Capitolo I
La Sparizione
Le porte sfasciate, non aperte. Talune divelte, scardinate, altre scheggiate. Erano stati colpi di ascia o un vento infernale? Sradicate come gli alberi da cui erano nate. La casa vuota: abbandonata improvvisamente, senza riguardo; abiti appoggiati alle spalliere, le tovagliette della colazione lasciate sul tavolo, ancora ricoperte di briciole. Diana le scuoteva dal terrazzo per darle agli uccellini. Faust era solo? Tentò una perlustrazione. Cautamente si mosse fra i mobili del salotto ed attraverso le porte sfondate. Dov’era Diana? E Ross? Dov’era finito? Anche la porta d’ingresso era stata scardinata. Faust poteva andare liberamente in giardino, senza dover chiedere, talvolta implorare: una distrazione, un capriccio, una volontà diversa dalla sua e più grande potevano impedirglielo.
Era sorpreso. Fuori dal giardino le automobili erano ferme. E non un suono che non fosse quello del vento, o il cinguettio degli uccellini. Diana dava sempre le briciole dei croissant e dei biscotti agli uccellini. Anche quelle del pane tostato. A Faust questa cosa tornava poco. Lui si sentiva assolutamente al centro di quelle attenzioni e mal tollerava interferenze di pennuti o altre creature. Faust era al centro di attenzioni, capricci, volontà più forti. Non era lui che decideva le cose: talvolta s’incaponiva, e teneva il punto. Ma era costretto a recedere. Ross arrivava con la razione quotidiana, ed ogni rivendicazione saltava. Anzi…di cosa stiamo parlando? Perché era così arrabbiato? Faust non ricordava e mangiava voracemente la sua razione quotidiana di proteine, vitamine, cereali. Tutto molto equilibrato e persino gustoso grazie agli esaltatori di sapidità.
Faust si spinse fino al centro della strada: nessuno tentò di farlo tornare indietro. Non udì quel richiamo vagamente melodioso che a lui suonava più o meno così: “ AAA-USSS” O così gli sarebbe sembrato avendo potuto concepire per iscritto vocali e consonanti. L’assenza del richiamo lo sconcertò, fece marcia indietro, come se in quella strada silenziosa, con le macchine ferme, innocua, si celasse un pericolo maggiore di quando, fino al giorno prima era trafficata e vivace. Una macchina che si muove è un pericolo semplice che si può affrontare, ma un pericolo che non ha forma, che avvolge le cose immobili e si muove con il vento e il cinguettio degli uccellini? Quello sì che fa paura. Diana non c’è più, quindi le briciole erano ancora sulla tovaglietta.
Corse in cucina e le mangiò avidamente. Non provava alcun senso di rivalsa verso i pennuti. Ma quando finì le briciole la sua pancia iniziò a brontolare: aveva fame. Faust si ricompose: osservò con estrema concentrazione la porta (sfondata) che univa la cucina al garage, da cui Ross era solito comparire con la sua razione, proprio a quell’ora ( si, pensò, è questa l’ora giusta). Ma per quanto restasse immobile e composto, nessuno comparve.Resto così una decina di minuti, poi sinceramente dimenticò il motivo di tanta compostezza, perché la fame batteva forte nel suo ventre, stimolata dall’imprevisto aperitivo rubato ai pennuti. Faust allora si decise ad entrare in garage, zona rigorosamente off limits, almeno fino a quel momento.Anche il garage come la cucina ed il salotto era stato abbandonato così com’era. La camicia da lavoro di Ross era sul pavimento. Sapeva di sudore e segatura. Il piccolo comò per la figlia dei Brandauer era fermo nei morsetti, illuminato da i raggi del sole. Ross non lasciava mai il bandone del garage spalancato. Tutta quella luce e quell’aria avrebbero danneggiato le sue delicate opere di falegnameria… e di nuovo quel vento che a Faust faceva un po’ paura. Ross non c’era più. Non avrebbe mai lasciato così il bandone del garage, andando via: non si udiva nemmeno quel “AAA-USSS” severo, di rimprovero che Faust udiva quando entrava in aree off limits. Questo lo incoraggiò ad appropriarsi del cibo (sapeva dov’era) – del resto aveva tanta fame. Così