Virologistiche

La claustrofobia del deserto virale che si distende dalla finestra ha drenato il push out delle città e della vita da bar, ha finito i negroni e gli spritz, e ha lasciato spazio a una claustrofilia del rifugio tra flash mob, streaming, smart e relazioni di coabitazione da case a ringhiera, e sì, a volte anche forme di mutuo supporto.

Ma fuori è tabula rasa: un’immagine già prefigurata nei paesaggi delle società del rischio e del disastro, dell’esocolonialismo, della logistica delle velocità. Tutto il pianeta, e per intero stavolta, ripercorre le immagini della desertificazione. Depositi di automobili svuotati, piazze spoglie, cieli puliti. Il fuori si è rivoltato dentro, l’esternalizzazione si è interiorizzata. Qualcuno esulta, si esalta agli scorci della fine, all’evidenza degli sfondi, “il virus siamo noi”, dicono, e poi cantano De André ai tempi del virus alla finestra del balcone, ripercorrono a mente la palletta azzurra, Earthrise, accompagnata dalla voce di Al Gore, e vedendosela passare davanti più celeste che mai sorridono. L’aria è pulita, mai visti cieli così azzurri e intonati, è l’occasione di fermarsi, di rallentare.

Se ne sono viste tante di strizzate d’occhio a questi discorsi. Alcuni nei toni del mondo-senza-di-noi, o del “riduciamo l’impronta umana”, e così via. Che entusiasmo, decelerare, sì. Ma viene in verità da pensare che più che un rallentamento, un fermo, quel che è successo sia un caso eclatante di sorpasso.

È successo che le velocità della logistica, dei tragitti e delle traiettorie (neoliberiste) hanno lasciato il passo a quelle del virus. Le ha percorse in lungo e in largo, dimostrandoci beffardo come tanto i vettori di accelerazione quanto la percezione dello spazio non siano per niente un prodotto esclusivo del capitalismo (soprattutto quello postmoderno), ma somigliano più a un apparato circolatorio e autonomo a cui il capitalismo ha solo cercato di imporre parametri e flussi, regolazioni di velocità e tachimetri sociopolitici.

Succede allora che il contagio è un’irruenta incursione nei canali capillari delle circuiterie preesistenti. Si impossessa delle accelerazioni formattate e pre-settate del capitalismo e le libera, le mobilita all’insegna di una diffusione, di una densificazione che risponde solo alle leggi di persistenza biologiche. Più ce n’è, e più si estende sul territorio, più è considerabile un successo. Sono i termini dell’evoluzione.

Virilio, nel suo saggio di dromologia Vitesse e Politique del 1977, già definiva la velocità come vettore principale del potere. Ma piuttosto che considerarla come una qualità sottesa e intrinseca del potere istituito, per Virilio velocità e accelerazione si configurano più come una tensione autonoma, e non necessariamente interna o intenzionale rispetto ai processi di accumulazione e distribuzione. È vettore del potere, “punto di fuga” della liberazione. È cavallo, infrastruttura e protesi. C’è una storia che si racconta in L’orizzonte negativo che va dalla corsa al cavallo alla ruota, dalla freccia al proiettile, dal treno alla macchina da presa fino ai viaggi interstellari e all’istantaneità della comunicazione e della logistica odierna: la guerra e la comunicazione. La storia dell’umanità si scrive qui come una storia di eiezione, di territori che esistono solamente nella violenza del movimento necessario alla liberazione. Una storia di guerra che muove dalla visibilità alla sparizione, a cavallo e attraverso le velocità.

Ora, non voglio sostenere che questa situazione sia in qualche modo liberatoria. La quarantena, le misure d’isolamento e gli scenari del futuro prossimo raccontano d’altro. Il fatto è che questa pandemia del XXI secolo chiarisce forse una volta per tutte che le velocità, così come l’accelerazione, siano da considerarsi come processi estrinseci alla dimensione sociale e tecnica. I vettori sono riconfigurabili, sono strumentali. Virilio paragonava l’automobile, il grande motore della velocità tecnico/percettiva, a una “larva” di velocità, a un embrione pronto a sbocciare in vettori d’istantaneità inimmaginabili, in velocità superiori, più efficienti.

