Tradotto dal francese “Imaginaires Urbains des Épidémies”
« Day 1 : exposure. Day 3 : infection
Day 8 : epidemic. Day 20 : evacuation.
Day 28 : devastation ».
(Trailer del film 28 Giorni Dopo)
«E la vita dell’orologio d’ebano disparve con quella dell’ultimo di questi uomini del piacere.
E le fiamme del treppiede spirarono.
E le Tenebre, la Rovina e la Morte Rossa stabilirono sopra tutte le cose il loro illimitato impero… »
(Edgar A. Poe, La Maschera della Morte Rossa)
Dicembre 2019. Le epidemie sono un immaginario collettivo che si manifesta attraverso tre diversi registri. Il primo è quello mediatico. Si tratta di qualcosa di lontano, che si vede su internet o in televisione. Il virus Ebola ha devastato alcuni paesi dell’Africa Equatoriale qualche anno fa. E ancora oggi vi sono piccoli focolai. Ebola faceva paura. La febbre emorragica è terribile e raramente lascia scampo. Ma la violenza e la virulenza di questo virus, la sua rapidità e la sua altissima letalità, sono al tempo stesso il suo punto debole. Gli infetti talvolta non fanno in tempo a veicolare il virus perché durante l’incubazione (che può essere lunga) sembrerebbe che il soggetto non sia particolarmente contagioso. Nella storia recente abbiamo seguito la prima SARS, fra il 2002 e il 2004. Poi le aviarie, le suine e le quasi infinite varianti influenzali. La minaccia è sempre quella del salto di specie. Un virus che colpisce solo gli animali, muta e si trasmette al genere umano, il quale all’inizio, non dispone di anticorpi. Ad ogni modo, per una buona parte del mondo occidentale, malgrado i numerosi allarmi, la minaccia pandemica è stata per lungo tempo confinata nel registro di un immaginario mediatico. Il secondo di questi registri è quello storico. Le epidemie hanno da sempre fatto parte della storia delle società umane. Questi fenomeni hanno accompagnato la nostra storia et in certi casi ne sono anche divenuti il motore. Il terzo ed ultimo registro è quello della fiction, che non soltanto ha raccontato le epidemie del passato, ma talvolta le semplicemente immaginate, create, reinventate, previste, e soprattutto anticipate.
Marzo 2020. Lo stato di pandemia globale è una realtà attestata dall’Organizzazione Mondiale della Sanità. Partita dalla Cina, il virus COVID-19, frutto di uno sventurato incontro fra il pipistrello e il pangolino, ha approfittato di un mondo interconnesso come mai prima nella storia umana, per diffondersi in tutto il pianeta nello spazio di poche, pochissime settimane. Da un punto di vista generazionale, per una buona parte del pianeta, la situazione è inedita. Dalla fine del mese di gennaio, quando un’intera regione della Cina è stata messa in quarantena forzata, le cose hanno preso un’andatura drammaticamente rapida e globale: ritardi, incompetenze, negligenze, impreparazioni e talvolta vere e proprie forme di negazionismo criminale le cui conseguenze, probabilmente, non potranno mai essere calcolate con certezza. Il mese di marzo 2020 le persone vanno un giorno allo stadio, al ristorante, al bar, e l’indomani si trovano confinate nel proprio domicilio. Un giorno si va a votare. Il giorno dopo ci si trova in quarantena. Un giorno stai bene. Il giorno dopo no.
Percorrere l’immaginario, o meglio gli immaginari, delle epidemie non è né un gioco di pura finzione sconnesso dal nostro tempo e dal nostro spazio, né tantomeno un modo per esorcizzare un momento particolarmente difficile nel quale il nostro quotidiano e la nostra storia collettiva sembrano coincidere drammaticamente. La riscoperta degli immaginari è in questo frangente uno strumento cognitivo fondamentale che può aiutarci a vivere il disastro in atto (perché di questo si tratta) con un equilibrio maggiore, ovvero evitando da un lato gli eccessi di panico, disperazione e talvolta anche violenza, e dall’altro quel negazionismo e quella superficialità che nonostante tutto continuano ad imperversare. Riscoprire l’immaginario è anche un modo per mettere in atto una lucidità tanto necessaria quanto difficile da praticare. Soprattutto l’immaginario, nella sua totalità, ci dice, probabilmente non a torto, che la solidarietà sociale, collettiva, umana, è forse l’arma essenziale per far fronte alla catastrofe.