tanta che rovesciò tutto in terra e mangiò fino alla nausea, con una voracità inaudita. Diana e Ross erano scomparsi. Alla paura si mescolò la sonnolenza postprandiale: bizzarro provare un terrore affatto inedito e contemporaneamente, aver necessità di schiacciare un pisolino. Chissà: persino sotto i bombardamenti si vive, si dorme, si scopa. E persino sotto questo silenzio ventoso e cinguettante, senza i fumi degli scappamenti e i rumori delle macchine, si può essere normali. Passerà: sul terrore nasceva il pisolino. La speranza di un brutto sogno avrebbe detto Ross, perché lui, quando gli accadeva qualcosa di brutto diceva sempre “vorrei che fosse un brutto sogno” – Faust, non sempre, ma ricordava. E la paura lo stimolava a capire quei suoni che prima aveva imparato ad associare ad eventi fondamentali della giornata come la distribuzione della razione, la passeggiata con Ross o Diana, o tutti e tre insieme, l’ingresso nelle aree off limit, oppure quei rimproveri che udiva in lontananza, di fatto ignorandoli, durante le rivendicazioni.Adesso ricordava, virtuosismi del mondo ipnagogico, e gli sembrava di capire, che tutto avesse un senso. I suoi amati, la loro volontà superiore, le loro attenzioni, tornavano, scendevano da una scala dorata, e sarebbero sembrati (non tanto a Faust, ma sicuramente a Diana o a Ross sarebbero sembrati così ) la divina coppia Shiva e Parvathi. Sembrare a se stessi, ecco, esattamente ciò che si pensa di essere. Ah, ipnagogico…confortante. Faust dormiva adesso ed i suoi arti erano scossi da tremiti.
Al suo risveglio la delusione fu grande: Diana e Ross, la divina coppia, non erano tornati, non c’era traccia di scalinate d’oro, né più prosaicamente, del loro suv nel vialetto. Il suv c’era: cento metri più in là, nella strada, abbandonato, insieme ad altre vetture. Ma Faust non si era ancora spinto così lontano. Faust si apprestava ad affrontare una notte solitaria, come altre volte gli era accaduto, ma con un cupo presagio, o meglio una certezza.
Diana e Ross non c’erano più.
Fin da piccolo Faust aveva dimostrato le sue preferenze musicali con grande emotività: Fausto Leali lo aveva sempre fatto piangere, o era Fred Bongusto? Per quello fu chiamato Faust? Le canzoni di uno dei due scaturivano in Faust un pianto sconsolato. Non conosceva le parole di quei brani avvilenti, ma tentava di imitarne il suono fino ad un accesso di commozione. Certo Ross non amava leggere, e non conosceva le implicazioni di quel nome; il nome “Faust” in verità, gli fu dato da Jonas, un tizio che stava in campagna, mezzo contadino e mezzo intellettuale. Li chiamavano decrescitori (prima della loro scomparsa). Le cure che si erano presi per il mondo non li avevano resi meritevoli di ereditare la Terra.
La Terra ora, era di Faust e di quelli come lui. Improvvisamente liberi.
Una libertà non richiesta e vertiginosa. Una gran scocciatura, un’ansia continua perché Diana, Ross, Jonas e tutti gli altri elargitori di attenzioni, volontà e cibo erano spariti dall’oggi al domani.
Ed il domani (così come ieri) erano concetti fumosi per Faust: lui era fatto per essere nel presente. Come tutti imparava dagli sbagli e dalla ripetizione di routine, ma in un senso molto pratico. Certo tante cose che gli erano state insegnate, come l’attendere compostamente la razione, o altre bizzarre coreografie, non avevano più molto senso.Avevano più un senso per chi gliele aveva insegnate ( o sarebbe meglio dire, imposte) e senza di loro, beh… perché stare lì a fissare porte scardinate o rispettare confini inesistenti?
Tornò alla dispensa del garage, e rovesciò maldestramente un’altra confezione di cibo. Niente razioni: poteva mangiarne a volontà. E così fece per i giorni a venire, mentre, allo stesso tempo, si spingeva sempre un pochino oltre nelle esplorazioni in solitaria del quartiere desolato. Più che altro, si metteva in cerca per la mancanza di acqua, e ben presto, nelle sue peregrinazioni scovò un ruscello.
