La poesia non salva la vita. La cultura non è un salvagente. Nell’immaginario dell’emergenza – non necessariamente quello generato da una pandemia – non è ancora chiaro che cosa, nell’ordine dei beni immateriali, possa fare la differenza tra la vita e la morte. Come prepararsi, quali cose avere in casa, dove rifugiarsi? La realtà è ordinata come dicono alcuni, Homo homini lupus, darwinismo sociale, neoliberismo, o come è possibile con certi altri procedurali come prosocialità, cooperazione, mutuo appoggio. Su queste cose possiamo avere delle idee più o meno precise, più o meno operative, ma passare dai beni-rifugio ai beni-dello-spirito è un’operazione insidiosa. Sembrano dialoghi con un’entità immaginaria. Ogni inserimento in un elenco prevede un’assegnazione di valore e una prospettiva. A meno di scivolare in forzature metaforiche che scontentano tutti, cultura e poesia non si sa bene a che cosa servano in un piano di evacuazione, in un protocollo di messa in sicurezza, in una catastrofe. L’idea più spontanea – e trita – è quella consolatoria, di alleviamento, di cura, di sostegno morale. La letteratura come farmaco, come antidoto contro la noia, come resilienza interiore quando si è circondati da un mondo che crolla. In genere, chi scivola in questo pantano vischioso – e spesso ipocrita – è colei o colui che non ha la più vaga idea di che cosa significhino parole come “collasso” e “sopravvivenza”, e certamente hanno un’idea estremamente formale di “poesia”, e un’idea etimologica ma veloce di “farmaco”. Detto altrimenti, chi non ha mai riflettuto seriamente sulle articolazioni multiple di una crisi/evento epocale come l’Antropocene, o come una pandemia che ne è solo l’ancella, avrà dell’idea di cultura, di scrittura e di poesia una visione molto superficiale, in bilico tra categorie antropologiche puerili ed effimero orgoglio di gruppo. Oppure superficiale, effimero e puerile lo è diventato, perché di notte l’Ordinatore ha cambiato posto alle statue.
Un aereo colpisce un palazzo. Un camion accelera su un marciapiede. Il poliziotto gentile ha smesso di salutare. I vicini ascoltano a sempre più alto volume una trasmissione radiofonica che grida “scarafaggi”. Uomini armati entrano in una scuola o in una discoteca, dicono a parole e gesti di stare calmi.
In che modo, fuor di metafora, scrivere è sopravvivere? Esiste una teoria che dice che l’uomo contemporaneo è ancora l’uomo del Paleolitico che ha accumulato saperi nel tempo. Non un semplice hardware dotato di software sempre più evoluti, ma un sistema complesso di moduli cognitivi generati nel Pleistocene che, anche a distanza di 100.000 anni, continuano a influire sulle percezioni, sulle scelte, sulle credenze dell’uomo contemporaneo. Ovviamente ci sono moduli molto più antichi, come quello della reattività al rischio, dell’ancoraggio delle conoscenze a rappresentazioni spaziali, dell’orientamento mentalmente simulato. Alcuni li abbiamo sentiti tornare nelle scorse settimane. Sono quelli che non permettevano di leggere, di stare fermi, che chiedevano una dispensa piena, informazioni, di pulire la spesa, di proteggersi. Moduli cognitivi che a un esame attento rendono l’immagine del nostro cervello simile a una spada o a uno scudo, il nostro cervello comunque sembra si sia evoluto come un’arma, meglio un tool. Specchio della manipolazione di pezzi in oggetti e prima, in immagini. Quello che però sostiene la teoria della “continuità cognitiva” è che tutto il nostro sistema di analisi del reale si è evoluto in modo ipertrofico per rispondere a situazioni di stress ambientali, emergenze, bisogni primari. Anziché specializzarsi in un problem solving ancorato al puro istinto di sopravvivenza, anziché renderci efficaci e fulminei come un grosso felino, l’evoluzione ha scelto per il cervello umano la via più “creativa”, potenziando un sistema di simulazione della realtà che non ha eguali nel mondo animale. Fragili e riflessivi, siamo dei teneri primati immaginanti.
