Variazioni sul tema
(Tradotto dal francese “Imaginaires urbains des épidémies #4)
Immaginari urbani delle epidemie #4
Come si è visto in precedenza gli zombie di Romero hanno contribuito alla nascita di una nuova cinematografia che si snoda attraverso generi e codici estetico-narrativi diversi come ad esempio l’horror, il gore, la fantascienza, il b-movie, arrivando perfino alla commedia. Uno dei film che molto deve alla reinvenzione romeriana è 28 Days Later (Danny Boyle, 2003), la cui struttura narrativa si rivela un esempio particolarmente significativo a proposito del funzionamento degli immaginari catastrofici. Il film si regge interamente sulla dialettica fra visibile e non visibile, fra ciò che è mostrato e ciò che invece è soltanto evocato. Servendosi di una retorica che molto deve alla sineddoche e all’ellissi, Boyle fa dell’immaginario catastrofico la conditio sine qua non per la riuscita del suo film.
La trama racconta di una strana epidemia di rabbia che si diffonde in Inghilterra e che trasforma le vittime in delle creature iper-violente e molto contagiose. Rispetto allo zombie di Romero, l’infetto di Boyle è rapido, frenetico, e non più mosso da un istinto antropofago, ma da un’inesplicabile aggressività. Il film si apre su alcune immagini di violenza: rivolte (fra le quali si può riconoscere un frammento d’archivio del G8 di Genova del 2001), scene di panico, guerra, esecuzioni, ecc. L’inquadratura indietreggia e lo spettatore si rende conto che queste immagini provengono in realtà da alcuni schermi davanti ai quali giace una scimmia immobilizzata. Siamo all’interno del « Cambridge Primate Research Center ». Ad un tratto, un gruppo di attivisti per i diritti degli animali penetra nel laboratorio al fine di liberare le scimmie. Un ricercatore cerca disperatamente di opporsi informando gli attivisti che le scimmie sono infette e contagiose. Questi ultimi tuttavia non gli prestano attenzione e l’apertura delle gabbie provoca l’esposizione ed il contagio : una scimmia aggredisce una giovane donna del gruppo la quale comincia a contorcersi e a vomitare sangue. A seguire, uno schermo nero mostra il titolo « 28 Days Later ».
La sequenza che segue questo prologo è mediamente conosciuta: un giovane apre gli occhi. Si trova all’interno di una stanza d’ospedale. È visibilmente disorientato. Non ha idea di cosi gli sia capitato. È solo. Uscendo dalla stanza, i corridoi sono deserti, ma mostrano segni di confusione, di panico. Tutto lascia pensare ad una fuga repentina. L’ingresso della struttura si presenta allo stesso modo. Non c’è nessuno. All’esterno anche le strade sono vuote: autobus, macchine, ambulanze giacciono abbandonate con le porte aperte, come cadaveri sventrati. Nessun essere umano… vivo o morto che sia. Ben presto il giovane si ritrova a percorrere i grandi viali, le piazze, i parchi, i ponti sul Tamigi. Il Big Ben si eleva su una città fantasma, su un deserto di cemento. Il giovane continua a vagare nella metropoli inglese con uno sguardo che alterna stupore e angoscia. Solo. Al centro di un gigantesco corpo, intatto eppur morto. Cerca dei segni, delle tracce, qualsiasi cosa possa dare un senso a questo inedito paesaggio di desolazione. Tuttavia, nessun incendio, nessuna distruzione. Sono tutti andati via. La città è lì, davanti ai suoi occhi, ma appare privata della vita, quella dei suoi simili, gli abitanti, i cittadini.
Come un cadavere imbalsamato, il territorio urbano, il territorio umano per eccellenza, questo spazio creato da e per l’uomo, materia e simbolo di società, di civiltà, si presenta ai suoi occhi in una forma paradossale, un vero e proprio ossimoro. Cosa resta di una città privata dei suoi abitanti? Un corpo senza sangue, senza fluidi, senza calore. Che ne sarà dell’urbano senza di noi? Tutta la sequenza si dipana attraverso un climax particolarmente riuscito nel quale anche la musica gioca un ruolo centrale. Il brano in questione si chiama East Hastings del gruppo sperimentale canadese Godspeed You Black Emperor (1997). In un’intervista al giornale The Guardian[1]

Danny Boyle afferma: “Ho sempre cercato di avere una colonna sonora in testa (mentre creavo i miei film). Quando realizzai Trainspotting si trattava degli Underworld. Per me la colonna sonora di 28 Giorni Dopo erano i Godspeed. Tutto quanto il film è stato fatto con i Godspeed nella mia testa”.
