“In ogni uomo vi sono due aspetti della vita: la vita personale, che è tanto più libera quanto più astratti sono i suoi interessi; e la vita elementare, la vita di sciame, dove l’uomo obbedisce inevitabilmente a leggi che gli sono prescritte.” (Guerra e Pace, Lev Tolstoj)
Come le formiche verdi restiamo immobili e allineiamo le sole vibranti antenne verso un punto focale. Quale?
Verso i sogni.
Il mondo onirico sta registrando alterazioni discrete, per vividezza o assenza, agitato da un sentimento di ansia condiviso: è nella parola che non si può pensare, ma che sottende la minaccia non percepibile, la parola “panico”, la radice che rimanda a Pan, il memento alla nostra incoercibile animalità. Questo mi incoraggia a fare alcune valutazioni sulla reattività sincronica a questo “panico” come un fondamento istintivo che mette in discussione il modello del “cane mangia cane”, della competizione distruttiva, accampato quale sistema unico naturale e privo di alternative dai sostenitori dell’ultraliberismo.
L’umanità verrebbe così ricondotta con il suo bel bagaglio di arroganza nel recinto dove rinchiuse lo stesso “animale” che usa, à la carte, come alibi per le sue passioni devastanti, o come altro dall’uomo, forma bruta da cui prendere le distanze; la “macchina biologica”, insensibile e afflitta dall’angoscia dell’immanenza, priva di linguaggio e perciò infelice, succube del proprio mondo, della propria bolla, mossa meccanicamente da marche percettive e operative.
Eppure i cani sognano (eppur si muove)!
Sgambettano, si agitano nel loro sonno e, per sognare, è ragionevole ipotizzare che abbiano elaborato, in astratto, un sistema simbolico, condiviso con le altre specie sognanti, attingendo come noi umani ad un inconscio collettivo che si estende oltre l’umano.
Thomas Pynchon ne “L’Arcobaleno della Gravità” parlando del “grande sogno” che nel 1895 aveva rivoluzionato la chimica (che nella figurazione ricorda l’Uroboro alchemico, il serpente che si morde la coda) ci pone un quesito spinoso:
“Jung ha avuto una bella idea di immaginare l’esistenza di un fondo comune ancestrale, da cui attingiamo tutti lo stesso materiale onirico. Però, come mai ognuno di noi riceve sempre e solo i sogni di cui ha bisogno, individualmente?”
È legittimo chiedersi allora dove questa individualità sfuma, e nel suo dissolversi vada ad acquisire gli attrezzi cognitivi che le sono utili, a ciascuno il suo: una stessa visione che nel chimico, nell’antropologo, nel musicista porta a rivelazioni diverse, ma con una medesima qualità psichedelica, quella che è del mistico e del visionario, dello sciamano, di farsi umilmente tramite.
In “Fino alla Fine del Mondo” di Wenders, il viaggio dell’eroe (la fine del mondo) si conclude in Australia, dove i protagonisti, assuefatti ad una macchina che registra i loro sogni, restano imprigionati nella loro ossessiva contemplazione, trovando nel sognare con gli anziani Aborigeni, la medicina del “sogno condiviso”, sanato dal feedback tossico nelle ruminazioni mentali che davano dipendenza; l’Uroboro vizioso dell’autocontemplazione che li aveva sottratti alla vita.
Il sogno è una medicina amara, può essere talmente orribile da dare conforto al risveglio: la piovra nera che scaturisce dal buio e che mi avviluppa, la paralisi ipnagogica o l’efialte che grava sul petto e che immobilizza l’anima risvegliatasi nel corpo ancora dormiente, come nel celebre dipinto di Johann Heinrich Füssli; ma fino ad oggi non avevamo più pensato al sogno come dispositivo di sopravvivenza; il corpo senza organi della specie umana è ancora dormiente, alle nostre latitudini perlomeno, dove il sogno è un piacere solipsistico, che ci diverte per le sue bizzarrie; disinnescato e svilito, gingillo dell’IO cosciente, cestino all’angolo del desktop mentale dove raccogliere gli scarti di privatissime nevrosi; centrale allo svolgersi di sedute psicanalitiche, per letture che non sconfinino oltre il recinto proditorio del vissuto personale.
