Antropologia Letteratura Collasso

Ieri sera stavo guardando Kong. Skull Island (2017). Dopo che Kong ha massacrato i Cavalleggeri dell’aria, un gruppo di civili sta attraversando l’Isola del Teschio costeggiando una grande palude. Nel mezzo della palude c’è un’isola che ospita degli aironi bianchi che d’improvviso si alzano in volo, disturbati da qualcosa. A quel punto l’isola si muove, emerge dall’acqua ruscellante e, da un’inquadratura più larga, capiamo che si tratta di un immenso bovide, o cervide, o tutte e due le cose, una specie di incrocio tra un bufalo d’acqua e un Megaceros. Il campo si allarga, diventa panoramico, a sinistra c’è il gruppo di minuscoli umani, a destra la montagna di carne muscolosa e muschi-pelliccia e alghe a strascico impigliate nelle corna. A quel punto ho chiesto a mio figlio di fermare l’immagine perché volevo fotografare lo schermo. Volevo infatti conservare quella “cosa” come una specie di musa, per scrivere questo pezzo. E non solo.

Guardando la scena, il primo pensiero è stato wow! nel senso che la parte più fanciullesca di me ha ripescato di colpo sensazioni dei tempi in cui leggevo Verne, e il wow! era duplice, per l’immaginario in sé, davvero monumentale, e perché ho realizzato che è completamente assurdo che io mi sia dimenticato di questo tipo di meraviglia. I “mostri”… Il secondo pensiero è stato ecco, il mio prossimo romanzo deve essere così. Non nel senso di metterci per forza un bestione – per quanto rivitalizzare la megafauna sia per me un modo molto attuale per rivitalizzare anche il genere del romanzo – ma nel senso che leggendolo vorrei che il lettore provasse questo:

Che cosa significa? A quale sensazione dovrebbe corrispondere questa immagine che, sottratta alla sospensione dell’incredulità nel flusso diegetico appare qui, adesso, non solo un po’ cheesy – pecoreccia? stucchevole? – ma proprio banalmente didascalica? Il romanzo che voglio scrivere dovrebbe dunque oscillare tra un’estetica da B movie e il suicidio editoriale garantito? Assolutamente sì. Questa immagine è per me una musa, un’ars poetica iconica, proprio perché non assomiglia a niente di simile di ciò che si scrive oggi in Italia. Sbarazzatevi subito della tentazione di cercare nella memoria un equivalente nelle zone del fantasy nostrale, ammesso che esista. Non sto parlando di fare fantasy, non sto parlando nemmeno di fare letteratura fantastica. Sto parlando di fare letteratura. Possibilmente quella letteratura che dialoga – anche – con la tradizione alta e che, contemporaneamente, aspira a produrre un libro che sia un game changer.

Chi ha seguito alcuni miei interventi su questo blog, ad esempio qui, qui e qui, sa già dove sto andando a parare. Isolare le coordinate del romanzo nell’Antropocene è la ragione stessa per cui questo blog esiste e da cui nascono progetti collettivi come TINA e DRAUMAR. Ma l’immagine del bestione e degli omini, oltre a ipostatizzare in modo più o meno allusivo concetti-chiave come “cosmografia”, “animalità”, “animismo”, “crollo cognitivo”, “sopravvivenza”, “neogeografia” ecc., è la radiografia perfetta di tutto ciò che lo scrittore italiano normie – equidistante tanto dalla cultura scientifica quanto dall’inconscio visionario – non vuole e non è in grado di fare. Detto altrimenti, questa e alcune altre scene di Skull Island ci dicono sfrontatamente che l’Italia ha avuto Salgari e non Verne, Calvino e non Le Guin, Morselli e non Dick, e tutti quei minori che oggi bazzicano – non senza un un po’ di imbarazzo – le zone del fantastico, del distopico, della fantascienza senza arrivare a un Volodine, a un McCarthy, a un VanderMeer, oppure a un Vollmann nelle zone ibride e sempre più necessarie del romanzo-saggio etnografico.

Nel titolo ho promesso un discorso sull’antropologia. Ma qui non parlerò né di antropofiction – come Always Coming Home della Le Guin – né dell’antropologia come disciplina scientifica. Voglio invece dire qualcosa su come l’antropologia possa fare da bussola per lo scrittore intelligente. In questo senso il termine “antropologia” non può limitarsi né al significato troppo tecnico di scienza sociale né a quello troppo generalista di studio dell’umano. Antropologia è anche e soprattutto un catalogo dinamico dei saperi antropologici, un iperoggetto culturale che oltre a essere un metodo di accesso cognitivo ad alcune realtà complesse è e include quelle stesse realtà. Antropologia dunque in prospettiva surepistemologica, come conoscenze di fatti culturali e come tecniche elaborate per conoscerli. Ma perché questa precisazione, che è ovvia per ogni antropologo? Perché ci aiuta a capire che l’antropologia non è solo una disciplina accademica esercitata da professionisti che detengono un sapere esoterico, ma è un repertorio di modelli della realtà e di frammenti modellizzabili della realtà che consente a chiunque di uscire dal proprio orto culturale per provare a capire il mondo dalla prospettiva di qualcun altro, sia esso umano, animale o cosa.