Bene, questo virus appare altrettanto “larvale”. A cambiare con l’immediatezza della propagazione sono tanto gli spazi quanto i tempi e le rispettive percezioni. Si contrae la vita sociale ed economica, lo spazio, e mentre s’incunea la velocità del contagio anche il mondo pare piccolo e stretto.

È inevitabile che a favorire questi movimenti siano stati non solo i vettori e le velocità gestite nei limiti dei parametri logistici del capitale, quanto l’evidente affordance di questi vettori, che come dicevamo prima, sono sostanzialmente estrinseci rispetto ai circuiti capitalistici. La dimostrazione è che il virus ha letteralmente “infestato” questi canali, rendendoli instabili e insicuri. È un’ostilità commisurata alla possibilità di espansione, che riguardano in particolare: noi tutti. Attraverso i corpi, tragitti e traiettorie della logistica sono diventati i circuiti sui quali la zoonosi si è fatta pandemia, i soggetti proiettati verso una più larga infestazione, dato che riguarda l’intero vorticare sociotecnico della dromosfera. Se ne deduce che gli stessi tragitti e le stesse traiettorie, la logistica, non siano più esclusivi della “conduzione” umana, ma accolgano più passeggeri, più possessioni. Siano affordabili. Se durante le accelerazioni tecniche noi vedevamo contrarsi e sparire il mondo, vedevamo il sorpasso del passato e il punto di fuga nel futuro – glorioso, utopico o catastrofico che fosse –, cosa si vede ora dalla dromosfera contagiata? La prima sensazione è che per certi versi, l’avvenire della velocità non riguarda più la nostra eiezione, ma quella del virus. Al suo successo in termini evolutivi: sopravvivenza della specie e persistenza della stessa, canoni che rimangono comunque legati a efficienza e performatività.

Persa l’esclusiva della velocità, vediamo l’efficacia della contaminazione: il vantaggio iniziale e la potenza del segreto, la velocità e la sorpresa. Sono i caratteri di una macchina da guerra che satura, smobilita tempo e spazio nella sua piena visibilità statistica, e produce una visione di scala tanto estesa da coniugare i limiti e i confini del mondo. La propagazione del virus è una sorta di “logistica influenzale” che ha un potere dello spostamento e uno spostamento del potere che per noi ricalca le misure di guerra. D’altronde la logistica è proprio questo, efficienza e performatività della velocità, sparizione e smobilitazione nell’istantaneità. Ed è in questi stessi termini che la pandemia esacerba la percezione chiara e netta di una finitudine che ha le stesse dimensioni del globo, della scarsità di spazio e di mondo. La mette nero su bianco.

C’è in questa ristrettezza di pianeta “finito” un sentire romantico che si propaga dalla soppressione e dalla chiusura, un sentire claustrofobico che rimarca limiti e frontiere sempre più strette. Un miscuglio di paura e stupore per quella palletta blu che si ritrova a essere davvero piccola ma anche davvero condivisa. E in effetti il contagio produce lo spazio più ristretto che esista (il rifugio, l’isolamento) nello spazio più ampio possibile (il resto). A esacerbarsi è quindi quella tendenza alla compressione dello spazio – che è uno dei grandi retaggi del Postmoderno – in cui si sveglia una “lucidità tragica di una conoscenza aperta all’inquietudine”. Rendersi conto delle ristrettezze, della finitudine e dei deserti intorno, è la condizione del sopravvissuto, che come diceva Canetti è “vivere sopra gli altri”, o dello sterminatore. Per entrambi le grandi distese sono il coito della liberazione; le viste dall’interno del cubicolo, della tana o della scialuppa, sono il massimo.

Ma dove sono queste distese, negli spazi dell’epidemia? Per noi non ce ne sono, è la scialuppa che è contagiata. Per il virus è semplice: ovunque. Così che quando le grandezze sono commisurate al contagio, la ristrettezza si accentua, e dalla tana collettiva perdiamo familiarità con le dimensioni del mondo. Se la crisi climatica non era ancora riuscita a mobilitare globalmente e sul serio questa sensazione, il virus ha sicuramente velocizzato il processo. È stata la disattesa evocazione di questo rapporto a costruire la tragica lucidità della finitudine. E la velocità è stata il mezzo, la velocità dell’infezione biologica e dell’infestazione della logistica. Le conseguenze sono ben visibili. Sono saltati gli “spazi convessi”, entro cui si parzializzavano e riterritorializzavano le velocità, sono saltati gli spazi-sfiatatoio, mettendo a nudo voragini di contraddizioni e inefficienze. Il sistema sanitario in primis, la distribuzione, la reperibilità, la “preparatezza”. Insomma, questa volta non è una classica, ciclica e ricorrente crisi di accumulazione. E anche gli output, i breakdown, saranno, e sono diversi.