Fatta salva l’indagine surrealista, che pur tuttavia produsse principalmente un un’estetica, uno “stile” riconoscibile, il sogno resta titolare di una dimensione confessionale e misterica, solitaria, del rimosso borghese, lo sfrido della macchina desiderante monoposto scollegata dal Mondo.
Il sogno può essere pensato oltre l’individuale, ovvero come evento antropologico? È un dato empirico che non ha ancora trovato certezze scientifiche, ma che taluni hanno indagato e stanno indagando. Nella pratica quotidiana facciamo esperienza di un grande volano composto da Sogno, Lettura, Immaginazione, Visione, Progetto\Prassi che opera su più livelli interconnessi.
l’Uroboro virtuoso al quale, sempre ne “L’Arcobaleno della Gravità”, Pynchon attribuisce la visione onirica dell’anello aromatico che ebbe Von Stradonitz. Così il sogno, come in un anello aromatico, concatena saldamente le nostre più intime emozioni, le nostre aspirazioni individuali ad un più ampio bacino archetipico, proiettandosi poi nella comunicazione, nel progetto, nella narrazione, nella scoperta, nel Canto che definisce il Mondo.
Herzog nel suo film “Dove Sognano le Formiche Verdi” affida questo compito di riconfigurazione del Mondo, tramite il sogno, di nuovo agli Aborigeni australiani. Dopo le atroci persecuzioni loro inflitte, essi sono oggetto di una fascinazione sincera ma sospetta, un processo di santificazione irritante, un grande mea culpa alimentato dal cinema (da “Ultima Onda” a “Mr. Crocodile Dundee”) alla letteratura (vedi Chatwin per esempio), dove i pronipoti degli stessi “civilizzatori” che li sterminarono, ricercano la loro assoluzione, e quella dell’umanità che partecipa del gran gioco della sopraffazione, in coloro che idealmente suppliscono all’arroganza occidentale e trattengono ancora relazioni dialogiche e magiche con l’ambiente; un gigantesco esorcismo, talvolta commovente, ma senza effettive conseguenze.
Il film di Herzog descrive piuttosto lucidamente questo stato di cose, l’insidiosa intersezione fra civiltà industriale e culture tradizionali, la ricezione formale e fasulla delle “ridicole” istanze degli Aborigeni, che ben si esplica in questo passaggio, nel quale i rappresentanti del popolo Worora espongono alla Corte le ragioni della loro opposizione alle trivellazioni della compagnia Ayers Mining Ltd che sta cercando l’uranio:
“Bandharrawuy, il Custode dei Canti ha riferito alla corte quanto segue: Nella notte dei tempi giunsero qui i Wongina, gli spiriti. Infilarono le loro lance nel terreno, e là sorsero colline e rocce. Poi giunse dall’est la formica verde Wongina e sognò e fondò il suo popolo e costruì un termitaio… e dissero creiamo col canto i figli che proteggono i sogni e così i Worora vennero a questo mondo. Noi apparteniamo al mondo dei Canti, dove gli uomini dividono tutto. E dalle formiche Wongina nasce anche la legge che i Worora e i Riratjingu custodiscono. Se viene infranta, le formiche verdi escono dal suolo e distruggono la terra.”
Il sogno è un monito in questo caso: la sua interruzione conduce alla fine del mondo. È interessante notare che il sogno che genera il mondo sia un sogno di formiche. Perché gli Aborigeni affidano la loro stessa genesi a questo minuscolo insetto e non a creature più altisonanti, grandiose? Perché non scomodano onnipotenti, leviatani, basilischi, titani?
Perché forse, mi verrebbe da dire, con grande senso pratico vedono nelle formiche la chiave di volta della Creazione Increata, in quanto non la singola formica, ma l’intero sciame agisce come un organismo intelligente alla costruzione del formicaio-Mondo.