Riscoprire l’immaginario delle epidemie equivale ad esempio a vedere negli zombie una potente metafora delle vulnerabilità urbane alle quali siamo oggi confrontati. Percorrere un immaginario, letterario o cinematografico che sia, significa cercare di imparare a gestire une situazione di fatto nuova per tantissimi di noi. Rivedere oggi un film come Contagion di Soderberg non è un puro e semplice ludibrio da quarantena, ma un atto di apprendimento tanto collettivo quanto individuale, l’unico veramente possibile in uno Zeitgeist in cui troppi si sentono ancora legittimati a parlare come medici, economisti, politologi, epidemiologi e chi più ne ha più ne metta. La presa di coscienza è un atto tanto doloroso quanto indispensabile e quanto prima ciò avverrà, tanto prima ne usciremo. Le strade deserte, le code davanti ai supermercati, i convogli dei militari, la fine della ritualità legata al decesso, e ancora la violenza, l’intolleranza, l’egoismo… tutto questo non è più immaginario narrativo, ma la realtà che circa due miliardi di persone vivono in questo momento. Ci siamo dentro. Ineluttabilmente. La speranza allora è quella di poter sviluppare una coscienza nuova, un nuovo modo di considerare il funzionamento del nostro vivere sociale, di riconsiderare le priorità globali in questo Antropocene superiore del quale questa pandemia non è altro che una prima e violenta manifestazione.
I testi che seguiranno questa piccola serie sono tratti da una ricerca dottorale effettuata fra il 2012 e il 2016 in Francia et che ha avuto come oggetto l’esplorazione degli immaginari urbani nel cinema d’anticipazione dei disastri e delle catastrofi. Uno dei capitoli più lunghi era proprio quello legato agli scenari di epidemie e contaminazioni di varia natura. Questi testi sono tratti proprio da questo capitolo.
1. Uno sguardo al passato
Gli immaginari urbani della catastrofe attribuiscono un ruolo importante alle situazioni di quarantena, di contaminazione, di chiusura, di confino e di militarizzazione. Questi scenari raccontano diverse forme di epidemia, talvolta con veri e propri sforzi di realismo, talvolta invece con dei tratti metaforici e/o simbolici. Questo tipo di catastrofi possiede un’azione “indiretta” sulla materialità urbana nel senso che gli agenti patogeni e i contaminanti impattano la biologia degli esseri umani e non direttamente le forme materiali della città come ad esempio invece avviene per altri tipi di catastrofi come i terremoti, gli tsunami, le guerre, ecc. Le trasformazioni provocate dalle epidemie e le contaminazioni sono certamente radicali, ma esse sono il risultato di azioni messe in atto allo scopo di contrastare le diverse forme di contagio. Questi cambiamenti cercano in qualche modo di rovesciare alcune caratteristiche essenziali e costitutive della città: la circolazione, la socialità, lo scambio, il commercio, ecc. In un certo senso, possiamo affermare che le epidemie obbligano a mettere in atto delle azioni che tendono a denaturare lo spazio urbano.