La ristrettezza del mondo rappresenta per molti e a priori una minaccia. Significa che ciò che succede là si riverbera, “risuona”, qua. Il battito di farfalla è una risonanza materiale, geopolitica e culturale. L’infestazione della dromosfera da parte del virus si fa sicuramente testimone di un globo, un pianeta, che si dà nell’intersezione e nella codipendenza, ed è di certo capace di sollecitare un pensiero sul coabitare e sulla convivenza.

Ma al contempo, trattandosi di un’esternalità capace di infestare i vettori logistici e produttivi con intensità non gestibili dagli attuali sistemi politici, minando alla sussistenza stessa dei parametri di stabilità economica e statale, smobilita la “macchina da guardia” della conservazione. In tali situazioni la scelta “priva di scelte” è per l’appunto quella tragica, disposta al peggio di fronte a quell’inquietudine. Scelta che se non è il “bottone rosso”, ha comunque una storia ben precisa e ambientata pressappoco negli stessi anni.

Nel 1975 la filosofa Onora O’ Neil pubblicò un testo importante, di cui nella memoria collettiva rimane solo il titolo, come slogan: Lifeboat Earth. La scialuppa (di salvataggio) terrestre – o spaceship. La O’ Neil si interrogava sulla giustizia distributiva, chiedendosi: quali sono le morti inevitabili?, quando è giustificabile lasciar morire? L’ambientazione è chiaramente una situazione di emergenza, una barca piccola, stretta, con scarse risorse per i suoi naufraghi, pochi: sei. Gli scenari sono due o tre, ma le domande sono semplici e dirette: qualcuno può essere lasciato a morire per il bene degli altri?, in altre parole, esiste un diritto al non essere uccisi?, e quindi qual è la differenza etica tra uccidere e lasciar morire? A risposta a queste domane, è un criterio di selezione distributiva e statistica che giustifica, coniugandole, entrambe le opzioni. In breve: rispondendo principalmente alla capacità di sussistenza, il diritto di autopreservazione si sfoca di fronte all’interesse collettivo di sopravvivenza, della maggioranza (quale, e chi, ci si chiede anche) così che l’attuale interdipendenza del mondo è evocata dalla O’ Neil come scenario in cui è possibile alterare le condizioni del diritto – così come applicare serie politiche di austerità e scarsità. Si conclude che in tali circostanze, il diritto di non essere uccisi, può essere revocato.

Ora, la questione biopolitica e neomalthusiana fondata sulla scarsità e la scelta “tragica ma doverosa e responsabile” è ben conosciuta (plot di Utopia, chi non l’ha vista: la veda) e ben ricorrente nella storia, dai testi “sacri” come The Population Bomb, Limits to Growth o il celeberrimo On Thermonuclear War. La questione del “chi” dovrebbe sopravvivere è parecchio attuale, non è fantapolitica, è “chi costruirà l’arca?”, quindi “chi rimarrà indietro?”. E ce lo si chiede – è evidente – da anni, osservando lo sviluppo delle città e dell’urbanistica, delle metropoli ecologiche e dell’accessibilità a queste “scialuppe” anche nell’immaginario comune. Cosa, o chi deve scomparire per proteggersi? E chi o cosa è tanto sacrificabile da poter essere esposto alla scarsità, all’emergenza?

Se queste discorsività sono sempre state attuali, sfido chiunque a non articolarci una storia con i recenti sviluppi in UK, con BoJo che racconta alla popolazione la “scelta tragica” (tragedia) a cui dovrà essere sottoposta, l’immunità di gregge, la prospettiva del “preparatevi a perdere i vostri cari”, a fronte dell’inadeguatezza del sistema sanitario privato. Chi è sacrificabile, chi no?, chiede il neomalthusianesimo in toni belligeranti. Belligeranti perché la popolazione viene interamente mobilitata a far fronte al virus, esposta e resa visibile “all’ingaggio”, come vuole la macchina da guerra mandata al fronte dalla macchina da guardia, ma in toni che non sono quelli nazional-nostrani del ripiego nelle abitazioni, della quarantena e del #iorestoacasa, ma quello del corpo civile esposto completamente all’incombenza della minaccia, come spazio sacrificabile o barriera – immunità, come la si vuol chiamare –, come deserto dentro al quale la lifeboat si protegge.