Aldo Braibanti, partigiano, intellettuale, scrittore, drammaturgo nonché vittima di una feroce caccia alle streghe, teorizzava il Superorganismo, un’idea derivata dai suoi appassionati e precocissimi studi di mirmecologia:
“Trovo ancora relativamente antropomorfica la moderna graduazione dei tipi di socialità (animali presociali, sociali, eusociali, etc…) Mentre da una parte, per esempio, l’etologia di vari insetti, in apparenza solitari, ci porta a scoprire molteplici legami interindividuali, dall’altra parte le società animali in apparenza più complesse ci rinviano ad una problematica ancora più complessa, di fronte alla quale il fenomeno sociale diventa un momento di passaggio, sia pure un lunghissimo momento. Mi riferisco qui alle più avanzate tematiche del Superorganismo, secondo le quali la complessa liaison fra le cellule in un organismo, viene ripetuta a livello diverso in nuovi tipi di legame tra gli organismi individuali.”
Riecheggia in questa argomentazione la noosfera teorizzata da Vladimir Ivanovič Vernadskij che, in Tehilard de Chardin, si connota come coscienza collettiva. Molte marche intuitive puntano dunque in questa direzione, con tutti i rischi che questo comporta, dal bias di conferma alle discese sdrucciole nella New Age che, vi assicuro, eviterò, senza per questo negarmi alcuni slanci di materialismo magico.
Restando perciò alla scienza, senza farne scientismo, l’idea di Tolstoj di una indentità di sciame, ricompare dal 1988 negli studi sulla swarm intelligence (intelligenza di sciame) condotti da Gerardo Beni, Susan Hackwood e Jing Wang sui sistemi auto-organizzati derivati dalla studio delle colonie di insetti, degli stormi di uccelli e dei branchi di pesci.
Non è mia intenzione con questo dimostrare alcunché: delimito un campo di suggestioni da indagare liberamente, segnali che ho ricevuto dalle mie paure, dalle mie letture, “anelli aromatici” incompleti nei quali specifiche competenze ed approfondimenti possono indirizzarsi, trovare smentite e conferme.
Concepire una coscienza e un inconscio collettivo, una Supermente per il Superorganismo, è una ricerca necessariamente multidisciplinare, che coinvolge la politica, la sociologia, l’economia, l’informatica, l’antropologia, l’etologia, la psicologia, e per tale ragioni richiederà secoli.
Però possiamo provare a immaginare cosa cambierebbe veramente se, comprovata o meno l’esistenza del Superorganismo e delle sue modalità di interconnessione fra le singole cellule-individui, accettassimo nonostante tutto, rinunciando all’arroganza che ci affligge come civiltà, di appartenere al nostro Mondo così come ogni altra creatura?
Come cambierebbe il nostro modello sociale, alimentare, di lavoro e sfruttamento delle risorse (delle esistenze)?
Questa era la battaglia di Tom Regan, quella dell’antispecismo, spostata completamente sull’asse etico, senza attendere che Mago Merlino, un acido molto buono o uno scienziato confermassero che siamo, tutti i viventi, espressione di una coscienza collettiva primigenia e detentori di un diritto di vita. Ma anche se non facessimo nulla di tutto questo perché, come in “Stalker”, è proprio l’animale nella mente dello scrittore che lo spinge a desiderare la fettina di carne in contrasto con la ragione che lo vuole vegetariano e, tuttavia, senza in ogni caso, vegani o onnivori, poterci più permettere un “ritorno all’innocenza”, su quali basi ci si può dire ancora antropocentrici? Su quali piedistalli farsi ancora monumento e porsi al centro dell’universo?
Lo studio degli insetti sociali e dell’entomologia in genere, affascina e seduce, per ragioni che paiono oltrepassare le motivazioni personali. È un’osservazione ipnotica che ci coinvolge come specie fin dall’infanzia; chi di noi da bambino non ha passato ore ad osservare l’andirivieni delle formiche con le loro mercanzie?