Tutto il sapere è narrativo, così già molto tempo fa Jean François Lyotard insegnava. Anche le grandi teorie scientifiche lo sono, e lo sono allo stesso modo le autorappresentazioni degli individui, che radicano sempre la propria identità in un sistema narrativo fatto di radici, storie, aneddoti, proiezioni future. Si potrebbe dire, senza nulla togliere ai teorici della letteratura, che il romanzo non sia molto di più che l’evoluzione formale ed estetica del nostro essere da sempre Homo narrans. Ma in che modo, allora e adesso, le radici antropologiche della letteratura sono legate al discorso della sopravvivenza? In che modo “sapere come funzionano le cose” può incrementare l’efficacia del nostro modulo narrativo come skill per sopravvivere oggi? Facciamo tre esempi:
– Animismo: immaginare il mondo come formato da realtà che sono tutte persone-personaggi è un modo per narrativizzare il nostro intero rapporto con la realtà che ci circonda. Non solo umani ma anche non-umani, non solo la storia dell’uomo ma anche la storia del resto del pianeta. Questa traduzione in romanzo della vita, di tutta la vita, di tutte le vite, ha il vantaggio di rendere comprensibile la complessità, di dare senso e direzione a ciò che intuitivamente non ha senso, di inserire tutto in un sistema coerente dove anche il casuale è causale. Per i nostri antenati questa non era un’opzione di meaning making tra le altre ma era la migliore strategia possibile di sopravvivenza: comprendere e vivere in un ecosistema traducendolo in una galassia di racconti collegati tra loro. Dall’ecologia alla cosmologia. Dalla cosmologia al cosmo interiore. Un esempio letterario potrebbe essere Il libro della giungla di Rudyard Kipling.
– Sogno: l’attività onirica è un luogo di emersione e risoluzione dello stress, un apparecchio di simulazione di paure, di insicurezze, di desideri. Chi dialoga molto con il proprio lato notturno è una persona più consapevole dei propri limiti e delle proprie capacità nel mondo diurno. Il sogno è anche la zona instabile dove il mistero parla per simboli, dove le combinazioni simboliche si dilatano al di fuori delle convenzioni sociali e culturali, dove il prelinguistico riemerge per mettere allo scoperto faglie e fratture che tendiamo a schermare e negare. Per andare a caccia nel Pleistocene il linguaggio non era essenziale, proprio come si può costruire un violino senza bisogno che il maestro racconti all’allievo come si fa: basta guardare, imparare osservando, imitare. Se il linguaggio esiste non è per risolvere problemi pratici come trovare cibo, ma esiste per prolungare anche di giorno l’attività onirica notturna. I sogni sono utili in molti modi. Possiamo aspettare la notte per averli, ma l’esito non è garantito. Invece con le parole possiamo sognare sempre. Basta leggere una poesia di Dylan Thomas, ad esempio, per capire di cosa stiamo parlando.
– Vicarianza: in un mondo di incertezza e paure, fare piani è una strategia a doppia ricaduta, perché mentre ci tranquillizza emotivamente sta già ponendo le basi razionali per reagire efficacemente a una fonte di stress. La vicarianza è la capacità cognitiva di Homo sapiens di produrre simulazioni mentali dove testare in sicurezza delle ipotesi di comportamento. Mi immagino una scena, dei personaggi, delle azioni, moltiplico scenari e accadimenti possibili, il tutto stando al sicuro nel mio cranio. Ma la vicarianza funziona anche per produrre situazioni irrealizzabili, il che sembra forse inutile, ma in realtà è un modo indispensabile per amplificare la realtà in attesa di ricadute imprevedibili. Una specie di moltiplicatore di soluzioni inaspettate. In letteratura un referente possibile è Il vagabondo delle stelle di Jack London.