Questa fu la sua salvezza.
Spesso sentiva in lontananza i lamenti di altri suoi simili, che magari abitavano all’ultimo piano di un palazzo, i quali non potevano, per svariate ragioni, superare le barriere create dalle porte sfondate, oppure che, a differenza di lui, non si erano ingegnati a cercare alternative, o che semplicemente avevano terrore di varcare la soglia senza i loro compagni. Li sentiva morire di stenti, ma non avrebbe potuto aiutarli: questo concetto di aiutare sfuggiva del tutto alla sua comprensione. Magari fossero stati nelle vicinanze, nel quartiere, ma i lamenti venivano diffusamente e da regioni remote, portati dal vento, come il cinguettio e la paura. E poi, cosa avrebbe potuto fare se non star lì, accanto alla sventurato di turno, e vederlo mestamente spegnersi?Ben presto imparò ad ignorare questi lamenti lontani, e anche il cinguettio, la paura e le regole di Ross. Il cibo era finito. Era l’ora di mettersi in viaggio.
Non aveva paura di perdersi. Faust pur non sapendo leggere, né scrivere, o orientarsi con le stelle, o usare un gps, sapeva sempre dov’era ed era sicuro di saper fare ritorno a casa. Pensava di tornare da Jonas, il suo primo amico, quello che lo aveva battezzato, ed era del resto da lì che iniziavano quelli, che con grande approssimazione, potremmo definire i suoi ricordi. I ricordi sono una materia strana un po’ per tutti: dei giorni ufficialmente più belli spesso non si conserva che una vaga sensazione, mentre restano nitide queste inquadrature senza molto senso, di scodelle di brodo in cui galleggia la pastina, oppure un estraneo che si gratta la nuca in un film di spionaggio. Non ricordiamo la nostra nascita, non ricordiamo nemmeno la nostra morte. E questo se è vero per la nostra civiltà che fra scrittura, monumenti, cippi, opere, targhe, almanacchi, server, ha cercato di metterci una pezza, figuriamoci per il popolo di Faust, dove non esiste questa caterva di strumenti per non perdersi nell’universo.
Faust era un tipo pratico: a lui bastava non perdersi nel quartiere, rinfilare la via di casa, attraverso sistemi di orientamento alternativi alla lettura di cartelli e insegne che, per inciso, ben presto sarebbero scomparsi, distrutti dalle intemperie e dall’assenza di manutenzione.Le luci notturne, a macchia di leopardo, punteggiavano ancora la città: qualche centrale nucleare automatizzata doveva essere ancora in funzione. Qua è là, qualche incendio che perdurava fino alla pioggia. Anche i pompieri erano spariti e solo gli acquazzoni erano rimasti a svolgere questa mansione. La pioggia era un evento festoso per il popolo di Faust, considerata l’oggettiva difficoltà a percepire ed utilizzare i rubinetti di qualsiasi foggia: l’acqua, finalmente abbondante scorreva per le strade, creava pozzanghere, nelle quali abbeverarsi ed al colmo della gioia per lo scampato pericolo di vita, sguazzare, correre e schizzarsi.
Capitolo II
Liza e Muffo
Fu durante un temporale che Faust conobbe Liza e Muffo: loro venivano dalla direzione opposta alla sua. All’inizio ci fu un certo timore, anche imbarazzo: i tempi si erano fatti difficili dalla scomparsa degli Amici (li chiamerò così d’ora in poi anziché elargitori di bla bla bla…) In più il precedente condizionamento rendeva Faust guardingo ogni volta che incontrava la sua gente. Gli Amici gli avevano insegnato una certa prudenza nel relazionarsi con i suoi simili che talvolta si incontravano durante le passeggiate. Alcuni potevano essere cordiali, altri molto nervosi. Le reazioni erano imprevedibili.
Faust era la prima volta che incontrava la sua gente in totale libertà. I tre si studiarono con circospezione; si esaminarono a fondo e stabilirono che non c’era pericolo.
La lunga solitudine e la paura patita nei giorni precedenti li aveva eccitati adesso che s’incontravano e che (avevano appurato) non c’erano cattive intenzioni fra di loro.
