Il diario di mia figlia è illustrato dai suoi disegni fuori tempo, riflessi di visioni psichedeliche e di viaggi intramolecolari ombreggiati da linee sfumatissime, difficilmente distinguibili. Esploro le pagine in segreto, in silenzio, in mezzo a nulla, tra buchi di paesaggi immaginari ricostruiti in un pezzo di città che non ha le mura portanti, alla deriva, invasa dal mare. Mia figlia è la grande assente, il formidabile sussurro dei veggenti, la non presenza che danza elegantemente nella mente dei contemplanti.
Un giorno qualunque, mentre disegnava uno dei suoi autoritratti, disse che la pace avrebbe salvato la città e il mondo intero dall’invasione del mare. Il significato della parola pace mi sfuggiva e, ammetto, sembrava anche scontata, dato che nasceva dal cuore di una ragazzina.
Le onde sono altissime e superano le montagne. Tutto è mare e schiuma e impeto. I fossili millenari riprendono la loro vita e vorticano selvaggiamente occupando le grotte di cenere, lasciando nuove tracce per nuove creature, mischiandosi a ferraglie e a carte completamente disintegrate e disciolte in soluzioni irreversibili. Gli argini sono crollati in fretta, sin dal primo frangente.
L’isola è la città riconquistata da chi c’era prima, molto prima di noi.
La pace. Sembiante impenetrabile come te, stellina.
I dipinti sono freschi vaticini posseduti dal vento e dalle generazioni dei popoli di tutte le culture.
C’è un piccolo covo, ancora rimasto asciutto, da dove è possibile guardare il blu e le sfumature vaghissime del carboncino.