Il titolo del film che separa la sequenza del laboratorio da quest’ultima, gioca un ruolo centrale nell’economia narrativa fornendo un’indicazione cronologica fondamentale che permette di strutturare tutta quanta l’azione: ventotto giorni sono trascorsi fra l’intrusione nel laboratorio che ha causato l’epidemia ed il risveglio del protagonista, il giovane Jim (Cillian Murphy). Questo intervallo temporale non sarà mai mostrato direttamente allo spettatore, ma tuttavia sarà oggetto di costanti evocazioni. Questi ventotto giorni sono dunque un’ellissi, un non-detto, un non-visto. Questo frammento temporale separa la normalità del nostro mondo urbano contemporaneo dall’inquietante paesaggio davanti al quale si trova Jim e che non può che ricordare le immagini delle più importanti metropoli della terra in questa primavera del 2020 durante la pandemia del Covid-19.
La scelta narrativa di Boyle è precisa e strutturata. Scegliendo un protagonista che ignora ciò che è successo, che si è appena risvegliato da uno stato comatoso e che dunque non ha potuto assistere agli eventi che hanno devastato la Gran Bretagna, il regista mette in atto una vera e propria analogia trans-diegetica fra spettatore e personaggio. Entrambi non hanno assistito a ciò che è successo, ed eccezion fatta per il prologo (l’irruzione degli animalisti nel laboratorio), ignorano i famosi ventotto giorni e le loro conseguenze.
Sin dall’inizio, dunque, il film si costruisce su una doppia trama narrativa: da un lato la storia di Jim e degli altri personaggi che egli via via incontrerà, la loro ricerca di un rifugio, il loro viaggio all’interno di un territorio popolato da infetti; dall’altro, l’ellissi di quei famosi ventotto giorni che segnano il destino del Regno Unito: la diffusione del contagio, il panico, l’esercito, l’evacuazione, il collasso del governo e di tutte le strutture, la fine della società inglese che provoca quel paesaggio di morte e desolazione, sono tutti quanti degli avvenimenti evocati, ma mai mostrati. Quando Jim, per la prima volta, incontra altri superstiti, questi ultimi, resisi conto della sua situazione, cercano di raccontargli brevemente ciò che è successo:
“Lo abbiamo saputo dai giornali… ma si era capito subito che c’era qualcosa di strano. Perché stava succedendo nei piccoli villaggi, nei mercatini di provincia. Poco dopo non era più solo una notizia. Era già in strada… stava cominciando ad entrare dalle finestre. Era un virus. Un’epidemia. Non serviva un dottore per capirlo. Era il sangue. Qualcosa era entrato nel sangue. E quando hanno cominciato ad evacuare le città era ormai troppo tardi. L’infezione era esplosa. I blocchi dell’esercito sono saltati. È allora che è cominciato l’esodo. Il giorno prima di interrompere le trasmissioni radio e tv parlavano di epidemia a Parigi e New York. Poi non si è saputo più nulla”.
Il funzionamento di questa ellissi non si basa esclusivamente su un registro discorsivo. Visivamente Boyle fa largo uso di scenografie particolarmente efficace, di elementi che agiscono come una sineddoche audiovisiva che riesce dunque ad evocare un tutto a traverso una delle sue parti. Da un punto di vista visuale, la sineddoche permette di sfruttare al meglio i rapporti fra campo e fuori-campo, fra ciò che viene mostrato e ciò che invece viene evocato. Questa strategia si manifesta ad esempio nella famosa sequenza di Londra. Jim (come del resto lo spettatore) non ha alcuna idea di ciò che è avvenuto. Egli è visibilmente turbato dall’assenza di altri esseri umani. La composizione della sceneggiatura mostre alcuni elementi che permettono di “immaginare” gli avvenimenti e di dare dunque corpo all’ellissi narrativa.
Il tour nella Londra post-epidemia comincia all’interno di un ospedale, il quale come si è visto, presenta i segni di una fuga rapida. In seguito, gli esterni compongono in crescendo un vero e proprio ossimoro urbano: una delle metropoli più abitate del pianeta, simbolizzata dalle sue piazze, dai suoi monumenti più celebri, si offre alla cinepresa come una Pompei contemporanea o ancora come la città di Prypiat, evacuata in fretta e furia subito la catastrofe di Chernobyl nel 1986.