Perciò cominciarono a correre sotto la pioggia battente, a giocare a prendersi, a scherzare come vecchi amici: e dire che non si conoscevano da più di cinque minuti. Ma come abbiamo sottolineato, il tempo è un concetto piuttosto aleatorio per Faust, Liza e Muffo.
Dunque, esaurite le pratiche di agnizione ed i giochi, i tre si rimisero in marcia senza aver concordato una direzione precisa. Faust doveva andare da Jonas, ma questa idea era come sfocata nella sua mente, era più un vago proposito: del resto, chi se lo ricordava più dove abitava Jonas? In campagna, fuori città, ma dove? In quale direzione? Su questi vaghi propositi prevalse lo spirito di gruppo e la ricerca del cibo.
Liza e Muffo su questo punto parevano molto più ansiosi: probabilmente era molto tempo che non mangiavano. L’apparizione di Arnold generò nei nostri, un eccitazione indescrivibile: come dire? Si chiuse la vena a tutti e tre e dopo un interminabile istante di stasi, scattò furibondo l’inseguimento .
Arnold scappava, molto più agile di loro, riuscì a salire sopra dei cassonetti e da lì, entrò in una finestrella semiaperta, lasciandoli a bocca asciutta.
Arnold involontariamente li aveva aiutati: in quel palazzo c’era un supermercato. Girando attorno per cercarlo, i nostri, trovarono l’ingresso principale. La porta automatica si aprì: il supermercato era in uno stato di pacato disordine con alcune corsie pressochè intatte ed altre devastate. Purtroppo quelle del cibo sembravano essere le più colpite dalle scorribande che si erano succedute.
A questo punto Faust, che dei tre era quello più sveglio, notò nelle ultime corsie dei sacchi di razioni, simili a quelle che Ross era solito dargli. Era così. Il problema era aprire questi sacchi: avrebbe avuto bisogno dell’aiuto di Muffo e Liza, ma anche loro, come lui, non avevano ben chiaro il concetto di mutuo soccorso. Però erano curiosi e vedendo trafficare Faust con un grosso sacco di razioni, cominciarono a strapazzarlo a loro volta.
Si misero a tirare in tre direzioni opposte, e la plastica seppur resistente, dopo alcuni tentativi, si strappò. Il pavimento si ricoprì di cibo: tanti dischetti saporiti e secchi che schizzavano dappertutto.
Una festa, con qualche momento di tensione: ogni tanto i tre nella foga di mangiare si avvicinavano troppo l’uno all’altro ed esplodevano tafferugli. Faust, che non aveva mai patito la fame, smise di mangiare e si allontanò mentre gli altri, continuarono con una foga disperata.
Li osservava: Liza era bianca, snella, minuta ma muscolosa, il suo sguardo era malinconico ma brillava di intelligenza. Muffo invece era tarchiato, robusto, il viso schiacciato come un pugile, ed aveva una specie di macchia nero rossiccia sopra un occhio. Era un tizio simpatico, ma poco incline alla diplomazia. Litigioso, talvolta inutilmente chiassoso. Faust dei tre era di gran lunga il più intelligente, ma aveva bisogno di una squadra per sopravvivere nel nuovo mondo senza Amici.
Scoprì che i suoi simili, potevano anche essere suoi amici, e che senza l’opprimente vigilanza degli scomparsi, le relazioni avevano una maggiore fluidità. Erano finalmente liberi di scappare, stare insieme, aggredire… Il problema era la lunga, lunga, direi quasi eterna consuetudine a dipendere dagli Amici. E non parlo della vita di Faust o di Liza o Muffo: parlo delle vite di tutti i loro predecessori, fino all’inizio dei tempi. Una simbiosi fra creature differenti, ma affini per alcune necessità basilari, e bisogno di calore. Gli Amici risolvevano così, in questo rapporto non semplice, antiche necessità di essere amati in maniera incondizionata, anche se questo era più vero per il popolo di Faust che per gli Amici.
