La gente si riversa sui balconi intonando l’inno nazionale ‒ rilasciando la tensione accumulata nel corso dell’ennesima giornata trascorsa in clausura, o in coda a un supermercato, o su un posto di lavoro ormai percepito come trappola mortale. Alcuni, i più aggressivi, cannoneggiano i vicini direttamente da uno stereo lanciato a tutto volume, urlando le strofe de Il Canto degli Italiani a squarciagola, non senza una certa dose di rabbia ed euforia ‒ manco fosse il 1848. «Domani mi metto sul balcone e come una pazza innamorata follemente della mia Patria canterò l’Inno», afferma un’utente su Facebook.
Se non è l’inno nazionale, sono canzonette della tradizione pop italiana (come Azzurro o Il Cielo è Sempre Più Blu), flash mob di vario genere (applausi in onore di medici e operatori sanitari, pentole impiegate come percussioni, concerti improvvisati, sventolii di bandiere tricolori). La popolazione riscopre un’antichissima forma di convivialità ‒ deterritorializzata per via aerea e sopraelevata, a involontaria imitazione dei richiami intermittenti di certe specie di primati ‒ proprio nel medesimo istante in cui un sentimento nazionalista, unitarista, si insinua tra le correnti libidinali generate da tale riscoperta. L’inno e il canto, il simbolo paternalista e il frastuono scaramantico, la marcia e il ritmo: traiettorie che attraversano trasversalmente i territori e gli ambienti, dischiudendo verso l’esterno il confine “di diritto” della proprietà privata e producendo linee di fuga. Uno spillover sonico, preceduto da un duplice contagio virale immateriale: da un lato, pulsioni e bisogni vecchi quanto la vita stessa, capaci di tracciare rotte verso l’ignoto; dall’altro, le onde psichiche concentriche di un potere che si replica, si espande e si rafforza, parassitando queste stesse rotte. Passare, in questi giorni, dagli scambi di vettovaglie di balcone in balcone, ponti di corde, spese solidali, dirette streaming e altre soluzioni mutualistiche, a chi si improvvisa watchman, segnalando attivamente alle autorità chi passeggia o si intrattiene all’aperto, è estremamente facile.
L‘abbiamo visto, in un primo momento, con la diffusione di diversi hashtag: i vampirici #Italianonsiferma e #Milanononsiferma, ma anche gli ottimistici (benché vagamente terrorizzati) #celafaremo e #andràtuttobene, e il paranoico “#restiamoacasa” (delle sorta di Wojack condensati in stringhe testuali). La pratica degli hashtag, di fatto, è risultata essere uno dei migliori modi per lenire l’isolamento sociale, ed è stata fin da subito incentivata dai governi colpiti dall’Evento pandemico. L’apposizione dell’hashtag all’interno dei post, difatti, tramuta l’impiego dei social network ‒ abitualmente, anzi, strutturalmente egoriferito e individualista ‒ in una serie di operazioni e procedure partecipative. Transitando dall’hashtag agli striscioni e alle performance alla finestra, tali procedure sono immediatamente trasbordate dal mondo semi-immateriale della rete a quello materiale ‒ evidenziando ancora una volta l’assoluta continuità tra le due dimensioni, mai sufficientemente sottolineata. Anche in questo caso, è bene notare come gli hashtag abbiano agito sia da collante del potere ‒ incentivando cooperazione, pace sociale e mitezza d’intenti ‒ sia, più fondamentalmente, da collante di specie ‒ costruendo o, meglio, facendo emergere una sorta di comunità parallela a quella definita dai confini dello Stato Nazione. Il paradigma dell’emersione mi sembra ormai la cornice metodologica più rilevante e fruttuosa: i nodi sono arrivati al pettine, in quasi tutto il globo, l’Evento sembra aver assunto le giuste proporzioni, rendendo estremamente evidenti le contraddizioni, le storture e i limiti dell’esistente ‒ le dichiarazioni di Boris Johnson, le denunce ai senzatetto da parte della polizia e l’arresto, qui in Italia, di alcuni sindacalisti, si vanno a sommare a quel che abbiamo già avuto modo di “ammirare” nei giorni precedenti.