È qui che si osserva sempre più una tendenza all’esclusione e al ripiego, alla considerazione indifferente alla tragedia, forse riflesso condizionato di un mondo troppo stretto, minuscolo, sempre più complesso e incontrollabile in cui il disastro è all’ordine del giorno. Virilio chiamava questi posti “Claustropolis” – riferendosi alle città “del domani” –, ed è ancora semplice, a distanza di quasi vent’anni, ritrovare gli stessi contorni tra i claims delle figure delle città-stato e delle gated communities. Retoriche (a tratti spaventosamente probabili) che fanno leva sulla ritenzione delle accelerazioni globali auspicando un maggior controllo, sul ritorno dei confini e dei limiti assieme nelle immagini dei muri e della selezione, perché no, spesso di imperi aziendali – a fronte di un mondo “ostile” – dai perturbanti connotati Ballardiani.

Tornando all’inizio, a chi strizza l’occhio ai paesaggi desertificati e vuoti, all’aria celeste e pulita nei toni del che-bello-il-post-umanità – uscita da poco, tra l’altro, la notizia della relazione tra particolato e persistenza del covid-19; giusto per fare strizzare un occhio in più ma qua lo strizzo anche io –, e mi riferisco anche agli accoliti di un “ritorno” a chissà quale età dell’oro precapitalistica, va detto che questi discorsi di “ritenzione” e “contrazione” non sono e non possono essere esentati da una riflessione sulla centralità dei processi di accelerazione, e non sono nemmeno la “decrescita felice”. Ci sono sì, però, decelerazioni sistemiche e accelerazioni incontrollate, che debuggano le logistiche e se ne appropriano, riproducendo le stesse dinamiche delle macchine da guerra (anche tra voi ritornisti, sì). È in questi movimenti improvvisi che si applicano le scelte tragiche, non solo dovute nell’emergenza ma anche alla disposizione a mettere da parte la solidarietà per mantenere privilegi o conservatorismo sentimentale.

Insomma, ci sì è accorti che l’accelerazione è estrinseca al capitalismo. È autonoma, è come un cavallo, dicevamo. Un canale, un circuito che comunque fornisce di certo un principio di realtà. Viene perciò da chiedersi, di nuovo: quante dimensioni ha il mondo? Certamente c’è quella delle velocità nostre, infrastrutturali, di distribuzione e di circolazione, di consumo e di estrazione. Ma ci sono anche quelle che non sono incluse in questi termini – non ancora almeno –, che non sono controllabili o prevedibili. Tra queste ci sono le velocità del virus. Tanto rapide da riconfigurare la logistica della distribuzione in una propagazione infestante priva di freni che cortocircuita anche la logistica della percezione delle misure e del pianeta. Così che se la velocità dell’auto, la grande larva, osservata da una prospettiva dromoscopica, rappresentava per Virilio la scomparsa del paesaggio-mondo, l’inquinamento delle distanze e la scomparsa delle forme a favore dello sfondo nella proiezione in avanti del conducente (noi tutti), la larva di velocità del virus ha un altro modus operandi, e ragiona dalla sua prospettiva: siamo noi a sparire dietro le sue velocità. Non ci sarà un dopo, questo posizionamento rimarrà. Per questo più che una collisione che sbalza fuori il conducente, crashtest&shock, è contaminazione; ed è un fenomeno naturalculturale, niente di nuovo sul fronte del collasso. Rimbocca però l’urgenza di scavare reciprocità, intercettare risonanze in comune e raccontarsi con quest’inquietudine. Di riconsiderare le distanze e le misure, politiche, sociali e dell’immaginario. Nuove viste, non necessariamente post-umane – tantomeno retrovintage –, ma adatte a questa velocità disumane che ci stringe i fianchi.

Piergiorgio Caserini

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