Un “faustiano” poteva amare il proprio Amico indipendentemente dalla sua condotta: avrebbe potuto ucciderne i figli, seviziarlo, abbandonarlo per mesi in un ricovero squallido e sporco, ed il suo amore non ne avrebbe risentito. Se un faustiano avesse aggredito un altro Amico o il figlio di un Amico veniva inesorabilmente condannato a morte. Senza tanti complimenti, nè processi: un’iniezione e via. Nonostante questo, in punto di morte, non avrebbe cessato di guardare l’Amico con la stessa fiducia e amore incondizionati.
Parliamoci chiaro: per i faustiani l’amore incondizionato era più importante della libertà.
Ma l’amore incondizionato non è la libertà? Il suo culmine, la sua vetta, da cui precipitare nella dipendenza, nell’odio, da cui sfracellarsi anestetizzati dalla gioia, o planare dolcemente nella Valle di Lacrime? Si proprio quella, quella di J.C.
Difficile dire se Faust pensasse proprio a questo, mentre osservava i suoi nuovi compagni di avventure divorare i dischetti saporiti. Il pensiero e la sensazione in Faust avevano margini non ben definiti: essi sfumavano l’uno nell’altro, non tanto per prossimità di spazi o aree dedicate nell’intrico delle sinapsi, quanto per tempi. La sensazione ed il pensiero erano contemporanei, ed il pensiero come ragionamento sul proprio agire era istantaneo.
Faust osservava con grande interesse i propri compagni ma l’immagine andava fuori fuoco. Qualcosa più in là lo attirava. Era il ricordo di Jonas? Una reminiscenza della sua infanzia (del tutto inconsapevole)? Macchè… i suoi sensi erano attirati da un sibilo che ben conosceva. Del tutto impalpabile a chi non avesse prestato attenzione, o non avesse come Faust e la sua gente, quella capacità esorbitante di calarsi nell’attimo presente e dilatarlo all’infinito. Era un fischio leggero, come di aria tagliata. Poi lo vide. Era Pribbi.
Capitolo III
IlPribbi
Attraversò rapidamente una delle corsie del supermarket. Un disco giallo. Volava, planava anzi, nella Valle di Lacrime. L’esistenza dinamica di Pribbi, esigeva (a logica) la presenza di Ross, o di Diana, ovvero di un lanciatore. Non poteva Pribbi, oggetto sublime ma inanimato, planare di sua sponte.
Inconfondibile il rumore sordo e strascicato dell’atterraggio.
Faust schizzò via a cercare Pribbi, dove il rumore si era spento e la traettoria esaurita. Una corsa a perdifiato, ma Pribbi non c’era. Il sibilo era adesso alle sue spalle; Pribbi passò sopra la sua testa, giallo e rapido, per scomparire nell’oscurità. Faust si gettò all’inseguimento. Il trambusto attirò l’attenzione di Muffo e Liza, che pensarono di andare a vedere cosa stava succedendo. Pribbi di nuovo attraversò il loro spazio aereo ed i tre cominciarono ad inseguirlo. Anche Arnold dal suo angolo sicuro osservava la scena. Faust avrebbe voluto dire, coordinare una azione, ma ci fu il tempo solo per
uno scambio sconsolato di sguardi. Ovunque sentissero cadere Pribbi, Pribbi non c’era. E, osservando nella direzione opposta, cosa ancor più sconfortante, non c’era nessuno che lo avesse lanciato. Sicuramente si nascondeva. Ma dove?
I tre correvano confusamente, alla ricerca di Pribbi, alla ricerca del lanciatore, cercando di anticipare la traiettoria imprevedibile di un disco giallo scagliato da nessuno in un supermarket abbandonato.
Il disco giallo cadde e ripartì per diverse volte, senza che si manifestasse un lanciatore.
Poi infine cadde.
E cadde ben visibile al centro della corsia degli articoli da campeggio: Faust se lo accaparrò, non senza esserselo contesò con Liza e Muffo. Ma glielo lasciarono: persero rapidamente interesse per il dinamico oggetto giallo, preferendo stendersi su dei comodi plaid in esposizione vicino ad una tenda. Avevano mangiato troppo, ed era il momento di riposare, non di correre dietro a misteriosi dischi gialli.