Inutile ribadire ancora una volta come tale micro-apocalisse si sia abbattuta anche su ciò che rimane della teoria, della letteratura, dello spettacolo, della musica e della politica ‒ catturate e canalizzate dalla triplice oscenità del rito collettivo “post-pop-folk”, dello scongiuro negazionista e dell’atteggiamento da “chiagni e fotti” di non pochi.
Resi incandescenti dal vorticare dell’infosfera, gli hashtag, gli inni nazionali, i successi di Sanremo, gli articoli di fine spessore intellettuale, le attese snervanti dei comunicati del presidente del consiglio e la stessa (ambigua, imprevista e forse ‒ forse! ‒ imprevedibile) erotizzazione collettiva di quest’ultimo, evaporano, sublimando in un sistema di tic e automatismi informatici ‒ a loro volta innestati su un insieme di tic evoluzionistici. Una massa di zombie linguistici (semiotici, ma anche semantici) è in marcia, pronta a travolgere e divorare ogni forma di vita resistente: creature generate dal panico, che si nutrono del panico e che ne alimentano la sacra fiamma. Se l’Evento è stato in grado di riattivare la struttura della “doppia comunità” (tribale e umana), esso è stato anche il motore di un ulteriore sdoppiamento: quello tra individui e automatismi. Il soggetto che fa la spesa per l’anzian* vicin* è il medesimo che si rende protagonista di episodi di delazione in nome del #restiamoacasa; il virtuoso samaritano che ogni pomeriggio, alle sei, suona il flauto traverso per allietare il quartiere, è lo stesso che inneggia alla pena di morte per i detenuti in rivolta. Questa duplice tensione tra mutualismo ed egoismo non può essere travisata in quanto “natura umana” (l’essere umano sostanzialmente buono o cattivo e secondariamente rabbonito o incattivito dalla cultura), giacché le risposte adattive all’ambiente sono sempre contesto-dipendenti, storicamente situate e determinate dal patrimonio evolutivo di una specie. Gli atti di egoismo o, all’inverso, di altruismo sono la norma; ciò che è eccezionale è l’immediatezza con cui il soggetto introietta, replica e riproduce gli automatismi prodotti dal sistema informatico della propria epoca. Intuitivamente, verrebbe spontaneo pensare che, dal momento in cui non si incarna in prima persona alcuna autorità, non vi sia alcuna necessità di costringere altri a rispettare l’ordinanza emessa dal governo. Allo stesso modo, la comprensione nei confronti di chi, in questo periodo, sta affrontato gravi difficoltà ‒ essendo infine costretto a mettere in atto misure radicali ‒ dovrebbe essere un atteggiamento ordinario, non un “di più” dettato dalla situazione straordinaria. L’introiezione delle parole d’ordine del potere (con il loro portato razzista, classista, anti-ecologista e maschilista) segna di fatto il passaggio dallo stato di polizia ‒ definito dalla presenza di un poliziotto in ogni angolo ‒ allo stato di milizia ‒ definito dalla presenza di un poliziotto in ogni testa.
Questa armata zombie che tenta di uscire dall’Apocalisse ‒ di tornare alla “normalità” ‒ annichilendo ogni cosa, secondo procedure e comandi provenienti da un luogo “altro” o da una voce che riecheggia nel loro monotono flusso discorsivo, rievoca l’inquietante figura dell’Illithid ‒ un mostruoso schiavista pandimensionale, capace di abolire la coscienza delle proprie vittime e manipolarne il cervello a distanza. D’altra parte, tuttavia, l’effetto oscenamente comico di questa apicalità pandemica della norma, evidenzia come ciascuno di noi viva oggi nella Repubblica di Dave ‒ mitico luogo della saga Fallout, in cui un solo uomo ha…”preso il controllo” della propria famiglia, proclamando il suo appezzamento privato stato indipendente. Il microcosmo replica il macrocosmo, e viceversa: il piccolo zombie come parte dell’orda; l’orda come immortale assembramento di piccoli zombie. Anche in questo caso, l’eccezione, con il suo carico di orrore e di ridicolo, non fa che ribadire la norma ‒ suggellata dal concatenamento potere-maschilità-proprietà privata-nazionalismo.