Una donna, mentre ancora il grattacielo sembra tremare, decide di scappare per le scale di sicurezza mentre i colleghi stanno fermi. Non è un incidente quell’auto sulla folla. Il poliziotto sa qualcosa su quello che succederà ai negozi ebrei domani. Per i vicini gli scarafaggi siamo noi. Gli uomini armati non vogliono un Boeing 737 e una valigia piena di soldi. Un virus sconosciuto fa mettere in quarantena una metropoli in un continente lontano.
Narrazione animica, visione onirica, scenari (im)possibili. La nostra arcaica, primordiale passione per le storie è ancorata a questi strumenti cognitivi che sono anche risposte dirette a bisogni primari, quelli che hanno a che fare con la nostra vita, la vita dei problemi quotidiani, quella da affrontare giorno per giorno. Ci piacciono le storie perché le storie ci dicono “come fare”, questo piacere è una risposta fisica. In che modo allora potrebbe ancora funzionare una letteratura completamente sganciata da questo orizzonte complesso, una letteratura dove il quotidiano è replica omologa del nostro quotidiano più irrisorio, dove non accadono anomalie misteriose, dove nulla mi dice qualcosa di nuovo su di me e sugli altri? Come può funzionare una letteratura che continua a negare il mutamento dei tempi, che non si sintonizza con il nuovo reale collettivo, che non si sforza di elaborare il trauma di un’intera epoca? Com’è possibile che dietro le puerili argomentazioni dell’arte per l’arte, della consolazione del prima, dell’escapismo in un qui che peraltro non esiste più, si continuino a far libri completamente avulsi dalle radici antropologiche della letteratura?
La risposta è sotto gli occhi di tutti ma, come sempre accade, è così in vista da essere invisibile. Ed è la fragilità. Quella che ha fatto da motore cognitivo per la nostra specie, quella che ci ha spinto a reagire immaginando, sognando, desiderando, e che oggi è invece causa ed effetto di un loop cognitivo senza scampo. L’editoria, l’editoria italiana in particolare, si fonda in gran parte sul sentimento di fragilità. Della famiglia, delle aspirazioni, della coppia, i sentimenti ostentati, sfruttati come grimaldelli. In una bolla economica disastrata in cui non si è stati capaci di aumentare il numero di lettori, qualcuno si è limitato a fidelizzare un pacchetto di mercato sicuro, quello delle aspettative fragili. Una specie di tossicodipendenza narrativa in cui la nuova uscita non deve offrire strumenti di sopravvivenza cognitiva nell’era dei grandi traumi dell’Antropocene, ma deve mantenere lo status quo, una specie di metadone che fa leva sulle nevrosi anziché tentare di risolverle, un sistema opportunista fondato sul consumismo compulsivo, non diverso da chi vende psicofarmaci invece di restituire alle persone una vita degna di essere vissuta. Un incidente rimane un incidente, gli essenziali che stabiliscono cosa è l’umano possono essere affrontati in possitopie diffuse o possono essere completamente dimenticati, coperti, in una cortina fumogena mesmerizzante: “va tutto bene, i tuoi sentimenti sono importanti”.
Una foresta lontana è in fiamme, l’Esercito popolare cinese blocca autostrade deserte, un gruppo di uomini è in mezzo al mare e non ci sono soccorsi in vista, l’Ordinatore notturno non smette di cambiare la posizione delle statue.
In questi giorni di quarantena esiste un test per capire a che punto siete. Alzatevi, prendete un vecchio libro, leggetelo restando in piedi. Avete voglia di sedervi? Dopo quanto? Avete voglia di un libro nuovo? Ogni quanto? Siete fragili o antifragili? Vi immaginate andare al lavoro tra pochi giorni? C’è una scommessa emotiva che state facendo sul vaccino per il Covid-19? Schiena, piedi, quella strana capacità olografica che ha il nostro cervello sono tutte funzioni complesse e collegate. C’è un dialogo con il Futuro in corso, altro interlocutore immaginario, su progresso, sopravvivenza, posizioni nella savana del mondo. Il momento di decidere tra Adolescenza e Antropocene è arrivato?
MM – AV
L’ha ripubblicato su Downtobaker.
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