Faust era raggiante: teneva stretto Pribbi e attendeva che, da un momento all’altro, comparisse Diana, o Ross, o chiunque altro per farselo restituire e lanciarglielo di nuovo. Ma nessuno comparve.
Il mistero di chi avesse lanciato Pribbi, che sicuramente potrebbe appassionare noi, non interessava a Faust; poteva incuriosirlo un attimo, ma non era per lui oggetto di indagini e speculazioni astratte. A lui interessava rivedere Ross. Rivedere Diana. Al limite Jonas. Anche la signora Brandauer, al limite. Di tutto il resto non gli fregava un cazzo.
Però un’idea (se così possiamo chiamarla) se l’era fatta: non è stato nessuno di loro a lanciare Pribbi, ma qualcuno doveva pur essere. Forse più di uno, perchè Pribbi scompariva e veniva rilanciato da altre posizioni. La deduzione fu semplice: c’era qualcuno oltre loro nell’apparente desolazione del supermarket.
Qualcuno che voleva stabilire un contatto, ma Faust non aveva ancora questa consapevolezza.
Potrei aggiungere, a beneficio del lettore, che questa “entità” non era assolutamente percepibile da Faust, nè dai suoi compagni. Nemmeno Arnold dal suo nascondiglio, posto in alto, riuscì a scorgere qualcuno. Sempre a beneficio del lettore direi di chiamare le creature come Faust ed i suoi simili, in onore al nostro e per evitare giri di parole, Fausti, e non “faustiani” che sa di corrente di partito, di congrega e sinceramente non amo nessuna delle due cose.
I Fausti, e gli Arnoldi. Capuleti e Montecchi. Per davvero. E Amici gli altri, quelli che si sono dileguati da un giorno all’altro. Ma è andata veramente così o è la memoria particolare dei Fausti che ci restituisce un quadro impreciso? Certo che sono scomparsi, ma se la sono data così, alla chetichella, dall’oggi al domani?
Sicuramente questa scomparsa ha avuto dei prodromi, un culmine e uno strascico prima del suo compimento. No, gli amici non sono stati disintegrati o teletrasportati. Sicuramente si tratta di una deportazione: vi sono segni di lotta.
I Fausti ne sono stati testimoni, ma non avendo un apparato mnemonico tale da permettergli di eseguire concatenazioni di eventi troppo articolate, essi non sono in grado di ricostruire per noi, in maniera attendibile, con tanto di date, ore, identificando i momenti salienti, quanto è successo. Soprattutto, lo avrete capito, i Fausti non parlano e questo crea un ulteriore difficoltà. Eppure la patata bollente va pelata adesso, perché da qui a due, tre mesi, i Fausti dimenticheranno tutto e ritorneranno a far parte del grande flusso delle cose, come altre creature che abbiano coltivato scarsa dimestichezza con gli Amici. Diana e Ross ancora piuttosto vividi nei ricordi di Faust, ogni giorno sbiadiscono: non sbiadisce l’amore che prova per loro. Quello, anche se ricomparissero fra venti anni, si riaccenderebbe all’istante come una brace che pullula. E di nuovo incendierebbe il suo cuore.
All’istante.
Jonas, invece dopo questi primi giorni di peregrinazioni e motivo delle stesse, comincia ad essere diafano, quasi impalpabile. E questo nonostante Pribbi, la cui venerabile presenza fece la sua primissima apparizione nella vita di Faust, proprio grazie a Jonas.
Grazie Jonas: che cosa vuoi che sia la gratitudine? Una convenzione un po’ mafiosetta? Un do ut des pieno di smancerie? Gentilezze che trovano il tempo che trovano. Jonas dovrebbe, anziché aspettarsi gratitudine, gioire di aver per primo mostrato Pribbi a Faust. Gioire del dono in sè.
E su queste considerazioni, un po’ lagnose, sorgono le religioni monoteistiche. Pribbi poteva essere per Faust un idolo di tal sorta. Ma era molto di più di un idolo: era un Moto. Un principio attivo, una Gioia, una dipendenza senza astinenza. Un Nutrimento Spirituale. Si, ok: un Dio.
Ma senza quei fasti, quelle figurazioni o quelle iconoclastie di cui lo ammantavano gli Amici. Un dio allegro, giallo, concluso in sé stesso, tutt’altro che onnipotente, anzi, una Preda.
