importanti dell’induismo: semplificando in maniera indecente, il poema racconta l’epica dell’invasione degli Arii in India nel 3000 a.C. circa.
La trama è complicatissima, i personaggi leggendari, gli eventi straordinari sempre e comunque.
Eppure seguendo le vicende narrate vedrete materializzarsi davanti a voi tutti i concetti della nostra cultura, tutto il pensiero occidentale, tutte le narrazioni che già crediamo antiche: erano già lì. L’effetto è la rivelazione di avere sempre guardato nel cannocchiale al contrario: disorientamento e stupore. Perché qui quelle narrazioni, quei concetti sono “nuovi” e vi si manfesteranno in tutta la potenza sfavillante di una “prima volta”.
Il Mahabarata è la storia del mondo, anche della narrazione del mondo. Nel Mahabarata le storie, la storia, la narrazione, i fatti, la mitologia sono un unicum.
Il senso è tutto in una battuta di Yudishtira, il futuro re al quale Krishna rivela che è lui l’unico a poter salvare il mondo. Prima però dovrà affrontare un’altra guerra. “Questa guerra — chiede il giovane — avverrà su un campo di battaglia o nel mio cuore? Krishna gli risponde: non vedo alcuna differenza”.
Margot