Ecco allora la connessione con la letteratura: vi confesso che faccio una fatica enorme a immaginare uno scrittore che pur di restare nella comfort zone preparatagli dalle sue letture del cuore e dai protocolli editoriali vigenti rinuncia al conforto cognitivo e creativo dell’antropologia. Ovviamente bisogna anche un po’ studiare, cioè leggersi se non tutto almeno a macchie di leopardo qualche buon libro su Papua Nuova Guinea o sull’Artico canadese. Ovviamente bisogna sviluppare nel tempo una specie di prospettivismo immaginativo, cioè imparare a mettersi nei panni di un’altra cultura, di un altro soggetto, di un altrove, ma l’ambizione è appunto questa: fare il “salto”, entrare in una zona oscillante che produce sia scrittori-antropologi – come Tolstoj, Le Guin, Vonnegut, Glissant, Leiris, Vollmann – sia antropologi-scrittori – come Lévi-Strauss o Taussig. A prima vista, dalla prospettiva dello scrittore abituato alla Contea di Tondelli o Volponi o Fortini, questi “stranieri” sembrano provenire dagli angoli più remoti delle Terre Selvagge, tipo Raminghi, Nani e Stregoni. Ma l’antropologia come tecnica del sapere e repertorio di saperi altri è molto più di una regione esotica: è la radice stessa del fare letteratura.

Qui siamo a Lascaux, 18.000 anni fa, e allora cominciate a capire che cosa ho visto veramente nella scena di Skull Island: la mitopiesi, la narrazione di un incontro archetipico tra antropomorfi e zoomorfi, le armi come protesi cognitive o viceversa, la faglia creativa del simbolo. L’antropologia è l’unico strumento veramente disponibile oggi per gettare un ponte non approssimativo, non impressionistico, non pretestuoso tra Lascaux e un blockbuster del 2017. Chi oggi si priva dell’appoggio dell’antropologia non potrà mettere in connessione la contemporaneità del romanzo con l’epoca in cui l’uomo ha cominciato a narrare storie. Lo scrittore che non diventa un po’ antropologo, analogamente, si isola in un flusso interrotto, non riesce a capire il presente nelle sue forti implicazioni cosmografiche. L’editore che genera un “mercato” attraverso un tipo umano che è anche un tipo di lettore-consumatore snobba Skull Island e non capisce Lascaux perché non pratica l’antropologia.

Chi se ne frega no? Ma ecco il collasso del titolo. Che cosa c’entra? A parte che stiamo vivendo la fase accelerata di un collasso iniziato prima della Pandemia, a parte che la caratteristica primaria di un’età del collasso è la caduta dei saperi, a parte che nel crollo cognitivo proliferano gli IYI (Intellectual Yet Idiot, che io tradurrei con “paraculi semi-intelligenti” o “non-cretini cretini”), il collasso c’entra oggi intimamente con l’antropologia e la letteratura contemporanea. Da un lato l’antropologia è il solo mezzo che abbiamo per capire il collasso nel suo farsi, perché l’antropologia consente di individuare e interpretare scenari passati e futuri che offrono dei validi termini di paragone per pensare altrimenti l’adesso più confuso, dall’altro, forse più modestamente, solo l’antropologia può aiutare davvero gli scrittori ad adattarsi al collasso, a sintonizzarsi con esso, a capire che cosa non può più funzionare e cosa, a breve, funzionerà. Poi ovviamente si può continuare a fingere che King Kong non esista, ma l’antropologia ci sussurra all’orecchio che la Terra Cava dei Mostri sta già risuonando di tamburi e di grida di rettili enormi.

2 pensieri riguardo “Antropologia Letteratura Collasso

  1. Scrivi esattamente quello che sto cercando di elaborare da molto tempo nella mia testolina, senza però averne tutti gli strumenti. Grazie, concordo e mi sollevo ogni volta che leggo ciò che scrivi sulla narrazione dell’ Antropocene.

    Come narratrice per immagini e ex studente di antropologia, ricerco da anni un modo per nutrire, e provare a creare, un immaginario fantastico ma futuribile proprio perché basato su elementi di culture passate o resilienti.
    È complesso, e per ora l’unico risultato è stato questo https://issuu.com/lapislazuli3/docs/pdf_web_small.
    Manca ancora molto della meraviglia che vorrei.

    Non vedo l’ora di leggere ciò che uscirà da questa tua nuova sfida editoriale “game changer”.

    Piace a 1 persona

    1. L’antropologia è una foresta dei segni, ci sono volumi che funzionano come i grandi classici della letteratura e che gli scrittori dovrebbero leggere e studiare per inventare cose nuove. ne basterebbero 10…

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