Il silenzio viene via via rimpiazzato dalla musica extra-diegetica (i Godspeed) che segna l’inizio di questo climax audiovisivo di rara efficacia drammatica. Lo spettatore, lo ricordiamo, così come il protagonista, è ignaro degli avvenimenti. Questa perfetta coincidenza fra universo diegetico ed extra-diegetico provoca un effetto ancora più sconvolgente: il dramma del giovane protagonista non può che influire sulla postura spettatoriale. Ad un certo punto Jim trova centinaia di banconote abbandonate su una scalinata. Si tratta ovviamente di un chiaro segno che rinvia all’idea di collasso: i soldi non valgono più nulla. Il cammino prosegue e la musica aumenta di intensità. Soggettive e panoramiche si alternano facendo del cityscape londinese uno spazio sempre più inquietante e spaesante: la figura umana del protagonista appare spesso sproporzionata rispetto alla grandezza delle architetture, ulteriormente enfatizzata dall’assenza di persone.
Il crescendo aumenta ancora la sua intensità (ancora una volta la scelta della musica è decisiva). Jim di fronte ad un’edicola raccoglie un quotidiano che a grandi lettere mostra la frase « Blair Orders Evacuation ». La sequenza finisce con un pannello sul quale sono affissi centinaia di fogli di carta. Sono messaggi, fotografie, fiori, lasciati lì prima del grande esodo. Due sono gli elementi da sottolineare. Il primo riguarda le scelte stilistiche: l’analogia trans-diegetica fra personaggio e spettatore che si manifesta nel fatto di disporre (eccezion fatta per il prologo) le stesse informazioni narrative; il climax audiovisivo; la strutturazione dell’ellissi attraverso la presenza massiccia di segni “sineddotici” capaci di fornire allo spettatore gli elementi utili alla figurazione della catastrofe (la diffusione del contagio, il panico, l’evacuazione, il collasso). Il secondo elemento riguarda la costruzione scenica della città di Londra. In maniera coerente con gli immaginari epidemici, le strutture materiali della città sono intatte. Tuttavia, la totale assenza delle figure umane contribuisce a generare una sorta di ossimoro concettuale, un paesaggio spaesante ed inquietante, una metropoli abbandonata, deserta, svuotata.
Il seguito del film racconta la fuga dei protagonisti dalla capitale. Dopo aver captato un segnale radio, il gruppo decide di dirigersi presso un rifugio militare a Manchester. Londra è uno spazio segnato dal pericolo e la sola speranza potrebbe essere quella di unirsi ai militari. A bordo di un taxi, Jim e gli altri si incamminano. Le strade sono circondate da cadaveri e i tunnel sono bloccati da masse di veicoli abbandonati. Tuttavia, l’atmosfera angosciosa si placa durante il viaggio per Manchester grazie ad un paio di sequenze extra-urbane che costituiscono una sorta di pausa narrativa. L’arrivo nei pressi della città però costituisce un brutale ritorno alla realtà. Il taxi avanza lungo un’autostrada deserta quando ad un tratto fumo e fiamme si alzano in cielo. All’orizzonte la città di Manchester è in fiamme e appare lontana avvolta da un fumo nero. “Nessuno spegnerà mai quell’incendio” afferma uno dei protagonisti. Il gruppo raggiunge finalmente il luogo indicato nel messaggio radio. Si tratta di un posto di blocco militare che però appare abbandonato. Il film prosegue mettendo in scena lo sfortunato incontro con i soldati che si rivelerà assai diverso da quanto speravano i protagonisti.

Per concludere, perché e in che modo questo film “funziona”? Tutta quanta la regia di Boyle si basa su un gioco di evocazioni che mira a figurare uno spazio-tempo diegetico non visibile: la diffusione del contagio, il panico, l’esodo e il collasso. Questo processo evocativo si basa sull’esistenza preliminare di un immaginario collettivo sufficientemente diffuso. Lasciando allo spettatore il compito di ri-costruire il dramma, Boyle riesce a creare un incubo collettivo la cui intensità va oltre la semplice creazione di immagini di fiction. Siamo capaci di “immaginare” – nel senso di creare immagini – ciò che non vediamo e che non ci viene mostrato grazie ad una serie di indizi. E questo procedimento riesce soprattutto per via dell’esistenza di un immaginario ricco che costituisce quelli che André Gardies[2] chiamava “saperi collettivi”. Città evacuata, fughe scomposte, panico generalizzato, violenza, militarizzazione… fino all’apoteosi… la metropoli per eccellenza che ci viene mostrata sotto forma di un ossimoro spaesante ed angoscioso.