Si pensi alle “Cacce Sottili” che occuparono la giovinezza di Ernst Junger o Sylvia Plath, che ereditò dal padre Otto, entomologo, la passione per le api, dedicandosi alle cure di un’arnia in uno dei periodi dolorosi della sua vita.
Per certo, l’osservazione dei comportamenti degli insetti sociali conduce al sovvertimento di idee preconcette sull’intelligenza e la coscienza; scricchiolano i pregiudizi culturali, i distinguo, sui quali da Descartes ad Heidegger si è creato un articolato e ampio “vallo filosofico” fra umano e animale.
È più credibile pensare allora al dramma dell’animale infelice o a quello dell’IO antropogenico? Sradicato d’imperio dal suo “fondo comune ancestrale”, in cui il sogno diventa smarrimento e conseguentemente il progetto, la narrazione, divengono indecifrabili: è perduta la capacità di lettura e interazione materiale, fattuale, con il sogno, ma non il legame, ci piaccia o no, inscindibile con il più vasto dominio della Natura, cui per forza apparteniamo.
Una parentela losca che amiamo fuggire quando fa comodo, attraverso il discrimine del linguaggio: orale prima, come afferma Vygotskij, come controllo del sé (nella transizione da bambino-animale ad adulto-uomo) e della scrittura poi, espressione di Potere, come afferma Lévi-Strauss.
Così, come si è operato con ogni altra risorsa, abbiamo delimitato al solo umano e, colonizzato, un campo semantico, quello dei simboli / sogni che in forme e complessità differenti riguarda tutto il vivente.
Un discrimine che si può ricondurre al consueto esercizio d’immotivata superbia, che si manifesta anche, involontariamente, nel parametrare sempre i linguaggi animali al linguaggio umano per una presupposta superiorità sugli altri; per cui diremo della scimmia che ha appreso il linguaggio dei segni e comunica con noi, che ha il livello intellettivo di “un bimbo di tre anni”.
La scimmia in realtà è saggia, come il gorilla Ishmael del romanzo di Daniel Quinn. Compie un doppio carpiato relazionale nel calarsi nell’umano: doppio perché, in primis, deve trovare interesse e slancio nel farlo, mossa da empatia e volontà sue proprie, non puramente meccaniche, quindi sforzarsi di acquisire una modalità che sia per noi intelligibile, equivalente alle difficoltà che incontreremmo noi nel calarsi nello scimmiesco, nelle interazioni e nelle abilità specifiche, nei modi e nelle complessità della comunicazione scimmiesca.
Poi, dove starebbe l’aspetto riduttivo della faccenda?
Come un bimbo di tre anni: stiamo facendo alla scimmia-antropomorfizzata un complimento (di nuovo involontariamente, per il senso di incompiutezza e immaturità che per noi questa affermazione porta con sé) in considerazione della plasticità cerebrale che l’umano ha nella sua infanzia, una spinta ad apprendere regolata da innati principî di economia e di gioia, più animale-materiale che umana-astratta, un’abilità che andrà gradualmente a scemare nella crescita.
Nel congresso umano “civilizzato” si paga lo scotto di tante conquiste tecnologiche, molte delle quali elaborazione di costrutti archetipici innati: la ruota, la scala, invenzioni non inventate, creando continue fratture e discrepanze: fra uomo e animale, fra bambino e adulto, fra le società che definiamo primitive e la nostra.
È il Grande Oblio di cui parla Daniel Quinn per tramite di Ishmael, la cancellazione di civiltà basate sulla competizione limitata, caccia-raccolta-orticultura che non è solo un immenso rimosso storiografico che riguarda la gran parte dell’avventura umana sulla Terra (il 99% dell’avventura umana “ridotta a preambolo” come dice Alessandro Pilo) per cui il titolo di civiltà è appannaggio esclusivo di quelle agricole e stanziali e, fra queste, di quelle egemoniche che assoggettano e assorbono le altre, ma per cui vengono perseguitati da sempre e ancora oggi, ferocemente, quei popoli che praticano uno stile di vita non-stanziale. In un calderone infernale: dal genocidio dei Tasmaniani, dalla mattanza dei nativosamazzonici da parte dei signori del caucciù che prosegue ancora oggi nelle campagne di deforestazione in tutto il Sud America, alle forzate conversioni al cristianesimo e il conseguente sradicamento e cancellazione di intere mitologie e linguaggi che mantenevano ancora un rapporto dialogico con il Selvatico, con la Natura, con il Sogno.