Gli immaginari di città chiuse, svuotate, in quarantena sono in effetti un elemento ricorrente nella filmografia epidemica. Questi fenomeni, in astratto, non hanno delle conseguenze dirette e tangibili sulle forme e le strutture materiali. Essi impattano invece il funzionamento stesso dello spazio urbano come luogo per eccellenza degli esseri umani. In questi giorni segnati dall’arrivo del virus Covid-19 questo aspetto è diventato tragicamente attuale in diverse zone del pianeta. In questo senso gli immaginari cinematografici in questione assumono un significato nuovo, al di là dei differenti gradi di realismo proposti. Ben prima dell’attuale situazione, il cinema aveva già proposto una serie di interessanti riflessioni a proposito dei rapporti fra le strutture morfologiche e materiali dell’urbano e le sue funzioni politiche, sociali, economiche e culturali. Gli immaginari epidemici mettono in scena delle disfunzioni che sono capaci di rivelare le numerosissime dimensioni del nostro vivere “urbano”, ma soprattutto le sue vulnerabilità intrinseche.
Ancor prima, la tradizione letteraria ed iconografica a proposito delle epidemie è ricchissima ed è caratterizzata da un’innegabile prevalenza della dimensione urbana. Le ragioni sono facilmente deducibili. L’epidemia è un fatto essenzialmente urbano poiché sono le caratteristiche stesse di questi spazi a costituire il terreno favorevole alla sua emergenza e alla sua diffusione. Tanto le città antiche e medievali che quelle moderne, fino alle nuove dimensioni dell’urbano diffuso contemporaneo, sono degli spazi connotati dalla coabitazione, dalla prossimità geografica, dalla libertà di circolazione (almeno interna in alcune fasi storiche), sulla grande densità di popolazione. Inoltre, storicamente, l’efficacia delle pratiche igieniche non è sempre stata la stessa. Non è dunque una casualità se le epidemie sono state spesso associate a dei toponimi prettamente urbani: la peste di Atene, la peste di Milano, la peste di Londra, di Marsiglia, di Costantinopoli, ecc.
Prima di concentrarci nel dettaglio sulla cinematografia in questione è senza dubbio utile percorrere brevemente l’immaginario epidemico che precede l’arrivo del cinema.
Il punto di partenza forse più celebre è costituito dalle Guerre del Peloponneso di Tucidide, scritto alla fine del V secolo a.C., che racconta il conflitto fra Sparta e Atene sviluppatosi fra il 431 e il 404 a.C. Uno degli avvenimenti più importanti fu proprio l’epidemia che imperversò nella città di Pericle fra il 430 e il 426. Gli studi archeologici e storiografici hanno recentemente rimesso in discussione la natura del contagio, qualificato a torto come peste. Secondo le descrizioni della sintomatologia, una delle ipotesi più accreditate è quella della febbre tifoide. Altri invece hanno ipotizzato che si trattasse di febbre emorragica di tipo “Marburg”. Ad ogni modo, l’epidemia si cristallizzò nella memoria collettiva al punto che quattro secoli dopo essa fu menzionata e descritta nel De Rerum Natura di Lucrezio.
La caduta dell’Impero Romano d’Occidente nel 476 d.C. provocò in buona parte dell’Europa, ma soprattutto nella penisola italica, una profonda instabilità politica che perdurerà alcuni secoli. È in questo momento che possiamo trovare una delle prime attestazioni della peste stricto sensu (Yersinia Pestis). L’epidemia, conosciuta con il nome di “Peste di Giustiniano” si sviluppò dapprima a Costantinopoli intorno al 541 e si diffuse in seguito nel resto dell’Europa passando per l’Italia che in quel momento era il teatro delle Guerre Longobarde. Il racconto per eccellenza di questo periodo è quello resoci dallo storico Procopio di Cesarea, autore, fra gli altri, delle Guerre di Giustiniano. Durante il lungo medioevo la peste diventerà endemica nel continente europeo, devastando a numerose riprese il continente fino al XIX secolo. Uno dei momenti più drammatici fu ovviamente l’epidemia di quella che fu chiamata “morte nera” nel XIV secolo. Fra il 1347 e il 1352, la peste, proveniente probabilmente dalla Cina, si diffuse in tutta Europa grazie ad un’intensa attività di scambi commerciali. Ad oggi si stima che le vittime siano comprese fra i 25 e i 40 milioni di persone, ovvero un terzo o un quarto dell’intera popolazione del continente[1].
