La visione del dopo è inesistente. O meglio mi aspetto un copione già scritto uguale molte altre volte in cui tutto, una volta che le cose saranno tornate come prima, dovrà ricominciare a galoppare, ancora più veloce, per recuperare. E sicuramente verranno ingoiati rospi, sacrificati diritti, spostati asset della vita sociale delle persone la quale diventerà ancora più tracciabile, e quindi controllata e in grado di essere trasformata in dati, i quali andranno da un parte ad alimentare nuovi algoritmi che stabiliranno nuove priorità sociali e nuove tipologie di comportamenti (esempio), e dall’altra rappresenteranno nuova linfa per le grandi corporazioni. E sempre tutto per il nostro bene. Ma nel frattempo tutto e tutti, le persone, la gente, noi, siamo bloccati ad un perenne qui ed ora che non lascia scampo, non vede soluzioni, non vede luce perché non vede il tunnel. Chi sta in prima linea agisce ed opera nell’adesso (perché impossibile fare altrimenti), ma noi perché non riusciamo a fare gioco di squadra e non iniziamo ad elaborare un’alternativa, una escape strategy per il dopo? Perché per molte persone, ed anche a mio avviso (anche se ancora non è semplice da elaborare) sarà impossibile rientrare in una normalità (?) che comunque in tanti consideravate essere TROPPO: veloce, impegnativa, superficiale, finta e via discorrendo.
Abbiamo alcune possibilità di portare il pensiero sullo stato di crisi su un pianodiverso? Un ragionare, elaborare, creare che sia in grado di poter insinuarsi in quelle (piccole) crepe che solo la paura dei cambiamenti climatici è riuscita a produrre? (a proposito che fine hanno fatto?)
In che modo potremmo elaborare una concezione di noi come corpo sociale in grado di rimodellare l’ambiente in cui viviamo?
Forse, un primo passo, potrebbe essere quello di iniziare una lunga passeggiata introspettiva, per tracciare un quadro di chi siamo, come individui, e di cosa rappresentiamo con il nostro agire. Nessuna discesa negli inferi della nostra psiche, basterebbe un’auto osservazione leale, in un qualche modo oggettiva, sgravata dalle zavorre del compiacimento, della colpa, della strumentalizzazione altrui, dell’auto indulgenza. Potrebbe diventare un camminare interessante, ricco di sorprese e di delusioni, e sicuramente di nuovi paesaggi. Dovrebbe portarci da qualche parte questo pellegrinaggio, in un posto che ci sembrerà familiare ma che sarà diverso dal luogo dal quale eravamo partiti. Ci mancheranno delle cose, dei comportamenti, dei palliativi, ma presto ce ne dimenticheremo. Questo sembra un buon momento per iniziare a fare un percorso del genere, prima di essere sopraffatti dallo stare forzatamente in casa.
La crisi è in atto da anni, è nell’agire, nel porsi, nello strutturarsi internamente ed esternamente in noi come individui e in noi come entità sociale, ma in tutto questo tempo ci siamo girati dall’altra parte facendo spallucce e abbiamo continuato a fagocitare qualsiasi cosa per supportare e sopportare il nostro fraudolento stile di vita, compreso l’orizzonte temporale, ce lo siamo mangiato tutto e adesso sul piatto dell’esistenza non rimane niente da addentare. I social, chimere dalla presenza ingombrante, da potenziale arma funzionale sono diventati nella maggior parte dei casi degli spargi sale in autostrade sciolte da un sole agostano. Banale ma vero, rendono semplice ciò che non lo dovrebbe essere.
Per sintetizzare il mio punto di vista farò uso di questa breve storia raccontatami da un amico.
In un tempo che è sempre lo stesso, sia prima che dopo, vivevano in una regione del mondo qualsiasi su una grande escrescenza della crosta terrestre un numero non meglio precisato di mammiferi conosciuti come umani, erano una tribù e poi con il tempo una società arcaica e poi una società di massa e poi continuavano a cambiare il nome del loro stare insieme. Fatto sta che questa enorme escrescenza li ospitava tutti, ed era tutto quello che conoscevano, ed era tutto quello che avevano e che riuscivano a pensare. L’escrescenza aveva anche tutto quello di cui gli umani avevano bisogno, e i bipedi avevano con il tempo imparato a capire cosa e come, ma si erano persi per strada il perché. Trovandosi molto bene su questa montagna (così l’avevano chiamata) iniziarono a moltiplicarsi come i funghi ai piedi degli alberi quando esce il sole dopo una giornata di pioggia. Non proprio con lo stesso sistema, ma tant’è. Non avendo ad un certo punto più posto per costruire quello che costruivano abitualmente, e non volendo scendere alla base del monte perché di sopra l’aria era più buona , iniziarono a prendere terra e rocce dalla base e dall’interno della montagna, per trasportarle in cima e così innalzare la montagna e creare del nuovo spazio per fare le cose che dovevano fare. Le dovevano fare e basta, nessuno si ricordava il perché. E fatto sta che scava oggi e scava domani, c’era molta più terra sopra di quella che ce ne sarebbe stata bisogno sotto e all’interno. Ma le nuvole cominciavano ad essere vicine, e qualcuno ipotizzo di potercisi trasferire. Ed iniziò spostandoci cose leggere come i pensieri, e le pagine piene di numeri che servivano a tenere ordinate e sotto controllo tutte le operazioni che gli umani svolgevano durante il giorno e la notte. Passava il tempo, terra veniva spostata da sotto a sopra, e strani gorgheggi rumorosi iniziarono a venire dal ventre duro e pieno di buchi della montagna. Ogni tanto qualche casa, quelle costruite un po’ ai margini, spariva come inghiottita, o si accasciava su un fianco. Ma a pochi importava. Tanto prima o poi sarebbero andati tutti a vivere su delle nuvole ben soppalcate. Anche se nessuno aveva mai sperimentato come ci si vivesse. Fatto sta che una mattina di un giorno non precisato, si senti un crac e poi un gorgoglio e poi tanta polvere perché il monte collassò su sé stesso inghiottendo ogni cosa, comprese le urla e le convinzioni degli astanti sulla ormai ex-montagna che doveva durare per sempre e che ancora, nonostante tutto, non riuscivano a lasciare andare.
Corrado Verdolini