Negli ultimi mesi abbiamo detto e ripetuto due cose: che il mondo della cultura non può ritenersi immune al flusso di collassi generato dall’Antropocene e che il collasso, in attesa del meteorite o delle concussioni delle bombe H, può anche essere cognitivo. I focolai di Coronavirus in Italia non sono un collasso ma stanno testando/palesando la tenuta di un progetto biopolitico che funziona perché appunto c’è un collasso cognitivo in atto. Non è panico o isteria quella che stiamo registrando in questi giorni, è la normale e prevedibile conseguenza di una parabola culturale prossima al crollo. È necessario un salto cognitivo, presto. Sapevamo che un virus nuovo sarebbe arrivato, che il cambiamento climatico avrebbe estinto l’inverno, che ogni crisi economica sarebbe stata peggiore e diversa da quella precedente. Sapevamo ma non eravamo pronti, e non lo siamo ancora.
Siamo incapaci di informarci, di pensare, di razionalizzare, di distinguere, di maneggiare la complessità e di reagire criticamente. Preferiamo chiuderci in casa, fare scorte, assecondare ordinanze e direttive che bandiscono scuole, musei e pub ma non un ristorante o un supermercato, in un distanziamento sociale e generazionale selettivo. Siamo impreparati al pensiero e alle pratiche dell’emergenza, reale o fittizia che sia. Non sappiamo gestire la paura perché incapaci di gestire qualunque fiction complessa. Ora, al professionista della cultura dovrebbe essere chiara una cosa, ormai: società di massa e sistema dei consumi sono perfettamente omogenei. Sospendere la scuola, gli spettacoli, le manifestazioni culturali, i festival perché occasioni di contagio è diventata in appena tre giorni una cosa accettabile, tollerabile, comprensibile. La popolazione sta anzi rispondendo molto bene a questo modello di vita ipoculturale e il mondo di chi legge e fa libri dovrebbe capire una volta per tutte che non solo è stato definitivamente abbandonato dalle istituzioni ma che è stato abbandonato come ci si spoglia di un bene superfluo. La bolla è scoppiata, una bolla durata vent’anni. Abbiamo dimenticato che la cultura non è solo un business, un tool di posizione per stare in società, ma è soprattutto un sistema per tessere il tessuto metafisico che crea una società, il modo per sopravvivere a glaciazioni e catastrofi antiche e moderne, una tecnica di gestione dell’immaginario. Aver continuato a proporre storie, romanzi e letterature da Età dei Sentimenti, come se l’Antropocene con le sue sfide e pericoli non fosse manifesto ed evidente, chiamare letteratura certe dissipazioni di energie e denaro non è solo tragicamente inutile e cieco ma ha qualcosa del criminale. Il romanzo dell’Età dei Sentimenti è parte organica del progetto biopolitico che si sta per concludere. Distrarre, placare, ridurre la capacità di elaborazione della popolazione dei lettori è stata forse un’operazione fruttuosa, sicura. Prima. Adesso sono le case, le famiglie e la provincia dell’Antropocene.
Così non basta sperare che passata l’emergenza tutto tornerà come prima. Il paese non sarà più come prima. La gente avrà metabolizzato i riflessi dell’eccezione, la stretta securitaria sarà ancora più normale e “giustificata”, le maglie della rete saranno un po’ più strette per tutti e su tutto, lo spettro del ritorno del virus sarà un’ortopedia-spauracchio di efficacia sociale duratura. In tutto questo la cultura sarà segnata per almeno una generazione e il messaggio che è passato a livello collettivo è che nell’emergenza “la cultura non serve”, e può essere sacrificata. Dov’erano le persone in grado di dire qualcosa di intelligente in mezzo a una marea di battute un po’ isteriche o di frasette tra “oddio l’apocalisse” e “sticazzi”? Detto altrimenti, una bolla spocchiosa, paradossalmente ignorante e impreparata, fatta di retailer e inventori di falsi servizi, di incompetenza commerciale e mediatica, di mercanti della fuffa, di truffatori e ladri di lenticchie, la cultura indipendente che brama la major, insomma, non è stata capace di far nulla per proteggersi. Non solo di intercettare tempi e mutamenti, ma anche solo di salvare sé stessa. Incapace di praticare l’antifragilità, nella tana per nulla profonda del business as usual, ora quegli affari sono finiti, continuano in un’inerzia di sistema che scimmiotta movimento e vitalità attraverso video imbarazzanti e trovate di marketing anni Ottanta. Come una categoria sociale che non conosce i propri diritti e non sa lottare per difenderli si è fatta mangiare viva. Nei prossimi tempi, mentre le economie più forti scricchioleranno sul serio, le economie fragili, oneste o disoneste, nobili o farlocche, si afflosceranno del tutto. Librerie vuote sono una catastrofe per tutta una comunità, librerie che non potevano smaterializzarsi, farsi smart, mura che reggevano il bastoncino corto da anni. Libri invenduti. Manifestazioni in calo verticale. Esibizioni spettacolari gonfiate. Da mesi stiamo dicendo che non è più questione di fare progetti editoriali fin de siècle ma di interrogarsi su come scrittori, editori e librai possano inventare tutti assieme un nuovo modello per consentire a chiunque, nessuno escluso, di passare nell’imbuto.
Bisogna comprendere ora che con il mindset del borghese che scrive letteratura e il neoliberista che struttura filiere fragili non ci sarà alcuna ripresa dopo il crollo e la quarantena delle immagini. Acemoglu e Robinson in Perché le nazioni falliscono smentiscono il mito e il pettegolezzo della riconquista di spazi e diritti dopo le epidemie del passato. Sistemi economici arretrati non aumentarono diritti e trasferimenti al popolo dopo la Peste nera nell’Europa dell’est. Il crollo è crollo, non rinascita.
Da mesi cerchiamo interlocutori per discutere su come investire la cultura di un ruolo di sopravvivenza e di guida in uno scenario ormai palese di collasso cognitivo. Ma oggi è il giorno zero, siamo fuori tempo massimo. Gli scrittori, come famiglie mononucleari, fanno scorte di pasta solo per sé, sperando di poter bollire e rimestare ancora gli ingredienti del letterario che hanno sempre cotto e ricotto. Gli editori governano filiere di prodotti da scaffale che rimangono impietosamente lì mentre la distanza formale tra il letterario e il mondo si riduceva, e la distanza tematica si azzerava. I librai sopravvivono come vecchie botteghe assediate da Walmart, dove Walmart non sono le major ma la mentalità neoliberista che sorregge di fatto anche il mondo indipendente.
Una narrazione emerge dall’Antropocene: siamo tutti colpevoli di esistere come stiamo facendo.
Ancora: lo smartass incapace di empatia, che ride e dileggia i Sapiens impauriti in un inutile e compulsivo rito apotropaico, sarà il primo a subire il crollo emotivo della Catastrofe.
Ora il testimone passa impietosamente ai pochi, veri narratori di storie, ai pochi editori che non hanno avuto paura di continuare a proporre storie della complessità. Quei pochi che potranno portare in salvo una manciata di cose autotrasparenti e utili per sopravvivere nei tempi della pura vita. No. La cultura non è finita. Sperare di farne ancora come prima, come se nulla fosse, invece sì. Le storie da raccontare non sono esaurite, ma non saranno più quelle degli stranded asset immaginifici. Quello che è finito è lo spettacolo, è finito il fugazi.
MM AV
3 pensieri riguardo “It’s the Anthropocene, you fools!”