La grande pestilenza trovò ovviamente grande eco nell’arte e nella letteratura. La morte nera ad esempio fa da sfondo ad una delle opere che hanno segnato la nascita della letteratura italiana: Il Decameron del fiorentino Giovanni Boccaccio. Tre giovani uomini e sette giovani donne decidono di abbandonare Firenze e di isolarsi in campagna al fine di sfuggire al contagio. Per alleviare la noia del confinamento i giovani raccontano a turno delle novelle che saranno il vero nocciolo dell’opera. Alcuni elementi dell’immaginario epidemico cominciano a svilupparsi. In particolare, in Boccaccio si sviluppa quell’idea di isolamento in un luogo extra-urbano. Si tratta di una pratica che testimonia la percezione del pericolo costituito dall’ambiente urbano nell’ambito di un fenomeno epidemico.
Per comprendere alcuni tratti essenziali del fenomeno urbano durante il medioevo, il riferimento imprescindibile è senza dubbio lo storico belga Henri Pirenne che descrive l’urbanizzazione in un periodo storico, lo ricordiamo, che dura un millennio. Come accennato prima, già nel medioevo l’epidemia provoca un rovescio: la cittadella fortificata, dotata il più delle volte di un sistema di mura difensivo allo scopo di offrire protezione in un periodo politicamente instabile, perde ogni attrattiva. La città diviene al contrario il luogo del pericolo. La sua densità, la sua concentrazione di persone, i suoi spazi pubblici, la rendono il cuore stesso del contagio. Ed in effetti non è certo un caso che il percorso della Morte Nera del XIV secolo abbia seguito pedissequamente il tracciato urbano dell’epoca colpendo dapprima le zone più urbanizzate dell’Europa e solo in seguito alcune regioni marginali e relativamente poco urbanizzate come il nord della penisola britannica e la Scandinavia.
Molto interessante in termini di immaginario è l’affermazione del tema iconografico dei “trionfi della morte” una variante delle Danze Macabre et del Detto dei tre morti e dei tre vivi. Secondo Michel Ragon: “In Italia, alle danze macabre si preferisce il Trionfo della Morte; d’altra parte le Danze Macabre, la cui diffusione a livello iconografico fu immensa in Francia e in Germania, non avevano avuto molto successo in questo paese: gli italiani preferiscono il tema dell’incontro fra i morti ed i vivi, molto popolare in particolare fra il XIV ed il XV secolo” [2]. Il ruolo della malattia nell’affermazione di questa tradizione è sottolineato anche dagli storici della medicina Rippa Bonati e Zampieri: “Dal medioevo in poi sembra che la peste abbia giocato un ruolo determinante nell’introduzione di una dimensione macabra nella concezione della fine della vita, come testimonia l’apparizione di nuovi temi iconografici come il Trionfo della Morte et la Danza della Morte”[3]. Fra gli esempi più celebri possiamo sottolineare l’affresco anonimo Il Trionfo della Morte conservato a Palermo e risalente alla metà del XV secolo. Secondo alcuni storici dell’arte, l’affresco potrebbe essere stato fonte di ispirazione per un altro e più celebre Trionfo della Morte, quello di Pieter Bruegel, realizzato circa un secolo più tardi proprio in seguito ad un viaggio dell’autore in Sicilia. La scena è interamente dominata da un’atmosfera macabra dai tratti apocalittici: incendi, devastazione, morte, scheletri, violenza e altro. Allegoria delle guerre e più in generale di tutti i mali dell’umanità, i dipinti si sforzano di rappresentare un universo di caos e dissoluzione.
A partire dunque dal XIV secolo, la peste diverrà dunque endemica in Europa, manifestandosi regolarmente. Giusto per fare qualche esempio: Milano nel 1630, Napoli nel 1652, Marsiglia nel 1720-1721, Mosca nel 1771, Costantinopoli nel 1839.