Eliade ci mostra come nel sogno e nel mito l’essere umano condivida, aldilà delle connotazioni territoriali che gli sono proprie, strutture, narrazioni, simbologie comuni. Sono gli strumenti ancestrali stessi, marche operative innescate dal dato sensoriale e da qualcos’altroche evidentemente trascende i cinque sensi, che ci invitano alla cooperazione. Quelle che i musicisti chiamano vibes: come durante un concerto o un rave party, scaturisce spontaneamente un allineamento emotivo (le antenne delle formiche verdi) che si diffonde virale e si auto-amplifica: attraverso l’assunzione di entactogeni e sostanze sacre psicoattive, nelle trances rituali, si manifesta nell’umano che ancora preservi un ancoraggio nella Natura, o che lo ritrovi suo malgrado a un teknival, lo spirito del Convivio.
Non sono solo gli eventi piacevoli, casuali, edonistici, o di comunione spirituale che possono riattivare la Macchina del Sogno; anche una guerra o una pandemia, riconducono il gregge umano verso l’animale, con esiti imprevedibili.
La domesticazione di talune specie è la riproduzione dell’autodomesticazione umana e ci accompagna dalla notte dei tempi come un monito silenzioso perché è stato privato del suo senso profondo: è l’animale che si specchia in noi e viceversa, come spirito guida e totem; la distinzione fra umano e animale risulta quindi essere sempre più artificiosa e sempre meno sostenibile; pur avendo fatto poca strada dal distinguo tranchant di Cartesio, dal considerare gli animali poco meno che automi, si potrebbe al contrario, come il saggio Dersu Uzala estendere il dominio dell’umano a tutto l’esistente, per cui la tigre è un uomo, il vento è un uomo, il fuoco è un uomo…
Non è un lacerto umanista: è inevitabile emettere, aver emesso, un verso che ci definisce; tutte le specie lo fanno, e fra simili si incontrano e si riconoscono, in forme e complessità differenti. È un problema di posizionamento e di distanza per cui il discrimine ha la sua utilità, in quanto delimitazione del campo di indagine.
Sostanzialmente, nell’elaborazione del pensiero, ci troviamo sempre a costruire narrazioni, nel bene e nel male: un tempo, si doveva trovare una ragione per limitare l’accesso al Regno dei Cieli e al sagrato della chiesa, che demolisse ogni empatia verso la sensibilità animale(coscienza di sé, capacità di provare dolore e altre emozioni), un discrimine funzionale a una griglia di controllo; superata la violenza del sacrificio umano, il nuovo pharmakon, l’animale sacrificale e, in seguito nel Cristianesimo, la transustanziazione che interrompe il circuito sacrificale cruento (ma non la mattanza), richiedevano un’assunzione di superiorità, attraverso l’abbandono dell’animismo delle origini. Vedere un’anima in ogni cosa rendeva i margini di manovra limitati in un contesto sociale e religioso che aveva cessato da tempo le pratiche della competizione limitata, e ragionava per stock estesi e allevamenti intensivi; ridurre l’animale ad automa, privarlo di ogni dignità di vivente, permetteva il suo sfruttamento come forza lavoro e la sua uccisione per farne alimento. Un modello di successo che non di rado fu applicato dagli appartenenti stessi alla specie umana ai propri simili: agli Africani deportati come schiavi nelle Americhe, agli Aborigeni australiani, ai Rom, agli Ebrei nei campi di concentramento.
