Nel teatro di Michele Perriera

Una sera a teatro presi parte, da attrice, a I pavoni di Michele Perriera, che ne scrisse e ne diresse la drammaturgia. Lo scenario rappresentato anticipò di quasi trent’anni la formidabile decadenza delle attitudini e dei propositi umani attualmente in corso. Non solo. Rappresentò il tracollo dell’immaginario e il declino, mascherato dagli sloogan politico-sanitari e dal consumo di immagini preconfezionate e vendute a basso prezzo, dell’intero ecosistema.

Il testo inizia con questa indicazione:

Lo spettatore deve avere la sensazione di trovarsi in uno spazio aperto tormentato dal vento, in una tempestosa serata nella quale si immagina che alberi, oggetti, foglie –mulinando- vengono trascinati e sbattuti dal vento. Il palcoscenico è reso cieco da un sipario. Sul corridoio centrale, in piedi, rivolto verso il palcoscenico si trova x: è vestito di carta da parati, ha il volto tranquillo, evocativo, illuminato da un lieve sorriso. Un pavone si trova poco lontano da lui, la faccia rivolta al pubblico.

Veniamo a sapere da una voce registrata che mancano tredici minuti all’ora stabilita. Vediamo avanzare dalle porte laterali e dall’ingresso della sala moltissimi pavoni. Procedono lentamente. Hanno uno sguardo profondissimo e vuoto. Sono maestosi, occupano lo spazio come nessuno saprebbe fare. Prendono la luce di scena e la fermano per lunghi istanti, noncuranti degli oggetti di una vita fa che sbattono continuamente fra i loro lunghi arti infrangendosi miseramente. X appare sereno, ha deciso di non farsi intimidire dal vento e dalle creature. Attende senza impazienza il compiersi di un qualcosa di decisivo. Passa in rassegna i suoi momenti migliori. Ne trova qualche decina. Ride. La sua risata raggiunge il piumaggio mastodontico dei pavoni senza provocarne alcuna reazione…

E non badava ai pavoni: né badava all’elicottero che ballonzolando sopra la città, rigurgitava volantini di una ditta appaltatrice del servizio salvataggio. Si sentiva un gatto, come nei giorni migliori, voltava pagina, come altre volte e aveva la mente vuota come le pagine bianche: come le volte che, guardando negli occhi assonnati di un uomo, scopriva di sé un’espressione sconosciuta.

Da un punto della sala si solleva un mucchio di donna, rimasta invisibile fino a quel momento; si avvicina a x ,arrancando, mentre l’uomo se ne sta immobile come un manichino esposto in vetrina.
Sei vero? Gli chiede. Mi sembri, non so, un ricordo. X è ancora mezzo uomo e mezzo niente. La parte mezzo uomo risponde alla donna, le dice di andare via prima dell’alba. Il mucchio di donna esegue. X sembra sul punto di seguirla, ma poi rinuncia, perché a quel punto è l’ora stabilita.
Da un angolo del palcoscenico appare un fucile puntato verso x. Parte un colpo. x è colpito, ringhia ferocemente. Il fucile scompare. Il mucchio di donna corre verso x, lo scuote. X ha un’espressione stravagante, rigorosamente felice nel turgore del decesso.Si alza lentamente il sipario. Appare debolissimamente illuminata una sezione-salotto. Sul divano, c’è seduto un uomo identico a x, che chiamiamo z. Il sosia ha il fucile in spalla e un vestito di carta da parati identico a quello di x.

Il mucchio di donna sale sul palcoscenico, senza forze. Vorrebbe vedere quella parvenza di uomo alzarsi, minacciare, gridare. Ma nulla accade. L’uomo che ha visto morire in strada è la parvenza di uomo che resta immobile, da manichino che è, col suo fucile ben tenuto sulla spalla, a tracolla. E intanto i pavoni abbandonano uno per volta la sala salendo sul palcoscenico. Il mucchio di donna va verso il divano che è stato nel frattempo circondato dalle creature; si siede, piange. I pavoni le stanno addosso ormai, la sovrastano emettendo un sibilo come di zampogna.
Ora che l’alba è arrivata e tutto è compiuto, compare una grande scritta sul fondo cieco della scena:

Voce di x: Qualora lei avesse appreso in qualche furbastra maniera la lingua che non si parlava; qualora lei si aggirasse per decifrare i segni della nostra stirpe e fosse avida di messaggi, questa lapide è per lei. Essa è stata lasciata perché non si creda per sempre che ce ne andammo tutti, che tutti vi consegnammo la città senza altra intenzione che quella di fuggire. Qualcuno di noi rifiutò l’esilio e volle rintanare qui il veleno sempiterno della nostra presenza. Qualcuno di noi – poiché noi lo si poteva- scelse e architettò, di sua lucida e spontanea scelta, una morte degna di sé, del suo passato e di ogni possibile grato avvenire. Legga dunque e renda noto: ci siamo fatti costruire un sosia, lo abbiamo fatto pensare secondo i nostri fini e i nostri tempi. All’ora che noi abbiamo stabilito, ci siamo fatti uccidere dal nostro sosia a distanza. E questo abbiamo fatto in serenità, senza alcuna emozione, senza tentazione di mancare all’appuntamento con la nostra creatura; per nulla intimiditi da voi e dalla vostra progressiva invadenza. Perché molto prima che voi arrivaste, molto prima che la natura ci abbandonasse, noi possedevamo i segreti del tempo e dello spazio, del cuore e del cervello, dell’amore e delle gioie. Molto, moltissimo tempo prima che voi arrivaste. Poiché non ci piacete, non vi sveleremo quei segreti. Addio.

Addio, nel senso più augurale.

Michele Perriera, I pavoni (prima ed. 1984), Qui è quasi giorno, Rosenberg & Sellier, Torino, 1994

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Michele Perriera (Palermo, 1º agosto 1937 – Palermo, 11 settembre 2010) è stato uno scrittore e regista italiano, tra i fondatori del Gruppo ’63. Ha fondato e diretto la scuola di teatro Teatès a Palermo.
Tra le sue opere ricordiamo La principessa Montalbo (1963), Il romboide (1969), Il piano segreto (1984), Marcello Cimino, vita e morte di un comunista soave (1991), Anticamera (1994), La spola infinita (1995), Con quelle idee da canguro. Trentasei anni di note ai margini (1997), Atti del bradipo (1998), Ritorno (2003), A presto (1990), Delirium cordis (1995), Finirà questa malìa (2004), Romanzo d’amore (2002) e La casa (2007).

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