Nella cultura italiana la peste di Milano del 1630 è stata immortalata da Alessandro Manzoni nel XIX secolo, grazie a quello che probabilmente è da considerarsi come il più grande romanzo storico della letteratura italiana: I Promessi Sposi. I capitoli dal XXXI al XXXVI propongono in effetti uno straordinario ritratto della malattia che colpì la città lombarda e che, secondo gli storici, provocò il decesso di un quarto della popolazione. L’epidemia si diffuse in gran parte del nord della penisola approfittando di una serie di circostanze sfavorevoli: le guerre per la successione nel Ducato di Mantova a cui fu associata la famosa calata dei soldati mercenari Lanzichenecchi ed una profonda crisi economica ed alimentare che sfociò in una vera e propria carestia.
Un altro esempio letterario degno di menzione è il famoso Diario dell’Anno della Peste, redatto nel 1722 dallo scrittore inglese Daniel Defoe che descrive la peste di Londra del 1665. Il testo si presenta sotto forma di diario privato di un personaggio immaginario. Il racconto appare prezioso, non tanto da un punto di vista strettamente letterario, ma piuttosto a causa dell’attenzione rivolta ad alcuni aspetto “burocratici” (leggi, registri parrocchiali, ecc.) assai interessanti per ricostruire le dinamiche del contagio londinese e le sue conseguenze.
Nel tardo romanticismo, due racconti di Edgar Allan Poe meritano attenzione. Re Peste e La Maschera della Morte Rossa furono pubblicati rispettivamente nel 1835 e nel 1842. In Francia i due racconti furono tradotti da Charles Baudelaire ed entrarono a far parte della raccolta Nouvelles histoires extraordinaires pubblicata nel 1857. Il primo si svolge nella Londra del XVII secolo e narra la storia di due marinai che si avventurano in un quartiere in quarantena a causa della peste. Il secondo, assai celebre, non offre connotazioni storiche precise, ma ripropone l’idea di un gruppo di individui che decidono di isolarsi dal resto del mondo nella speranza di sfuggire al contagio. In questo caso le speranza saranno purtroppo vane.
Un altro esempio assai noto potrebbe essere il romanzo di Jean Giono pubblicato nel 1951. L’Ussaro sul tetto situa la narrazione durante un’epidemia di Colera (esagerata a scopi letterari) che colpì la Provenza all’inizio del XIX secolo. Più recente è la descrizione fatta da Albert Camus nel capolavoro La Peste, romanzo pubblicato nel 1947 che racconta una fantomatica epidemia di peste nella città algerina di Orano. Come affermò lo stesso autore, l’epidemia era in realtà un espediente allegorico per raccontare la condizione umana di fronte alla catastrofe del nazi-fascismo.
Per quanto riguarda il cinema, contrariamente ad altri immaginari catastrofici, le epidemie e le contaminazioni in ambiente urbano, come abbiamo visto non mostrano di solito degli scenari di distruzione materiale. Spesso ci si trova davanti piuttosto a delle reinvenzioni, delle riconfigurazioni che si concretizzano soprattutto nell’idea di chiusura (blocchi, barricate, controlli, quarantene, ecc.) o più semplicemente di evacuazione. In tutte le diverse fasi storiche l’epidemia rende la città uno spazio di pericolo. A questo proposito un’osservazione interessante proviene dalla storia della riconoscenza medica delle malattie. Nel caso della peste in età medievale e moderna “il riconoscimento progressivo di questa pericolosità per contatto, permise un importante avanzamento: non potendo capire a fondo né tantomeno curare, si cercò di sbarrare la strada all’epidemia e, a poco a poco, i mezzi – spesso cruenti – di limitare la propagazione, si moltiplicarono. Già nel XVIII secolo, le misure di profilassi erano considerevolmente aumentate e venivano severamente regolate. La chiusura delle abitazioni colpite, l’isolamento