Arriva il permesso di sgranchirsi le gambe, fare un po’ di stretching e mettere il muso fuori dalla tana. Un’alba di libertà incerta, forse ingannevole, e come piccoli animaletti pelosi nel folto di una foresta usciamo stando sempre all’erta per l’arrivo dei predatori, per nulla rilassati, ma d’accordo, prendiamo questo momento per quel che è e parliamo di libri…
Fra quanti si occupano di libri, fra chi ne scrive e chi ne pubblica e chi ne parla, si passa il tempo sui social a misurare i dati dell’Apocalisse in corso nel settore editoriale e a farsi coraggio provando a immaginare cosa si vorrà scriverà e vorrà leggere dopo che tutto sarà finito o almeno quando si potrà con un minimo di convinzione fare finta che tutto sia finito.
Personalmente già odio quelli che temono un’ondata di romanzi Coronavirus e proclamano che non ne leggeranno mai o solo fra vent’anni, come se si potesse ignorare quel che sta accadendo.
Questo non è che un sottotema del più generale ‘che ne sarà del mondo?’. Cambierà tutto o tutto tornerà come prima? Ai posteri l’ardua etc.
Ma già che ci siamo proviamo, nel nostro settore, a immaginare un po’ di cose, visto che qui sulla Grande Estinzione il punto era già, quando ancora l’Antropocene era un termine d’avanguardia un po’ sospetto (non sarà mica una di quelle cose trendy?), cioè l’anno scorso, di lavorare proprio sull’immaginario.
Molti sperano che i lettori (ma anche gli spettatori, naturalmente) dopo la crisi vogliano assolutamente pensare a altro e è ben possibile che lo facciano. L’overload di virologi pesa su tutti e il desiderio di voltare pagina sarà irresistibile.
Solo che non succederà veramente. Non si potrà evitare la più enorme e radicale esperienza collettiva del nostro tempo non più di quanto, che so, un romanzo degli anni Venti potesse ignorare la Prima Guerra Mondiale. Anche parlando di tutt’altro, la guerra pervadeva ogni cosa e era impossibile non farvi riferimento in qualche modo. L’amante del classico triangolo era stato ferito sull’Isonzo e decorato. Il ladro riconosceva nella vittima il suo ufficiale a Passchendaele. In gita di piacere sui Carpazi il gruppo di studenti si imbatte nei resti di una trincea dell’Imperial-Regio esercito. Persino non parlarne del tutto con uno sforzo deliberato non serviva perchè il lettore non poteva fare a meno di pensare ‘ma perché lei, così giovane, è già vedova? E lui, è stato al fronte o si è imboscato?’
Certo, è facile immaginare dei superficiali aggiornamenti di quello che alcuni chiamano ‘romanzo borghese’ o ‘neoliberista’: ‘Ma quell’aprile né Luca, né Silvia, né Alessio, né nessun altro andarono a New York o a Napoli o in qualsiasi altro posto. Era il 2020 e Luca, chiuso in casa insieme a tutti i libri che non aveva mai letto e tutte le serie che non aveva ancora visto, ebbe un mucchio di tempo per ripensare alla sua storia con Silvia e a vergognarsi un po’ di se stesso…’
Anch’io, come tutti, ho avuto il tempo di leggere o rileggere i libri che avevo per casa, specie quelli che avessero un qualche rilievo per i nostri casi presenti e per come il mondo in genere e l’arte in particolare potrebbero reagire al Coronavirus. Intendo, reagire un po’ più seriamente di Luca e Silvia.
Ho trovato due libri che si occupano della più grande epidemia della storia occidentale, la Morte Nera del 1348-1349, quella ‘pesty little pestilence that is killing half of Europe’ della canzone.(quella detta ‘di Giustiniano’ nel VI secolo forse ha fatto molti più morti ma ne sappiamo molto meno)
Non la metà ma fino a un quarto e per alcuni un terzo della popolazione europea, secondo gli storici. Anche se si da retta a certi revisionisti che stimano la mortalità ‘solo’ al 10 % sarebbe stata comunque una moria epica: pensate se di Covid 19 oggi morissero 6 milioni di italiani…
L’evento vi fu, questo è certo, vasto, ai limiti dell’Iperoggetto. La storiografia tradizionale spesso lo trattò come un momento pittoresco e drammatico ma non significativo. La Guerra dei Cent’anni non si fermò, nessun regno si dissolse, nessuna dinastia cadde… In termini di politica di potenza non cambiò molto. Del resto lo stesso si può dire di altre epidemie note in letteratura, come quella milanese del 1630, quella dei Promessi Sposi, o quella di Londra nel 1665, vissuta da Samuel Pepys e raccontata da Daniel Defoe, che non fermò l’ascesa dell’Inghilterra a grande potenza.
