In queste ore, sui social della microbolla indie, si è discusso in modo piuttosto inutile della foto-che-non-è-una-foto dell’Australia nel rogo di sé stessa. Non riapro qui la questione, perché in realtà si riduce a una sola domanda: è legittimo costruire narrazioni su immagini-trappola che diventano virali più del duro, onesto lavoro di chi fa analisi e corretta informazione? Non riapro la questione Australia ma ho due considerazioni da fare, entrambe, spero, costruttive, ed entrambe in risposta personale a quanto, sollevando due questioni importanti, scrive Loredana Lipperini qui:
La prima riguarda il senso di impostare oggi delle narrazioni fondate sul vero. Ecco, la mia proposta è di abbordare la cosa non da un punto filosofico, ma antropologico: in antropologia le narrazioni, vere o false, sono equipollenti, nel senso che per l’antropologo registrano entrambe una credenza, un’adesione ideologica, una Weltanschauung. L’antropologo non sente cioè la necessità di dire che un’etnonarrazione è giusta o sbagliata, è buona o cattiva, è conforme alla scienza oppure no. Il suo scopo è osservare, studiare, provare a capire. Ora, secondo me, stiamo vivendo una fase storica così confusa che il problema principale è lasciarci alle spalle (sì, anche noi scrittori e intellettuali) dei bias cognitivi che pesano come il piombo e che ci distraggono dal nocciolo della questione. In particolare, penso che sarebbe di enorme profitto provare ad adottare lo sguardo “da vicino e da lontano” dell’antropologo, per cercare di capire che cosa sta accadendo nella testa delle persone. E le persone non sono solo le “masse”, ma sono anche i nostri contatti Facebook che, volenti o nolenti, non stanno più dicendo solo qualcosa per sé, ma sono abitati da narrazioni più ampie, che li eccedono. Questo ci aiuterebbe 1) a non buttarla sempre sul personale e ad abbassare i toni; 2) a fare meno gli indignati su tutto e ad essere un po’ più “osservatori partecipanti”; 3) a inquadrare un fenomeno mediatico anche “falso”, “pernicioso”, “sbagliato” come un fatto antropologico e non come un’azione soggetta a giudizi di valore; 4) a convincerci che le narrazioni non sono solo buone o cattive, giuste o sbagliate, ma buone e cattive, giuste e sbagliate, e che tutte stanno creando una narrazione diffusa dell’Antropocene; 5) a che l’immaginario, l’inconscio collettivo, lo storytelling dell’Interregno sono un iperoggetto inclusivo, non esclusivo. In altre parole, credo che sarebbe una risoluzione molto operativa smetterla di fare (tutti) i primi della classe e studiare un po’ meglio (tutto), anche quello che ci sta personalmente sulle scatole. Crediamo sbagliato usare immagini false per suffragare un discorso? Ok. Intanto però possiamo studiare ciò che accade, e farci qualche domanda seria: perché accade? perché la gente preferisce postare immagini “ad effetto” invece di articoli “seri”? è davvero solo pensare di “pancia”? questa pancia, che non agisce solo su bruti, ignoranti e nemici della ragione, non è forse la cartina al tornasole di un imbarazzo collettivo, di un disorientamento impaurito, di un’incapacità di gestione del panico, di una negazione psicologica e biologica del peggio anche quando di testa non neghiamo la realtà del collasso? Capire senza mettere steccati è importante.
La seconda cosa riguarda l’azione. Ho già fatto in queste ore una piccola lista di azioni concretissime che noi di LGE stiamo portando avanti, una per tutte il progetto collettivo TINA-ANTROPOCENE DECADENCE (50 scrittori per 120 scritture, 50 disegnatori per 50 tavole, centinaia di pagine che registrano la temperatura psicologica, storica e narrativa dell’idea di collasso in Italia, un romanzo-dossier prontissimo a breve….). Su queste proposte (libri da scrivere, mappature dell’immaginario, progetti scuola, performance…) vorrei davvero che gli scrittori e gli intellettuali italiani, uscendo dal loro orto “ognun per sé”, cominciassero a parlarne assieme. Vorrei che accadesse adesso, ma sì, comunque accadrà, presto, e forse non sarà troppo tardi per farci venire in mente qualche nuova idea. Qui invece vorrei dire qualcosa che per me è importantissimo, e voglio dirlo in un modo forse un po’ ruvido, ma tant’è, dobbiamo svegliarci. Riguarda un cambiamento di mindset necessario, urgente, che dovrebbe far riflettere scrittori ed editori subito. La racconto così: nel 2020 pubblicate un romanzo, non è un successo internazionale, non è nemmeno un successo nazionale. Vendete intorno alle duemila copie e siete contenti. La vostra vita non è cambiata. L’avete resa solo un po’ più interessante. Ora, che cosa avete scritto in quel romanzo che possa interessare a un lettore del 2030? Non parlo di cose astratte come il 2050. Dico tra 10 anni. E non parlo (anche se dovrei) di perdita di pensiero generazionale, di scrivere per le donne e gli uomini del mondo-dopo-di-noi. Dico 10 anni da oggi. 10.
Ecco. Un romanzo su cosa? Per chi? Un quarto delle persone che conoscete tra dieci anni sarà morta. Di quelli vivi metà saranno vecchi e gli altri avranno la vostra età. Quindi a chi parla il vostro romanzo? Magari vi siete aggrappati a un romanzo su un’Italia vecchia ma non antica? Una distopia dei cinque minuti resa anodina dal nuovo presente? Un romanzo sul clima, che intanto sarà cambiato in modo diverso da come potevate prevedere? Un’eterna storia d’amore difficile? Un romanzo di varia attualità? A chi cazzo servirà insomma il vostro nuovo romanzo nel 2030? Ai critici per le storie della letteratura? No. Certo. Serve adesso. Nel 2020. A che cosa allora? A chi? Ah ok. La letteratura non serve a cose pratiche, la letteratura “esiste”… Benissimo. Oggi in Italia ci sono circa 9,8 milioni di bambini e adolescenti che nel 2030 potrebbero leggervi. Almeno la metà di loro potrebbe leggervi adesso.