dei malati, la distruzione con il fuoco di luoghi e oggetti contaminati, l’interdizione di assembramenti pubblici, la quarantena delle città colpite così come delle navi in arrivo, si rivelarono un mezzo di lotta efficace contro l’estensione delle epidemie” [4]. Dunque, anche in contesti storici nei quali le scienze mediche non erano ancora capaci di contrastare gli agenti, la coscienza della vulnerabilità delle condizioni di vita urbane era già ben radicata. Questi aspetti sono ricorrenti anche nelle rappresentazioni contemporanee. Le limitazioni ai movimenti sia interni che esterni, la quarantena, la chiusura degli spazi pubblici, le limitazioni al commercio, ecc. Un altro elemento ricorrente è la gestione del potere pubblico che spesso passa dall’ambito civile a quello militare. Le conseguenze sono il confinamento coatto, la legge marziale, la militarizzazione di spazi e pratiche quotidiane (controlli, coprifuoco, limitazione/sospensione di alcuni diritti individuali). Talvolta le diverse situazioni messe in scena trascendono in eccessi di repressione, violenza, e spesso in veri e propri conflitti fra militari e civili. Si tratta di una fine, temporanea o definitiva, di una certa concezione dell’urbano basata sulla civitas come entità politica in favore di una forma di gestione più autoritario-dittatoriale. In questo senso, un buon numero di film si contraddistingue per un più o meno velata forma di antimilitarismo, come dimostra la ricca filmografia sugli zombie ed in particolare le pellicole dirette da G.A. Romero.
Un ultimo aspetto merita ugualmente attenzione: la dissoluzione dei rapporti sociali e umani che scaturiscono da quel senso di ineluttabilità di una morte imminente. Il mondo che conosciamo si dissolve ed i tessuti socio-umani cedono il posto ad un’inversione che talvolta si trasforma in atteggiamento di euforia pre-morte… Godere e approfittare degli ultimi momenti prima che il morbo faccia il suo lavoro. Anche questo è uno scenario assai diffuso ed una delle rappresentazioni più riuscite è quella messa in scena nel Nosferatu di Werner Herzog (1979). Il film, remake del famoso capolavoro muto di Murnau, ci racconta l’arrivo del misterioso conte Dracula nella città di Wismar. La nave che trasporta il conte dalla Transilvania ospita anche migliaia di ratti i quali, arrivando in città, diffondono la peste. Ben presto Wismar diviene un paesaggio a metà fra l’angoscia ed il grottesco. La piazza della città diventa lo scenario di una festa macabra, a tratti surreale. Un gruppo di donne e uomini, probabilmente già contagiati, danzano, mangiano e bevono cercando di approfittare degli ultimi momenti della loro esistenza. Lirica, ma al contempo grottesca come un racconto di Edgar Allan Poe, la sequenza ci offre un ritratto dell’assurdo che tanto deve alla lunga tradizione delle Danze macabre e dei Trionfi della morte. Qui però niente sangue, niente sofferenza visibile, ma un’atmosfera di dissoluzione nella quale la festività diviene un presagio di morte.
Il Nosferatu di Herzog è un assaggio degli immaginari cinematografici. La ricchezza degli scenari epidemici, come vedremo, si riscontra soprattutto nei film d’anticipazione che presentano un’interessante alternanza fra i registri del realismo previsionista e quelli del simbolico-metaforico.
[1] Audoin-Rouzeau, F., 2007, op. cit., p.25.
[2] Ragon, M., 1981, L’Espace de la Mort. Essai sur l’Architecture, la Décoration et l’Urbanisme funéraire, Paris, Albin Michel, p. 148.
[3] Rippa Bonati, M., Zampieri, F., Zanatta, A., 2010, Per una Storia della Medicina 2010-2011, Padova, Libreria Padovana Editrice, p. 83.
[4] Cfr. Audoin-Rouzeau, 2007, F., Les Chemins de la Peste. Le Rat, la Puce et l’Homme, Paris, Éditions Tallandier.
Alfonso Pinto
École Urbaine de Lyon