Chiediamoci una cosa: in che misura il trauma epigenetico che in questi giorni sta per addentare il DNA di coloro che avranno figli in futuro accompagnerà e condizionerà le prossime generazioni? Funziona così: una carestia, un attentato terroristico, una guerra traumatizzano una donna oggi. Quella donna trasmetterà il trauma non solo al suo feto, per via psicofisica, ma anche ai nipoti e ai pronipoti. Chiediamoci allora un’altra cosa, cioè in che modo l’esperienza della quarantena, l’esperienza bioculturale del contagio, l’esperienza dello scrivere in queste ore influenzerà la scrittura di domani. Non parlo di romanzi del virus, romanzi della peste e romanzi del crollo sociale. Parlo di qualunque libro verrà scritto da qui in avanti. Perché il trauma c’è e ne sentiremo gli effetti molto a lungo. Ora, come in ogni situazione del genere, antropologicamente parlando, le vie sono due: raccontare favole esopiche possibilmente istruttive oppure continuare a ragionare in secondo grado. Ma qui anche il modo di ragionare sta cambiando, il riassetto cognitivo globale sta cominciando, ci resta per adesso una sola, unica norma di chiusura per interpretare tutte le altre: esercitare consapevolezza e visione.
Stabilire una connessione diretta tra fiction e revêrie è oggi un discorso necessario. Uso il termine revêrie perché la componente onirica è centrale, ma non in senso surrealista, impressionista, new age. Partiamo da qui: il sogno notturno poggia sempre su una struttura narrativa, la narrazione è cioè il prerequisito essenziale che, agendo come matrice di sequenze complesse, permette di selezionare, assemblare, riordinare e dinamizzare il materiale mnemonico costitutivo del sogno. Non sogniamo semplici ipotesi di azioni e di ambienti, sogniamo storie, e non è necessario interrogare i repertori etnografici e storici per renderci conto che sogno lucido (dove chi sogna ha un controllo parziale sugli eventi sognati), sogno ad occhi aperti (in cui il controllo conscio e le associazioni inconsce collaborano alla produzione di architetture narrative inedite), trance sciamanica (dove l’attore del viaggio esercita un controllo sull’azione e preseleziona eventi, personaggi e scenari) fino alla narrativa visionaria in ogni sua forma, sono fenomeni in permanente interferenza neurofisiologica, cognitiva e culturale.
Questo vasto “sistema onirico-narrativo” che caratterizza la mente umana è troppo consistente perché si possa escluderlo da una riflessione sulla cultura. In ambito antropologico, ad esempio, si dovrebbe tenerlo presente nello studio dei racconti di caccia e delle pratiche divinatorie del cacciatore. La narrazione del cacciatore è solitamente considerata una modalità culturale complessa per trasmettere informazioni etologiche, geografiche e venatorie, soprattutto ai membri giovani del gruppo. Tuttavia, una rapida analisi stilistica di tali racconti mostra una forte predisposizione al non detto, al salto narrativo, all’uso di frasi sibilline e sospese a metà. La sua natura ellittica, allusiva e minimalista non sembra informare sul nuovo ma, al contrario, funziona solo perché si regge su un bagaglio di informazioni condivise, indispensabili per colmare le lacune e per non perdere il filo.
Quello che va osservato è che i racconti di caccia, più che informare su fatti reali, sembrano votati a dilatare vuoti e lacune, perché il punto non è tanto trasmettere un sapere tale e quale, quanto invogliare l’ascoltatore a costruirsene uno. La curiosità e il mistero che il racconto veicola è il pendant psicologico del valore nutritivo della carne cacciata: il cervello va nutrito di informazioni tecniche, ma anche di desiderio. Così, immaginare il mondo come un grande corpo vivente dove luoghi inesplorati seducono l’ascoltatore, dove cose impossibili diventano possibili e dove esseri diversi comunicano e interagiscono tra loro come popoli e non come specie, è l’archetipo intramontabile di ogni fiction di sempre. Il nostro cervello è programmato per amare storie simili perché storie simili ci hanno aiutato (e tuttora ci aiutano) a sopravvivere.
Desiderio e sopravvivenza. Per anticipare gli smartass che già paventano il giorno in cui i “tempi del Covid-19” entreranno bene o male nella letteratura, voglio ricordare che il problema non è letterario. La cosa che stiamo vivendo entrerà in ogni variante culturale come una massa onirica dirompente. La cosa più utile che possiamo fare, allora, oltre ad articoli raffinatissimi sulla biopolitica e flashmob dal balcone, è registrare i nostri sogni. Charlotte Beradt ha raccolto dal 1933 al 1939 i sogni fatti dai Tedeschi durante il Terzo Reich. Questi sogni non rivelano i sintomi di una patologia personale ma «sembrano registrare con la minuzia di un sismografo gli effetti causati dagli avvenimenti politici esterni all’interno delle persone». Ecco. Una pista di lavoro l’abbiamo. Gli scrittori sono avvertiti.
L’ha ripubblicato su Downtobaker.
"Mi piace""Mi piace"