Bambini e anziani di fronte la gelateria, nella piazza del paese.
Un uomo sale su un Toyota Rav blu nuovo di concessionaria. Ottima scelta, ottimo rapporto Km/litro. Al volto porta una mascherina protettiva, una Ffp2 costosa, la tiene indosso mentre guida. Parla al telefono, nervoso, probabilmente grida. A una velocità eccessiva sparisce in una strada secondaria.
Una donna è alla cassa. Un cappotto rosso, dei guanti senza latex troppo larghi, orologio e borsa costosa, scarpe rosse con un tacco alto. Il suo carrello è pieno di gallette di riso e yogurt. Mentre è in fila riempie il carrello, si aggiusta i capelli.
La cassiera mi chiede come indossare la mascherina. Dice che adesso ha capito perché da parecchie settimane ormai mi allontano dalla fila, attendo che gli altri paghino ad alcuni metri di distanza, almeno due. Sì, è socialmente accettato adesso indossare una mascherina protettiva.
«Non deridere, non piangere, non condannare ma comprendere» scrive Baruch Spinoza ne L’etica, perfettamente citato in Un’altra fine del mondo è possibile di Servigne, Stevens e Chapelle, appena uscito per Treccani libri.
Ci sono molti errori in questi scenari. C’è un bias cognitivo nella descrizione della donna. Dovevamo parlare di più, meglio, con più forza. Bias e stressor, il loro effetto si svolge adesso di fronte ai nostri occhi. La difficoltà di rendere un iperoggetto presenta il suo conto nella difficoltà di leggere libri, sulla memoria, nella gestione dello stress. Azioni come andare al supermercato in piena notte o di tornare nei luoghi di nascita hanno delle basi nella scienza della sopravvivenza che a sua volta si basa su modelli antropologici accettati. Non giustificare, ma i fondamenti della comprensione sono enormi, solidi. La comunità nazionale non ha ancora elaborato: la nuova situazione, i nuovi tempi, il lutto per i nostri morti. Si sta appena svegliando dalla cecità cognitiva e dal denial da catastrofe. Le prossime fasi sono rabbia immotivata, la mente si ribella al nemico invisibile, non vuole essere impegnata a fare quello che va fatto per qualcosa che non vede.
Eppure avevamo tutti visto. Una nazione-civiltà pronta per il suo secolo dopo immensi sacrifici umani, generazionali, personali, intimi costretta a fermarsi, al contenimento, nella solitudine di molti. Non abbiamo visto tutti le immagini delle città fantasma, delle squadre di disinfezione negli edifici e nelle strade, degli individui con indosso le mascherine? Pensavamo forse di essere immuni, che precauzioni e distanziamento sociale qui non sarebbero serviti per qualche fiction per cui bianchi e lontani saremmo stati protetti? Un crollo cognitivo e narratologico si sta svolgendo di fronte ai nostri occhi adesso, lo stiamo subendo indipendentemente dal livello di preparazione materiale e mentale. Essere pronti al collasso, collassonauti, non dà alcun bonus intellettuale o morale, è come essere diventati cattolici: un incidente della vita, un caso della lotteria culturale prima che naturale.
I preparati, “gli Antropocenici”, di diverso hanno soltanto gli occhi, attenti, allenati, formati per un caso della vita e degli interessi a vedere rischi e crepe. I segni erano tutti lì, chiari, manifesti. Occhi ma non bocca per giudicare. Collettivamente non eravamo preparati ad accettare il panico, l’emergenza, lo scenario del contenimento. C’è una fatica particolare che anche i preparati subiscono. Questa fatica delle piccole cose, dei protocolli personali di sicurezza, è più grave, dolorosa, invasiva, causa stress nuovo, per la mente impreparata. Qui si fonda il non giudicare, come igiene intellettuale, la partecipazione al dramma collettivo. Abbiamo avuto molto tempo per prepararci mentre la catastrofe si svolgeva in Cina, adesso è il momento di recuperare come si può il tempo perduto. Ognuno troverà il suo modo. Di certo la fortezza interiore adesso è sotto attacco: quanto forti saranno le trincee e le merlature tanto resistenti saranno allo stress da quasi quarantena. Avremmo dovuto dire di più e meglio, spiegare i dettagli, i processi narrativi e della psicologia nella catastrofe, dare consigli operativi e pratici, i fondamenti del gergo e del repertorio lessicale nel romanzo, gli essenziali del narrare e vivere nell’Antropocene. C’è una guerra e sta fiaccando spiriti e morale prima che i corpi o le finanze. Poi un’altra guerra di narrazioni continua.
È la storia dello Snowpiercer. Un treno che non si può fermare, che fermandosi sarebbe la fine. Il treno deve continuare a correre, la stabilità va mantenuta a costo di misure draconiane a cui però solo a volte ci si ribella e sempre più raramente. In quell’abitudine il draconiano del business as usual è accettato, giustificato perché il treno deve muoversi per forza. Il mondo è morto e la storia racconta che invece il treno è vivo. Siamo quelli del #Milanononsiferma nella cecità assoluta, il motivazionale che si racconta allo Snowpiercer, che tiene insieme gli abitanti dei vagoni del tardocapitalismo, che alimenta la locomotiva-paese. L’ottimismo dell’ancora una settimana, del ritorno alla normalità, del giochiamo nel frattempo si sta indebolendo come tutte le narrazioni interessate nella negazione della realtà. Lo Snowpiercer è un mondo morto che scimmiotta un pianeta che non esiste più. È una necrosi che pensa di essere vitale tra balletti, lazzi e repressioni. Un certo ottimismo è tossico in quanto da alla mente impreparata quello che vuole: uno scenario di un mondo che non esiste, che era nel collasso già prima del Covid-19, un invito a sognare il passato. Queste dosi motivazionali rallentano il processo di elaborazione del dolore da contenimento, ancora una volta ritardano il fatto di immaginare il futuro.
Questo blog e le sue scrittrici e scrittori, il saggio la Grande estinzione, TINA devono fare di più. Gli accelerazionisti italiani, il Gruppo di Nun, storici, collassologi, studiosi e scrittori della complessità posseggono gli strumenti concettuali per aiutare a elaborare questo shock, preparare al prossimo. Fiction is action come esortazione ancora e ancora. Faremo di meglio.