Anche questi erano considerati o diventati per decreto, solo parzialmente umani nonostante parlassero e scrivessero. Potremo estendere il discorso alle discriminazioni di genere e sesso, a quelle religiose o ai nazionalismi, pur riconoscendo alla spinta identitaria un nucleo di tragica autenticità, l’esigenza di superamento dell’individuo, del single global, dell’uomo a una dimensione, della cellula produttiva, del consumatore ottuso in favore di un chiassoso ritorno al clan. La curva, la Blut Gemeinschaft, il campanile, la fede, una grossolana e violenta ricerca di appartenenza e riconoscimento in extremis, perché non si dà un IO senza un TU che lo riconosca e nel branco questa basilare necessità di mammifero gregario trova tutto il necessario sostentamento. Sono sempre le vibes, ma mutate di segno, il lato oscuro della Forza: un comportamento decisamente animale, di animale impaurito, il panico identitario.
Sapremo rielaborare l’inconscio collettivo come le nostre fiction economiche e sociali, che il più semplice degli esseri viventi ha saputo mettere in ginocchio in pochi mesi, svelandone oltre alla fragilità, l’inconsistenza?
Il problema è il tempo, che pur essendo una convenzione come tante, è sicuramente una marcia in avanti durante la quale sono state superate già molte soglie critiche rispetto al nostro rapporto con l’ambiente, e non è possibile tornare sui propri passi.
Esisterà sempre una famiglia più ampia e accogliente della conventicola o della squadra di calcio, del nostro limitato bacino di credulità, dipendenze e automatismi: l’intero dominio dell’esistente nel quale le nostre individualità e i legami sottili che si creano fra di esse sono da considerarsi affioramenti estemporanei.
A questa nuova consapevolezza di specie, potranno concorrere gli strumenti dell’espansione della coscienza classici, ma dopo tutto il nostro scervellarsi e non darsi pace, quando, esausti, cadremo addormentati, un attimo prima della materia nera e della morte, sopra l’estrema e sottile membrana che da queste ci separa, apparirà il sogno animale.
Andrea Betti
Riferimenti Bibliografici e Cinematografici:
Lev Tolstoj “Guerra e Pace” Traduzione di Enrichetta Carafa D’Andria, Vol. II, Einaudi, 1990
Thomas Pynchon “L’Arcobaleno della Gravità” Traduzione di Giuseppe Natale, BUR, Settima Edizione, Aprile 2019
Werner Herzog, “Cobra Verde – Dove Sognano le Formiche Verdi” Racconti Cinematografici. Introduzione e Traduzione di Claudio Groff, Arnoldo Mondadori Editore, 1990
Bruce Chatwin “Le Vie dei Canti” Adelphi, 1995
Aldo Braibanti “Impresa dei Prolegomeni Acratici” Editrice 28, 1989
Claude Lévi-Strauss “Tristi Tropici” Il Saggiatore, 1960-2018
Daniel Quinn “Ishmael” Bentam, 1995
Su “Ishmael” vedi anche Alessandro Pilo
Mircea Eliade “Miti, Sogni e Misteri” Rusconi, 1986
Tom Regan “I Diritti Animali” Garzanti, 1990
Il riferimento a Sylvia Plath è tratto dell’introduzione di Paolo Simonetti a “La Campana di Vetro” Traduzione di Anna Ravano, Mondadori, Oscar Moderni, 2016
I riferimenti in merito all’approccio filosofico sulla questione umano-animale (da Descartes ad Heidegger), autodomesticazione, domesticazione, linguaggio sono frutto della lettura di Felice Cimatti, “Filosofia dell’Animalità” Universale Laterza, 2013
Sulla Swarm Intelligence si rimanda alla voce di Wikipedia https://it.wikipedia.org/wiki/Swarm_intelligence
Film
Ciro Guerra “El Abrazo de la Serpiente” 2015
Werner Herzog “Dove Sognano le Formiche Verdi” 1984
Akira Kurosawa “Dersu Uzala” 1975
Wim Wenders “Fino alla Fine del Mondo” 1991
Peter Weir “L’Ultima Onda” 1977
Peter Fainman “Mr. Crocodile Dundee” 1986
Andrej Tarkovskij “Stalker” 1979