Note a margine del Contenimento // Sul fallimento

Per taluni (spero sinceramente pochi), il virus avrebbe restituito alla politica il suo “perduto primato” ‒ sul governo della natura e, in particolar modo, sull’attività umana che più di ogni altra ha fatto della natura la propria sorgente: l’economia. Un’affermazione che susciterebbe ilarità, se non risultasse pienamente offensiva; un vero e proprio insulto all’intelligenza ‒ all’alba delle dichiarazioni di Trump, negli USA, e di Confindustria, qui in Italia. In radicale opposizione alle dichiarazione di tutti i “cervelli ciechi” che, nelle ultime settimane, stanno vomitando variopinte allucinazioni, i mercati sembrano aver sfoderato un phisique decisamente impressionante, stringendo in una morsa letale le misure di contenimento della pandemia. Più che della libertà filosofica di “fare qualcosa di ciò che il destino fa di noi”, l’estensione della zona di contenimento ha, di fatto, messo al centro del palcoscenico l’oscenità pubblica e plateale della “libertà di fare ciò che i mercati hanno deciso di fare di noi”.

In “Metafora del Contenimento” ho tentato di riflettere sullo sradicamento della rappresentazione politica, esistenziale e teologica operata dall’evento pandemico, cercando di confutare l’ipotesi diffusa dell’avvento di un nuovo stato di polizia ‒ confutazione non dico confermata ma, forse, parzialmente avvalorata dall’impressionante quantitativo di contraddizioni, trasgressioni e inconsistenze, viste finora. Il governo, pur avendo gradualmente messo in atto misure sempre più restrittive, si è limitato a “indicare”, a “suggerire” e a consentire risibili “autocertificazioni”, mettendo a nudo non tanto un vuoto politico ‒ né tantomeno una rinascita del politico ‒ ma una subordinazione cronica e nevrotica di tutta la politica al modello neoliberale. Dal basso, d’altra parte, l’indicazione, il suggerimento, lo sprone e il confronto concreto e serrato, sembrano essere l’unica risposta possibile a tale subordinazione: un approccio che tenta di recuperare la dimensione collettiva, “atletica”, avventurosa e mutualistica propria alla nostra specie, dischiudendo l’unico orizzonte politico individuato da decenni di fallimenti. Tuttavia, affinché tali fallimenti possano espandersi ulteriormente e divenire, in qualche modo, fruttuosi, COVID19, l’evento pandemico, deve assumere tutti i tratti dell’Evento maiuscolo. L’interrogativo, in sostanza, è il seguente: può il virus, da goffo cigno grigio della narrazione fascista e survivalista, tramutarsi in un possente cigno nero? O, meglio, è possibile che tale Evento si sia già rivelato nella sua piena e totale nerezza? La risposta dipende dal grado di antifragilità che riusciremo a maturare nel bel mezzo della tempesta di citochine. Rimanere lucidi è il primo passo, ma anche il primo rivolgimento catastrofico per una civiltà che ha fatto del panico e della negazione le proprie modalità favorite di coping.

L’ipotesi di lavoro è che l’evento pandemico possa tramutarsi in un Evento micro-escatologico (una sorta di piccola-apocalisse, degna delle proprie umili origini e della sua natura microscopica), costringendoci a rimuovere il “Velo di Maya” con il quale abbiamo ammantato il nostro sguardo per lungo tempo. Se, da un lato, la teoria del cervello cieco afferma l’impossibilità di raggiungere il Reale, dall’altro, la tradizione pessimista e tragicista ci ha insegnato a diffidare tanto della Grande Illusione della Rappresentazione, quanto della miriade di piccole illusioni che costruiamo passo dopo passo, collettivamente. Per la precisione, è proprio l’imperscrutabile vuoto del Reale a fungere da attrattore allucinatorio, da telo sul quale proiettare le nostre elucubrazioni ‒ esistenziali, ideologiche, filosofiche e… politiche.