La Preda infinita, quella che non si smette mai di cacciare, la Preda immortale, che si rigenera e una volta catturata è pronta di nuovo a fuggire. Ora, per fare ciò, Pribbi necessitava ( così come Dio necessiterebbe di un prete ) di un Lanciatore, ovvero un Amico che lo mettesse in moto, scagliandolo nello spazio.
Stavolta però, agli occhi di Faust, parve compiersi un miracolo: Pribbi era automobile (nel senso che si muoveva da sé) privo di Lanciatore. Oppure, terza ipotesi, esso era mosso da entità non percepibili, per convenzione e comodità, chiameremo Moventi o Animatori.
Avreste preferito Angeli? Alieni? Demoni? Fantasmi?
Come stabilire certe nature incerte, addirittura non percepibili se non implicitamente, dedotte dalle traiettorie di un disco giallo in un supermercato abbandonato, e affibbiare ad esse lo stigma del soprannaturale o del fantascientifico?
I Moventi molto probabilmente esistevano e nel loro esistere, potevano ricordare gli elfi. Sicuramente amavano nascondersi, per timidezza o per celia? Difficile stabilire il confine fra dispetto e ritrosia.
Non erano certo vigliacchi: escludiamo questa eventualità, un po’ sulla fiducia. Erano buoni? Cattivi? Tutto da dimostrare. Essi si annunciavano in maniera un po’ giocosa agli ultimi abitanti della Terra.
Ed è piuttosto logico pensare che non erano di questo mondo, o che fino ad oggi, su di esso avevano occupato una posizione marginale, di discreti osservatori.
Capitolo IV
I Lanciatori parlano nel sonno a Faust.
Venne notte e Faust sentì oltre alla programmatica sonnolenza del giogo circadiano, un’inedita sensazione. Si sentiva il cuore. Non ci aveva mai pensato prima: ne era cosciente, dopo una corsa, per via del suo battito più frequente, ma stanotte il suo cuore aveva acquistato pesantezza. Tanto che pareva rimbombare nel suo petto vuoto, come un tamburo in una cattedrale abbandonata. Egli chiamava a sè la coscienza di Faust, dolorosamente la scuoteva. Ma la coscienza dei fausti era nebulosa, conosceva le magagne del confine fra organico e inorganico. Le sperimentava direttamente sulla propria pelle. Era dunque saggio essere nebulosi. Era opportuno non avere idee chiare sul passaggio nodale fra la materia inerte e la vita. Ma quale pessimismo! La scoperta sconcertante non era quella avvilente per cui la vita è solo un divertissment della materia inorganica, piuttosto scoprire quanti preziosi germogli abitano un minerale, come in un elettrone brilli già un barlume d’intenzione. E nel più infimo sasso serpeggi un messaggio, incessantemente “voglio vivere” – un messaggio da rivoltoso, autenticamente
trasgressivo che miliardi di anni fa fece del nostro pianeta un compiuto esempio di vita a dispetto dell’inesorabile decadimento cui tutto l’universo sembra sfarzosamente partecipare.
Perchè sfarzoso? pensate alla magniloquenza delle supernove, ai colori sgargianti delle nebulose, alle stelle che brillano come diamanti, e brillando eplodono, inospitali alla fragile vita come ci è nota, e tuttavia di questa, il movente. Uno sfarzo radioattivo, tossico, ostile che una serie di eventi fortunati seppe volgere a proprio favore. Un sottile velo come di cipolla, che ospita una miriade di esistenze organiche, che ogni giorno da miliardi di anni, rivendicano il loro riscatto dall’inorganico alla cupa immensità inerte dell’universo. Pensate alla muffa, a quella polvere verde che togliete con un gesto rapido e distratto… oddio, toglievate… siete tutti scomparsi, come lei. In un attimo, distrattamente, senza tante manfrine.