Potremmo arrivare a dire che 28 Days Later deve la sua stessa esistenza all’esistenza di un immaginario, di una sotto-traccia capace di farci intravedere i nostri sistemi urbani sotto una forma “necrotica”. Cos’è in fondo l’infetto di Boyle? Non è altro che una metafora gore della condizione metropolitana contemporanea. Rapido, frenetico, privo di razionalità, violento senza motivi precisi. L’infetto è ontologicamente aggressivo, intollerante. Egli attacca per uccidere o per replicarsi. Il riferimento va allora a quelle primissime immagini che aprono il film, quegli schermi che mostrano diverse scene di violenza senza contesto, senza spiegazioni, senza circostanze di sorta. L’infetto attualizza lo zombi romeriano in funzione delle evoluzioni sociali e urbane del nuovo millennio.
Affidiamo allora al critico Matteo Bittanti le ultime parole su questo film:
“Visionario, lucido ed impietoso, 28 Giorni Dopo è il film giusto al momento giusto. B-Movie che rasenta la perfezione, l’opera di Boyle non è soltanto lo Zombie del XXI secolo rivisto e corretto con il digitale, ma soprattutto un’allegoria riuscita sulla necrosi della metropoli e, soprattutto, sui suoi abitanti disumani. Boyle ha aggiornato la figura dello Zombie rivoltandola sino alla sua reinvenzione. Il risultato è l’infetto che incarna in maniera paradigmatica le inquietudini e le angosce del contemporaneo; ciò che lo caratterizza è la rabbia, la furia, la frenesia. È facile vedere dietro l’infetto la figura del cittadino, probabilmente il mostro più terrificante del pianeta. L’infetto è furioso, inquieto, morto al suo interno. Intollerante e patologicamente instabile, non è più mosso dall’urgenza di soddisfare le sue pulsioni più bestiali, incurante degli altri. Conclusione: 28 Giorni Dopo è un’efficace parabola sui processi di disumanizzazione che hanno ucciso la metropoli contemporanea” [3].

Per rimanere in tema, altri film meritano attenzione. Per esempio, G.A. Romero, fra il primo e il secondo capitolo della sua saga sugli zombie, aveva diretto nel 1973 The Crazies nel quale si racconta la storia di una piccola cittadina contaminata per errore da un prodotto tossico di origine militare che trasforma le vittime in folli assassini. Del film è stato fatto un remake nel 2010 diretto da Breck Eisner che porta lo stesso titolo. Sempre in tema di rifacimenti interessante è il caso di Dawn of the Dead di Zack Snyder (2003) che riprende l’omonimo romeriano del 1978. La storia diverge su alcuni punti, ma il protagonista principale – il Mall, il centro commerciale -, resta lo stesso. L’universo degli Zombie ha ispirato anche l’immaginario di Resident Evil, dapprima videogioco giapponese dal grande successo ed in seguito saga cinematografica. Un posto a parte spetta a Zombieland, di Ruben Fleischer (2009), che mischia i morti viventi con la commedia. Il risultato è tanto sorprendente quando inedito.
Anche 28 Days Later ha conosciuto un seguito. Si tratta di 28 Weeks Later diretto nel 2007 dallo spagnolo Juan-Carlos Fresnadillo. Il film mette in scena il ritorno dei primi profughi in Inghilterra dopo la fine dell’epidemia. In un settore di Londra messo in sicurezza da una forza militare guidata dagli Stati Uniti si inizia la ricostruzione del paese dopo che gli infetti sono morti di fame. Il virus riapparirà. Sebbene il suo impatto non sia minimamente comparabile al film di Boyle, 28 Weeks Later resta fedele all’universo diegetico e propone alcuni spunti interessanti.