Se è la stessa dialettica dello spirito umano a rovesciare dal loro trono tanto le Grandi Illusioni (le “visioni del mondo”) quanto le piccole illusioni (le opinioni e le credenze) ‒ solo per installarne di nuove ‒ non vi è dubbio che sia sempre la medesima dialettica a richiedere un crescendo, un’infinita amplificazione del fallimento umano, sotto forma di un differente proseguimento dell’avventura o di un suo brusco arresto. L’evento pandemico, in quanto irruzione della natura (non più come sorgente del valore, ma come soggetto ignoto e indomabile), richiede una disintegrazione totale della politica e delle sue illusioni, un addentrarsi nel malinconico oceano del naufragio umano e cosmico.

Dal fallimento della Politica maiuscola e delle prassi politiche è necessario procedere al fallimento (più spettacolare e, ci si augura, più efficace) dell’anti-politica e dell’anti-prassi ‒ addentrandosi tra i bui meandri di un dispiegamento continuo, ricco di rischi. L’abbandono di questo orizzonte “troppo umano” della Politica, della speranza e del proseguimento-come-se-nulla-fosse, ci orienta in direzione di un’uscita radicale dagli automatismi e dalle cattiva infinità dell’attuale sfera politica. A essere sciolta, in questo momento, è l’interfaccia, il matrimonio dialettico ‒ “divino e satanico” ‒ di Potere e Antagonismo. Questo matrimonio, come ogni matrimonio che si avvia verso il divorzio, ha fatto dell’eliminazionismo la norma: “Andrà tutto bene“, ad oggi, è il mantra che prelude all’impossibile e indesiderabile ritorno alla normalità. Al contempo, tuttavia, è necessario evitare di sovraccaricare di desiderio l’evento, né dal lato della dissoluzione destinale (del corpo umano o sociale), né da quello del recupero (reazionario, se non addirittura militarizzato), di uno stato omeostatico precedente. Divenire autocoscienti, in questo momento, significa comprendere che le varie tendenze a invocare l’esercito o, all’inverso, l’ecatombe sono sintomi, non soluzioni.

Senza sbilanciarsi ‒ e limitandosi ad aggiungere al rumore di fondo riflessioni necessariamente frammentarie, confuse e sussurrate ‒ dobbiamo ammettere la possibilità della metamorfosi dell’evento in Evento (con un contagio di proporzioni globali, strascichi sul lungo termine e impatto duraturo). Tale decisione sperimentale comporta l’individuazione di alcuni punti chiave ‒ che si vogliono “umili” e assolutamente non interni al discorso militante:

– La vita continua anche senza il sostegno delle istituzioni (pre-Evento). Il mutualismo, la resilienza, la lucidità, il buon senso e (paradossalmente) il cattivissimo senso di chi non si arrende alle ninne nanne consolatorie, saranno vitali in questa fase. L’abbandono (al quale si cerca, in certi casi, di porre riparo solo in questi giorni) dei malati cronici, dei detenuti, dei malati terminali, dei ragazzi con bisogni educativi speciali, dei lavoratori della gig economy e di quelli cognitivi, dei precari, dei migranti, delle donne impegnate nel lavoro di cura, mostra chiaramente che siamo soli ‒ e a costo di ripetermi dico: “per fortuna”, non tutti i mali vengono per nuocere.

– Senza la pace sociale assicurata dal “normale” proseguimento delle attività di produzione e distribuzione, il potere, i mercati e la democrazia rappresentativa sono rimasti nudi. Per certi versi, si è realizzata parte della profezia ‒ temporaneamente confutata da Mark Fisher in Realismo Capitalista ‒ di Nick Land: il Capitale preferisce vederci morti, piuttosto che non-consumatori e improduttivi. I mercati si sono emancipati un granello di più dall’essere umano ‒ che, quotidianamente, li anima attraverso il lavoro e i consumi. La democrazia rappresentativa, da parte sua, si sta sbattendo in questi giorni per assicurare la prosecuzione del tempo ciclico produttivo e di quello storico lineare (tramite la narrazione del paese che #nonsiferma) ‒ ma anche, evidentemente, per accaparrarsi qualche voto in più.