Faust non poteva certo articolare questi pensieri: si limitava a sentire il cuore rimbombare e dovette alzarsi. Cercó acqua, si dissetó ad una pozzanghera, cercò il volo del Pribbi, fiutò l’aria. Liza e Muffo dormivano, si sorprese di come non potessero avvertire il rimbombare del suo cuore. Si sorprese di come non lo vedessero. Faust era diventato invisibile: poi scorse accanto a Liza e Muffo, lui stesso, adagiato, piombato nel sonno profondo. All’inizio pensò si trattasse di un altro Fausto: ma era inconfondibile il suo odore. Si tirò indietro, spaventato. Rinculando: andò a sbattere contro qualcuno. Finalmente vedeva i lanciatori. Erano 3 ognuno con il suo Pribbi. Avevano l’odore e lo sguardo di Diana e Ross.
“Faust, amico, il mondo é cambiato: quelli che conoscevi ed in cui riponevi fiducia, non ci sono più. Noi che viviamo qui, da prima della vita, non possiamo sostituirli. Non possiamo che esistere in un sogno o apparire fugacemente in una forma che tu conosci. In quei momenti quindi, ti consiglieremo e ti guideremo, ma non potremo mai essere quello che, per comodità, ti siamo apparsi. Abbiamo preso le sembianze di Diana e Ross per portarti un’annunciazione. Faust, adesso siete liberi, tu ed i tuoi simili ed avete ereditato il mondo. Si ricomincia questa storia di scimmie che imparano. Ma stavolta non sono scimmie. Ora tocca a voi: il mondo
che conoscete ben presto sparirà. Le luci elettriche ecco che iniziano a spegnersi: i sacchi di cibo si esauriranno e dovrete ritornare alla vita, alla caccia, creare gruppi, stabilire territori, confini, alleanze e guerre. Questa è la libertà. Un uomo disse che è partecipazione. Si, ma non consensuale. Mi guardi strano: é vero, non puoi capire. Ma ricorderai questo sogno, ed il tuo cuore.”
Faust si risvegliò rinfrancato da questa promessa e minaccia a un tempo; e con lui si risvegliarono Liza e Muffo. Sembravano dirgli: ehi, stai una bellezza! E perché non assecondarli? Era venuta l’ora di uscire da quel posto oscuro, fuori il mattino premeva con la sua luce, spietato. La luce non dava scampo, era la luce del mattino, quella che non lascia ombre, che prima di scaldarti ti congela, ti interroga come in un terzo grado, e ti sgama. Il mattino inquisitore reclamava all’appello i nuovi padroni del mondo (così sarebbe parso da una prospettiva rigorosamente antropocentrica, ma dell’umanità non vi era più traccia quindi si potevano vedere le cose da un’ angolazione diversa … c’era tutto il tempo per sbagliare, un’intero nuovo ciclo evolutivo per l’esattezza).
Ordunque tutti i Fausti come guidati da un richiamo silenzioso ma imperativo, si radunarono nel piazzale vuoto del centro commerciale e li stettero a piccoli gruppi a studiarsi, poi si sedettero compostamente a terra e osservarono tutti in una direzione. Arnold li seguiva da breve distanza, senza farsi notare. Nel cielo si era formato un bizzarro arcobaleno lenticolare, che ben presto assunse una dominante più chiara, e prese ad ingrandirsi. Faust si mise allora a saltare, come a dire “io so cos’è, so chi sono! Mi sono apparsi stanotte…. Hanno il Pribbi” ma nessuno lo considerava. Il messaggio era lo stesso che lui aveva udito la notte, declinato in chiave universale, ma il succo era quello. Terminato il messaggio, i Fausti iniziarono le loro complesse ritualità di agnizione. Con esiti diversi. Di fatto si scatenò una lotta violenta, dove in molti, ebbero la peggio. Faust con i due amici, fuggirono in tempo. Si, potevano andare da Jonas. In campagna. Lontano dalla città sicuramente. Il Grande Pribbi si era dileguato. I tre corsero a lungo, spesso fronteggiando gruppi di malintenzionati o di disperati incattiviti. Era chiaro che tornavano ad affermarsi antiche gerarchie, di quando i Fausti popolavano le foreste, e non erano Fausti, ma predatori esperti, in grado di coordinare azioni di caccia efficaci. Adesso, ben lungi dall’aver ritrovato di colpo l’antica perizia, alcuni Fausti erano interessati semplicemente ad acquisire supremazia incognita.
Andrea Betti
( to be continued)