Le zombie linguistics si rivelano come un effetto dell’attività incrociata delle zombie politics e delle zombie economics: da un lato, un mercato che non si ferma ‒ neppure dinanzi alle imperscrutabili minacce di un rischio x; dall’altro, una politica che può farsi carne solo attraverso l’indispensabile strumento linguistico-virale. Il sistema apprende rapidamente a individuare le parole chiave del discorso del potere, le ripete incessantemente e le propaga tra la popolazione, sperando in una qualche retribuzione (ancora spillover!). Tale processo, ancora una volta, investe ogni attività, persino quelle antagoniste al potere ‒ il contro-potere ‒ senza risparmiare nessun contesto. Il prodotto di tale reticolato di agency è, infine, una visione distorta, allucinatoria e solipsista della realtà ‒ un falso mondo condiviso, una para-realtà consensuale.
In queste settimane, tale stratificazione si è fatta tangibile, anzi, visibile come all’interno di un precipitato da laboratorio: un mondo di interazioni reali ‒ dominate dalla comunicazione in quanto contatto, compenetrazione e reciproco riconoscimento ‒ sovrastato da un mondo di interazioni ideologiche ‒ denotate dal marchio della comunicazione come mera diffusione, ripetizione e replicazione del consenso. È per questo motivo che l’Evento pandemico deve assolutamente essere configurato non come una metafora, ma come un intrusione del reale nella rappresentazione collettiva ‒ come un’anticipazione in piccola scala di minacce future e inevitabili, ma anche come effetto diretto di un corso d’azioni passato e, pertanto, altrettanto irrimediabile (con gran cruccio delle ontologie e delle politiche incentrate sul “dovrebbe essere così anziché colì”).
Prendiamo in esame il seguente passaggio, tratto da The Dark Enlightenment, di Nick Land:
Given a population deeply infected by the zombie virus and shambling into cannibalistic social collapse, the preferred option is quarantine. It is not communicative isolation that is essential, but a functional dis-solidarization of society that tightens feedback loops and exposes people with maximum intensity to the consequences of their own actions. Social solidarity, in precise contrast, is the parasite’s friend. [Data una popolazione profondamente infettata dal virus zombie e pronta a caracollare in un cannibalistico arco di collasso sociale, l’unica opzione è la quarantena. A risultare essenziale non è un isolamento comunicativo, ma una desolidarizzazione funzionale della società, capace di intensificare i circuiti di retroazione ‒ esponendo al massimo grado la popolazione alle conseguenze delle sue stesse azioni. La solidarietà sociale, all’inverso, è amica del parassita].
Ma cosa accadrebbe se, all’opposto di quanto afferma Land, l’antidoto all’infezione zombie della democrazia rappresentativa ‒ o, meglio, della democrazia della Rappresentazione e della Negazione ‒ fosse esattamente la solidarietà (non istituzionalizzata)? Non sarebbe più corretto dire che è proprio il sistema attuale a cominciare a subire, al massimo grado, gli effetti retroattivi (economici, politici, culturali ed ecologici) delle proprie scellerate azioni? Da questo punto di vista, i flash mob, gli hashtag e tutto l’armamentario dispiegato da una popolazione in quarantena, rappresentano non i prodromi di una comunità a venire, ma i segni di una comunità già esistente, antica quanto la nostra specie e dotata di un elevato grado di flessibilità e resilienza. In questo senso, la struttura non è unicamente ciò che muta nel tempo, determinando la sovrastruttura, ma anche ciò che, a sua volta, è determinato da una pulsione umana originaria: la pulsione alla costituzione di mediazioni e relazioni antifragili, capaci di sopravvivere ai rivolgimenti ambientali, sovrastrutturali e persino strutturali. Gli spazi da conquistare, in sostanza, sono quelli già dischiusi dallo stato di cose presente: gli spazi bucati tra le maglie della rappresentazione, gli squarci che si affacciano sul reale.
Ripartire dall’esistente non è mai stata un’opzione.
Claudio Kulesko
L’ha ripubblicato su Materia Impersonalee ha commentato:
Ma cosa accadrebbe se, all’opposto di quanto afferma Land, l’antidoto all’infezione zombie della democrazia rappresentativa ‒ o, meglio, della democrazia della Rappresentazione e della Negazione ‒ fosse esattamente la solidarietà (non istituzionalizzata)? Non sarebbe più corretto dire che è proprio il sistema attuale a cominciare a subire, al massimo grado, gli effetti retroattivi (economici, politici, culturali ed ecologici) delle proprie scellerate azioni?
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