– L’insufficienza della Politica e, in particolar modo, della politica attuale, mostra come questo denudamento della democrazia rappresentativa si rifletta sulle prassi politiche antagoniste pre-Evento. Si potrebbe ipotizzare, in questo senso, una messa in discussione del desiderio di tornare alle vecchie pratiche. Lo slittamento cognitivo e culturale ci impone di domandarci se non si tratti di pessima dialettica; evidentemente, la sublimazione a un nuovo stato degli orizzonti teorici e pratici non potrà accompagnarsi a una stagnazione retroprogressista. L’ingresso nell’anti-politica e nell’anti-prassi indica un’equivalente uscita da tutti gli scenari precedenti, rivelando le vecchie pratiche come frutto della costrizione di un Maestro nei confronti dei suoi schiavi (“votate! scegliete! manifestate! chiedete! imparate! Fate altra cultura, altra politica, basta che sia nel mio orizzonte o in opposizione a esso”). A latere, vorrei ricordare che l’accanimento sulla popolazione “stupida” e “bestiale”, ma anche le tentazioni alla San Giuliano Ospitaliere (il santo che, nel racconto di Flaubert, abbracciò il cristo lebbroso), non sono che residui di “pensiero fragile”, strumenti concettuali obsoleti e francamente riduttivi dell’attuale complessità. È bene rammentare l’invito di Deleuze a “credere a questo mondo qui, di cui gli idioti fanno parte”.

– Tale slittamento cognitivo fa emergere, al contempo, la centralità del paradigma malinconico-apocalittico ‒ la gente nei bar parla di La Strada, e, francamente, non so se interpretarlo come un buon segno o come un cattivo segno. Ciò che conta è che la sete di “fine del mondo” e sempre più palpabile e che gli immaginari siano saturi di annientamento. Solo i cervelli cechi non se ne sono accorti, preferendo assecondare i sordidi Maestri della Politica, i sofisti da quattro soldi e le proprie tasche. Apparentemente, si è tornati al modello simbolico della Guerra Fredda, dominato dalla paura, dal panico e dal sospetto ‒ con la differenza fondamentale che le bombe sono già scoppiate, e si chiamano Antropocene, Plantagiocene, Capitalocene, Chthulucene e (oggi più che mai) Eremocene. Senz’altro, “tutto quel che ha un valore è stato forgiato all’Inferno“, ma è ancora una volta importante tenere a mente che questo Inferno è tutto quel che abbiamo. L’invito è ad attivare un “pessimismo speculativo”, tanto nel pensiero quanto nella volontà ‒ le basi evoluzionistiche del pessimismo sono ben note, e potrebbero tornare utili in questi frangenti.

– Come accennato poco sopra, il salto apocalittico nell’Evento non fa attualmente pensare a una Grande Escatologia, ma a una piccola escatologia, una micro-escatologia. Questa microscopicità virale, che invade e viola i corpi (ancora, individuali e sociali), ci obbliga ad aumentare corrispettivamente la complessità. La malinconia, l’orrore, la minaccia, l’ineluttabile, il weird provengono senza alcun dubbio da una natura ostile, o quantomeno indifferente ‒ dal Pianeta e, forse, da un futuro “mondo-senza-di-noi”. Il Pianeta, tuttavia, risponde alle logiche filosofiche di una visione confusa, mediata e indistinta (blurred); la minaccia microscopica, al contrario, distaccandosi da tale massa amorfa, mette al centro gli eterogenei sciami che compongono mereologicamente il Pianeta ‒ ma lascia anche intuire gli abissi e i gradini ontologici che lo frammentano. Il negativo negativo (il negativo che si nega allo sguardo e, al contempo, nega ogni fantasia umana) non è più sufficiente, né lo è mai stato. Il recupero della dimensione positiva passa attraverso le piccole illusioni, le narrazioni e, in particolar modo, attraverso il dispiegamento dell’immenso potere dell’immaginazione (strappato alla quadruplice morsa delle grandi narrazioni, del “mercato delle idee”, dell’accademia e dell’ideologia). Piccoli passi verso un grande fallimento, capace di arrestare la ruota di un progresso che, ormai ‒ come una sorta di treno da film muto ‒ fa solo finta di avanzare verso il pubblico terrorizzato.

Claudio Kulesko

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