Il viaggio negli immaginari cinematografici delle epidemie e delle contaminazioni si conclude con uno sguardo su due film dall’immaginario assai eterodosso. 12 Monkeys (1995), diretto dall’ex Monty Python Terry Gilliam, propone un interessante miscuglio fra epidemia, fine del mondo, viaggio nel tempo e psicologia. Vagamente ispirato da La Jétée di Chris Marker (1962), il film ci porta nell’anno 2035 nel quale l’umanità è stata quasi interamente annientata da un virus sconosciuto. Mentre i pochi superstiti vivono nel sottosuolo, il mondo in superficie è diventato un paesaggio di rovine dominato dagli animali selvaggi che hanno ripreso il controllo del pianeta. Nelle rare sequenze che ci mostrano questo universo non umano sembra quasi di rileggere le pagine di Alan Weisman e del suo Homo Disparitus[4]. Un detenuto, James Cole (Bruce Willis), viene inviato nel passato per indagare sulle cause della diffusione del virus.

Con il solito stile visionario ed eterodosso di Gilliam, il film si svolge essenzialmente negli anni ’90 che, secondo lo schema narrativo del viaggio nel tempo, non sono altro che un tempo passato inevitabilmente destinato all’annientamento. Si tratta di un registro temporale simile a quello utilizzato da James Cameron nella saga dei Terminator, ed in particolare nel primo capitolo del 1984 nel quale l’uomo venuto dal futuro, Kyle Reese, non può impedire ciò che è già scritto.
Questo senso di ineluttabilità contribuisce a creare quel senso di decadenza di un mondo sul finire, di un’apocalisse imminente ed inevitabile nella quale le escatologie laiche e religiose si confondono lasciando spazio a qualche spunto messianico. Interessante è dunque la rappresentazione dello spazio urbano. Se il presente diegetico del film – l’anno 2035 -, mostra una città morta, in rovina, messa in scena attraverso i codici della post-apocalisse, in realtà gran parte della vicenda si svolge nel presente extra-diegetico: gli anni ’90 nelle città di Baltimora e Philadelphia. Questi due luoghi sono rappresentati essenzialmente come degli spazi poveri, degradati, violenti, attraverso soprattutto la messa in scena di quartieri e architetture in stato di abbandono, popolate da individui marginalizzati. Si tratta di una scelta quanto mai voluta, che ovviamente rinforza quel sentimento di decadenza che ben si adatta all’idea di un fine imminente.
L’ultimo film di questa rassegna è The Happening (2008) de M. N. Shyamalan, il quale mette in scena un disastro quanto mai originale. Siamo sempre nel nord-est degli Stati Uniti quando all’improvviso, ai nostri giorni, comincia a prodursi uno stranissimo fenomeno : alcune persone iniziano d’improvviso a comportarsi in modo bizzarro; sembrano entrare in uno stato di trance e dopo pochi secondi di suicidano nei modi più assurdi. Le sequenze che ci mostrano queste ondato di suicidi collettivi sono assai inquietanti, rese ancor più drammatiche dal mistero che avvolge questi comportamenti. Una malattia? Una contaminazione? Un attacco terroristico? Come dice Michel Chion, “in questo caso, ad esempio, sembrerebbe trattarsi di una vendetta o di una reazione degli alberi che rilasciano contro gli uomini una neurotossina che sconvolge il loro comportamento. Proprio per questo motivo il fenomeno comincia nei parchi delle grandi città. Perché no? Ma la cosa veramente interessante è che alla fine questa teoria non viene né confermata né smentita” [5]. Senza particolari eccessi, Shyamalan ci offre un ritratto cinematografico inquietante: la fuga, il panico ed ancora una volta quel sentimento di “urbafobia” che rende le città il luogo del pericolo, lo spazio da cui fuggire.

The Happening ritrova una nuova vitalità nel momento in cui il dibattito sull’Antropocene ci conduce ad una potenziale rivoluzione epistemologica a proposito del rapporto fra Uomo, Società e Natura. Nel 2008 il film pone, attraverso i codici del genere catastrofico, una domanda quanto mai attuale e cruciale: e se la Natura nel suo insieme fosse dotata di una specie di coscienza, se non altro ad un livello basilare ed istintuale di sopravvivenza? Si tratta ovviamente di una considerazione implicita in una sceneggiatura che suggerisce l’idea di una reazione omi-cida (uomo nel senso di specie biologica) nei confronti di una specie particolarmente nociva come la nostra. The Happening getta le basi di una riflessione cruciale sul ruolo dell’Uomo nel pianeta e che l’Antropocene, poco meno di dieci anni dopo, ha posto al centro del dibattito.
