I
Sui vetri traluce l’azzurro delle sirene. Una decina di camionette militari, partite dall’ospedale si dirigono fuori città.
L’esplosione feroce dell’epidemia nell’ultime due settimane è stata l’ennesimo taglio di un corpo già ampiamente martoriato. Interi edifici sgomberati per far spazio a nuovi reparti, alberghi riconvertiti già in eccedenza di pazienti, ospedali al collasso.
Il numero dei morti così in salita da trasformare vecchie fornaci industriali in forni crematori.
Guardo fuori dalla finestra, fisso le auto parcheggiate da mesi immaginandole un giorno lontano ricoperte da arbusti, tutte le strade conquistate dalla fotosintesi. Osservo nuove sirene arrivare da lontano, fermarsi all’ingresso del complesso residenziale. Dalla camionetta scendono cinque uomini in tuta e maschera, caricandosi sulle braccia le scorte di cibo che il governo distribuisce ai cittadini ogni due giorni.
Bussano alla porta. Chiedono il nome, fanno domande, controllano la temperatura corporea, la pressione, mi avvisano che il cibo è nell’atrio all’ingresso. Così, interno per interno, in un rituale di sacrificio al dio della sicurezza, come sacerdoti comparsi dall’aria.
Prendo una sigaretta, e in questo clima transitorio aspetto che vadano via i militari, poi scendo giù, in un angolo nascosto alle ronde, cercando tra un tiro e un altro di controllare il cibo. È qui che ogni condomino si riunisce per prendere la sua razione, scambiarsi qualcosa, un medicinale, un qualsiasi tipo di lavoro. Riunirsi. E magari questa è a suo modo una comunità di sopravvivenza, almeno finché qualcuno di noi è ancora in piedi. Ci contiamo giorno per giorno. Ognuno uguale agli altri.
II
Il buio è così ampio che è possibile tastarlo nella distanza tra un corpo e un altro, tra i palazzi, le chiese, i carceri, i ministeri. Separo le ore in piccole attività motorie, una lettura, o nel più classico degli sguardi vuoti rivolti dalla finestra alla strada, adesso dominio di gatti.
C’è un silenzio simile allo scoppio di una supernova.
Così fluttuiamo in questa nuova routine improvvisa, condizionale, selvaggiamente composta. Nessuna novità improvvisa, solo nuovi morti, altri ammalati, qualche guarito – e fin qui sappiamo che la speranza, almeno lei non muore mai del tutto.
È la pietra di Sisifo che scende.
III
Ora una novità c’è. Muoiono nelle case. Così, repentini. Forse il virus è stimolato da qualche polvere sottile della zona industriale, forse da qualche tumore provocato dall’inquinamento e rimasto lì latente, o forse non so proprio nulla e mi devo accontentare di vederci cadere come mosche.
Sicuro so che le camionette prelevano i corpi defunti direttamente dalle loro case, sicuro so che i familiari o vicini vengono portati via, dove? chissà…, sicuro so che coinvolgerà anche noi.
Due,tre, quattro colpi alla porta.
“Scendi, è urgente” – mi dicono.
Tutti seduti in cerchio a debita distanza, aspettano che prenda il mio posto.
Manca una persona. La signora del terzo piano.
“Sta presentando i sintomi” – spiegano – “e ora dobbiamo chiamare i medici, ma questo vorrà dire che saremo portati via”. O magari no. “O magari no”.
Ora immagino grossi laboratori nei poligoni militari. Container asettici in fila dove prima del virus c’era un campo rom. O una fuga verso un molo, entrare in un barca abbandonata e via da un’isola abbandonata all’estinzione. E forse quest’isola diventerà la vendetta di un pianeta che non ci sopporta più. O magari tutto finirà al meglio, e andremo avanti, e ogni nostra guarigione sarà testimonianza.
Adesso fermi in semicerchio, aspettiamo.
Frankie Fancello
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