Dieci anni

Proprio qui, giusto qualche giorno fa, un certo carismatico professore di neogeografia riassumeva così i termini del problema di cosa e come scrivere oggi:

La racconto così: nel 2020 pubblicate un romanzo, non è un successo internazionale, non è nemmeno un successo nazionale. Vendete intorno alle duemila copie e siete contenti. La vostra vita non è cambiata. L’avete resa solo un po’ più interessante. Ora, che cosa avete scritto in quel romanzo che possa interessare a un lettore del 2030? Non parlo di cose astratte come il 2050. Dico tra 10 anni. E non parlo (anche se dovrei) di perdita di pensiero generazionale, di scrivere per le donne e gli uomini del mondo-dopo-di-noi. Dico 10 anni da oggi. 10”.

E io, il cassetto in basso della scrivania pieno di scrittori dimenticati, ho pensato che avevo già letto una cosa simile, scritta da un critico inglese che il carismatico professore non aveva probabilmente mai letto.

Cyril Connolly (1903-1974) fu un critico letterario inglese molto mandarino (sua definizione), molto prezioso, molto gay benché eterosessuale e molto acuto. Il suo libro più noto è ‘The Unquiet Grave’ (‘La tomba inquieta’, Adelphi, 1995), del 1944, pubblicato sotto lo pseudonimo Palinurus, un esilarante repertorio di aforismi, ricordi, sospiri, profezie e cartoline dalla Francia, di un pessimismo così profondo e elegante da sembrare, all’epoca, anti-patriottico.

Poi, per tornare ai 10 anni, c’è ‘Enemies of promise’ (in italiano ‘I nemici dei giovani talenti’, Sellerio 1994 – gli anni Novanta sono stati ‘peak Connolly’ in Italia, a quanto pare). Uscì nel 1938, proprio la settimana degli accordi di Monaco.

Lo scopo di questo saggio sono propri, letteralmente,

I PROSSIMI DIECI ANNI

  1. Che ne sarà del mondo da qui a dieci anni?
  2. E di me? E dei miei amici?
  3. E ai libri che abbiamo scritto?

Proprio questo è il punto del libro, l’ossessione di Connolly: scrivere un libro che ‘regga’ almeno dieci anni, il minimo. Se un libro non ha più nulla da dire dopo solo 10 anni non valeva la pena di essere scritto.

Un libro che regga per lo stile, la forma, il contenuto, sì, ma che regga anche alla guerra mondiale che ormai, non ci si poteva davvero fare troppo illusioni, stava per scoppiare e, si sapeva già, sarebbe stata ancora più terribile di quella precedente, che pure era stata la più terribile di sempre. Stavolta, ne erano tutti certi, Londra sarebbe stata distrutta dalle bombe tedesche.

‘Enemies of Promise’ è un libro curioso, strutturalmente: descrive lo stato attuale della letteratura britannica e americana, racconta degli ostacoli che la vita mette al talento e al genio (il proverbiale ‘passeggino nell’ingresso’), poi, a sorpresa, diventa un racconto autobiografico degli anni di Connolly alla classica public school inglese, in compagnia di un sarcastico e miserabile Eric Blair, meglio conosciuto come George Orwell.

I dieci anni, dunque. Se noi aspettiamo, con maggiore e minore trepidazione, l’arrivo del conto da pagare ecologico e ci spaventa il fatto che non conosciamo esattamente i termini del contratto, Connolly si trovava di fronte alla certezza di una guerra senza precedenti, anche se aveva idee un po’ più chiare su cosa l’aspettava dato che, anche con gli aerei, la guerra non era precisamente una novità. Semmai, la guerra come la si immaginava in romanzi e film degli anni Trenta era ancor più devastante di come poi sarebbe stata.

Il mio compito è – come vivere altri dieci anni”

Vivere, in tutti i sensi del termine.

Vivere significa in primo luogo rimanere vivo. Il compito è quindi economico. Come avere sempre qualcosa da mangiare?… Un altro modo per rimanere vivi è non essere uccisi. Qui la questione è politica”

Ma naturalmente questo non basta.

Meglio scrivere per te stesso e non avere un pubblico che scrivere per il pubblico e non avere un te stesso”.

Che fare, quindi? Qui ci si attrezza (ci si prova) a immaginare un nuovo immaginario per pensare la catastrofe incombente. Connolly fece un’altra cosa.

Mise su la rivista letteraria ‘Horizon’ (1939-1950), ancor oggi ricordata come LA rivista della guerra inglese. Chiunque avesse un minimo di talento e fosse, più o meno, giovane, vi pubblicò. Gli standard erano assurdamente elevati e Connolly, non precisamente un imprenditore, si scoprì un’incredibile capacità di scovare carta razionata, trattare con i tipografi e pagare stipendi. E naturalmente il caso che una bomba tedesca ti distrugga l’intera tiratura di un numero.

Horizon fu letteralmente una delle migliori riviste letterarie di ogni tempo e paese.

Lo scopo era quello di preservare, in un clima di unione patriottica, eroismi, bombardamenti e privazioni materiali, i valori della cultura più avanzata e anche di quell’altra, meno avanzata ma cui si voleva bene lo stesso. Così contraria allo spirito dei tempi com’era, Horizon si fece dei nemici ma, quando tutto fu finito, si ammise che aveva fatto la sua parte, sostenendo il morale a suo modo, specie per i giovani intellettuali, sia a casa che al fronte.

Ma questo succedeva in qualche modo ovunque, anche da noi. Per esempio, pensate ai libri che uscivano in Italia fra il 1943 e il 1945, il paese percorso da eserciti stranieri, gli italiani che si uccidevano fra loro quando non erano impegnati a trovare qualcosa da mangiare, tipo ‘Ascolta il cuore, città’ di Alberto Savinio, che esce per Bompiani nel 1944 su una carta da ‘pulp’, improponibile, oppure, a sud della Linea Gotica, il vecchio e indomabile Benedetto Croce che, sfollato a Salerno, lontano dalla sua biblioteca, scrive del ‘Burlador de Sevilla’ di Tirso da Molina e si scusa di una citazione a memoria forse imprecisa perché ‘scrivo come ora molti dei miei confratelli negli studi col tormento dei libri da consultare, che si sottraggono al nostro tocco quando tendiamo le mani a cercarli’.

Oppure, ancora meglio – questa l’ho sentita giusto oggi pomeriggio in tivù, raccontata da Gabriele Lavia – Gianrico Tedeschi, quel vecchio attore simpatico con i capelli bianchi (faceva pure Carosello) che, prigioniero dei tedeschi a Dachau come ufficiale italiano badogliano, mette in scena con altri detenuti, tutti maschi, ‘Spettri’ di Ibsen, un dramma favolosamente fosco di pazzia, sifilide e rispettabilità borghese (mi scuso con quanti conoscono bene Ibsen ma non è più capitale culturale corrente come un tempo).

Insomma, che l’idea sia creare un nuovo immaginario oppure cercare di strappare dalla gola del leone ‘due zampe e un brandello d’orecchia’ (Amos, 3, 12) dell’agnello, quel che di buono e utile rimane del vecchio immaginario, i prossimi dieci anni saranno decisivi e terribilmente interessanti. L’importante sarà rimanere vivi, in tutti i sensi. E se nel farlo aiuteremo altri a rimanere vivi, bene, no?

Stefano Trucco

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