Il primo elemento da segnalare è dunque questa idea di una Natura che cerca di disfarsi di noi a causa della pericolosità della nostra nell’economia specie nell’economia degli equilibri biologici e chimici del pianeta. Il registro della “reazione naturale” si è insinuato perfino nelle ultime settimane segnate dalla pandemia dovuta al Sars Covid-19. E se questo virus non foss’altro che una risposta elaborata dai sistemi biofisici e chimici per difendersi dalla sempre più crescente aggressività delle società umane? Ovviamente, allo stato attuale, si tratta di un terreno più filosofico che strettamente scientifico. Secondo questa prospettiva, i complessi sistemi biofisici che regolano la vita sul pianeta sono considerati come un macro-organismo capace in qualche modo di elaborare una strategia di autodifesa su grandissima scala il cui scopo sarebbe quello di eliminare un agente patogeno, esterno, invasivo, aggressivo e nocivo : l’uomo. La scienza ci dice senza alcun dubbio che il virus in questione è il risultato di un incontro biologico fra i geni del pipistrello e quelli del pangolino. Del resto, i virus sono sempre esistiti, fanno parte di quel gigantesco campionario biologico di creature che con forme e modalità diverse occupano la superficie del pianeta. Dall’altro lato sarebbe quanto mai ridicolo e fuorviante attribuire la causa della pandemia al solo registro della casualità naturali. L’espansione costante ed incontrollata degli spazi antropici a danno dei milieu naturali provoca inevitabilmente degli incontri e delle coabitazioni biologiche i cui effetti sono sotto i nostri occhi in questa primavera del 2020.
L’altro elemento che merita attenzione è quello evidenziato da Chion a proposito dell’incertezza sulla reale natura del fenomeno. Le rappresentazioni del mondo scientifico nel cinema catastrofico hollywoodiano ci hanno infatti abituato ad una visione quanto mai caricaturale ed ossimoricamente mitologica. La scienza diviene fede, mito. Lo scienziato non è più membro di una comunità che costruisce un sapere attraverso l’osservazione, il dibattito e la confutazione, ma assume il più delle volte il ruolo di un messia, di un profeta che cerca di opporsi all’incredulità o alla miopia della società, della politica o ancora dell’economia. Ecco allora che lo scienziato salva l’umanità intera, da solo contro tutto e contro tutti. Shyamalan cerca di rendere un po’ di giustizia ad una pratica che invece è assai più complessa e che si costruisce progressivamente attraverso il dibattito, l’impasse, per tappe e fasi intermedie di apprendimento che ovviamente necessitano di tempi non sempre compatibili con le esigenze contestuali del momento. Si tratta di un tema anch’esso di strabiliante attualità in piena pandemia, in un momento in cui la contingenza costringe ad un’accelerazione temporale spesso incompatibile.
Sono dunque tanti i temi ispirati da The Happening, ma ancora una volta sarebbe ingiusto e scorretto attribuire al film una qualsiasi aura profetica. Siamo sempre lì, all’interno del ruolo che gli scenari di anticipazione giocano nel nostro Zeitgeist. L’anticipazione non è una scienza predittiva del futuro, ma uno strumento di analisi del reale contemporaneo. Anticipare un organismo patogeno che trasforma gli esseri umani in morti-viventi o ancora pensare che gli alberi possano emettere delle neurotossine che spingono al suicidio di massa, non sono affatto giochi di Cassandra, né tantomeno semplici pratiche di fiction. Al contrario, il punto chiave è quello di mettere in pratica una forma di narrazione analitica che cerca di smascherare le disfunzioni strutturali del nostro mondo, ma anche e soprattutto i limiti dei nostri orizzonti cognitivi e concettuali ancora troppo inadatti ad accettare la fragilità del nostro mondo, della nostra società, e, perché no, anche della nostra specie.
[1] L’intervista è stata pubblicata sul giornale The Guardian le 15/2/2009.
[2] Cfr, GARDIES, A., L’Espace au Cinéma, Paris, Les Méridiens Klincksieck, 2019.
[3] BITTANTI, Matteo, « 28 Giorni Dopo » in Borroni, C., Girola, F., Invernici, A., et alii, Annuario del Cinema stagione 2002-2003, Bergamo, Federazione Italiana Cineforum, 2003, p. 19.
[4] WEISMAN, A., Il Mondo senza di Noi, Torino, Einaudi, 2008.
[5] CHION, Michel, Les Films de Science-Fiction, Paris, Cahiers du Cinéma, 2008, p. 375.
Alfonso Pinto – Ecole Urbaine de Lyon