Mentre discutiamo, anche opportunamente, su quali autori italiani sarebbero in grado di narrare oggi la pandemia e il trauma della quarantena, ancora una volta sveliamo la nostra idea di letteratura, un’idea fragile, invecchiata, fatta di nomi, di scritture, di genealogie locali e microtradizioni editoriali, di “figure”, insomma, di ritratti. Gli album dei calciatori prima del calcio. La foto del piatto prima di averlo cucinato. L’individuo prima delle persone. Non c’è da stupirsi quindi che certe discussioni sembrino alla fine un po’ sterili, bizantine, come esercizi di metafiction per passare il tempo sui social e ingannare la noia da lockdown.
Quello che manca invece è una discussione coraggiosa sui contenuti. Sul “cosa” prima che sul “come”. Sul perché prima che sul chi. Una volta si parlava in questo senso di “poetica”, ma adesso c’è moltissima timidezza nell’affrontare i problemi del “cosa”. Perché? Anzitutto per opportunismo, perché se io critico il tuo “cosa” poi tu vieni a criticare il mio. Meglio lasciare tutto com’è e giocarsela sulla specificità della “voce”. Poi c’è l’altro motivo, apparentemente forte: un “cosa” non è strettamente necessario per fare letteratura, posso parlare anche delle paperelle nella vasca da bagno ma “se lo faccio da grande scrittore” allora chissenefrega no?
In tutto questo fa da collante e giustificazione il battutismo degli stenterelli, tipo “ah me li immagino io tutti i libri sul virus che intaseranno le redazioni editoriali”, che sì, fa anche un po’ ridere ma oltre a un post abbastanza scontato su Facebook poi ci si ritrova con il solito pugno di mosche. Invece varrebbe la pena chiedersi il perché del battutismo, e forse ci accorgeremmo che è solo un asciugamano per coprire l’imbarazzo di chi non ha strumenti nemmeno per distinguere tra chi può scrivere davvero certe cose e chi lo fa ugualmente ma in modo inadeguato.
Cominciamo a parlare sempre più spesso di letterature del dopo ma in realtà non sappiamo parlarne, un po’ perché abbiamo un’idea di letteratura abbastanza anacronistica, un po’ perché non abbiamo delle vere coordinate per farlo. Più facile quindi disquisire sul “come” che sul “cosa”, perché il “cosa”, va da sé, richiede competenze multidisciplinari che eccedono l’italianistica d’impressione di quotidiani e blog. Ma il vero problema è che il disagio, più che dagli editoriali, viene proprio dagli scrittori. Infatti, lo avrete notato, stanno tacendo il più possibile.
Perché tacciono? Perché stanno aspettando. Ci sono quelli che sperano in un ritorno molto improbabile allo status quo. Sono forse la maggioranza e formano la grande fetta degli illusi da negazione del trauma. Poi ci sono quelli che aspettano di capire dove il vento soffierà. Aspettano ad esempio il passo falso di qualcuno per poterlo attaccare a giochi fatti. E aspettano anche perché se si spulcia la rete le idee nuove in realtà non mancano, e non vanno cercate neanche troppo lontano. Ma questa filosofia dell’intervenire “a bocce ferme” in realtà è una resa intellettuale tragica.
Il 10 luglio 2019, prima della pandemia ma in piena discussione antropocenica, era uscito su Minima&Moralia un dialogo tra Giulia Caminito e me: Memorie di una letteratura futura. Il giorno della sua uscita i commenti furono davvero molti e anche alcuni scrittori intervennero auspicando un’allargarsi della discussione. Quando ci fu il BookPride di Genova, quell’autunno, qualcosa si disse e si fece. L’Antropocene, abbastanza deriso fin lì, divenne un topic con pari dignità rispetto a tanti altri. I programmi del BookPride di Milano così come del Salone del Libro di Torino 2020 hanno accolto poi l’argomento come importante e addirittura centrale. Peccato che sia arrivato il virus ad annullare e scombinare le carte di una discussione ormai necessaria.
Ma necessaria per chi? Lo avete percepito anche voi, credo, il sospiro di sollievo di chi al Salone sarebbe arrivato intellettualmente ed editorialmente impreparato. Perché certi discorsi su iperoggetti come “Antropocene”, “altre forme di vita”, “collasso” ecc. non si improvvisano in due mesetti scarsi. Da lì il silenzio di adesso. Silenzio opportunista di chi gioca in difesa. Silenzio di chi non sa proprio cosa dire. Silenzio di chi “vai avanti tu che poi vengo anch’io”. Ma il problema resta come un (in)cubo di cemento in camera da letto. Un alieno. Qualcosa che non si sa bene come affrontare. Una presenza inquietante che si finge di ignorare ma che giganteggia nella stanza. Possiamo quindi chiederci se Vasta o Pecoraro sarebbero in grado di parlare del nuovo presente. Io credo di sì. Ma dubito molto che lo faranno, ciascuno per ragioni sue, e il punto, comunque, non è questo.
Qual è il punto, allora? Il solito. Quello di poco meno di un anno fa, quando l’asciugamano è caduto. Chi tra gli scrittori ha oggi voglia di discutere, confrontarsi, scontrarsi sul COSA? Chi tra gli editoriali è interessato a farsi carico, nel mezzo della crisi più nera, di un nuovo rischio economico-intellettuale? Chi tra i professionisti della critica vuole prestare il suo sguardo distanziatore per sostenere la discussione? Possiamo aspettare in riva al fiume per vedere che cosa passerà, possiamo arroccarci in uno snobismo antiquario, possiamo sperare in un’improbabile ripartenza del già noto, ma il “cosa” si sta già decidendo senza il nostro contributo intellettuale. C’è un immaginario collettivo là fuori che si è già formato nostro malgrado. Non è un derivato di Netflix, è un abbozzo di cosmologia. Vogliamo parlarne adesso oppure preferiamo sparire?