Però oggi esistono scuole storiografiche diverse, non concentrate sulla power politics e che danno alle epidemie un ruolo centrale o comunque importante nell’evoluzione dell’umanità, testi come ‘La peste nella storia’ di William McNeill (Plagues and Peoples, 1976) e il notissimo ‘Armi, acciaio e malattie’ (Guns, germs and steel, 1997) di Jared Diamond.
In particolare è proprio la Morte Nera del ‘300 a essere considerata quella che più di ogni altra ha veramente cambiato la storia, sopratutto attraverso l’economia.
Ma era questo ciò che pensavano i contemporanei?
Nella nostra tradizione letteraria quella peste si identifica con il Decamerone di Giovanni Boccaccio, che inizia con una impressionante descrizione dell’epidemia a Firenze, la cui popolazione venne letteralmente dimezzata (e più che dimezzata a Siena). Ma questo pare essere semplicemente la scusa perché un’allegra brigata di beatiful people si possa ritirare in una villa di campagna con tutti i comfort moderni e passare il tempo raccontandosi storie – comiche, drammatiche, sentimentali, erotiche, satiriche – e insomma, il mondo era così e lo sarà anche dopo, come sempre, un po’ come vorrebbero quelli che dicono che la gente vorrà tornare a leggere le stesse storie di prima.
Ma poco dopo Boccaccio scrive il ‘Corbaccio’, un poema misogino e acido e vagamente allucinatorio (il ‘Porcile di Venere’…) e dopo ancora solo opere edificanti in latino sulle sventure degli uomini illustri.
Per un quadro un po’ più sistematico delle conseguenze artistiche della Morte Nera ecco il primo dei due libri di cui vi dicevo: ‘Pittura a Firenze e Siena dopo la Morte Nera. Arte, religione e società alla metà del Trecento’ (1951; in italiano per Einaudi nel 1982) di Millard Meiss, uno storico dell’arte che insegnò a Princeton e Harvard. Un libro piuttosto noto fra chi si occupa di storia dell’arte.
Si tratta di un testo solidamente accademico ma ben scritto, che vuole rispondere a un preciso problema di storiografico. Partendo dal Vasari l’arte italiana fra il Trecento e il Cinquecento è stata letta e raccontata come una storia di inarrestabile progresso, un vero e proprio Rinascimento, da Giotto fino a Leonardo, Raffaello e Michelangelo. Questa tesi nel corso dei secoli è stata modificata, corretta, relativizzata, ridimensionata, storicizzata ma mai del tutto smentita e fa oggi parte del nostro più prezioso capitale culturale.
Fra i motivi di discussioni vi sono momenti, come la seconda metà del Trecento, in cui la marcia in avanti pare fermarsi e persino regredire. Giotto, Duccio, Simone Martini, i Lorenzetti, avevano dato vita a una pittura più naturale, più umana, più libera, più sciolta, più fisica, più familiare e, in un certo senso, più umanistica – sempre all’interno dei parametri cristiani, ovviamente. Nella seconda metà del Trecento si assiste invece a un ritorno a forme più rigide, stilizzate, frontali, duecentesche se non proprio bizantine perché la novità di Giotto non poteva essere semplicemente dimenticata.
Come mai? Un semplice ricambio generazionale (in fondo, i fratelli Lorenzetti morirono entrambi di peste) che lasciava eredi di minor talento come l’Orcagna e Nando di Cione? Una reazione formalista a un’arte più realista, rimanendo quindi dentro un discorso interno strettamente stilistico? Oppure, come sostiene Meiss, una diretta reazione alla Morte Nera del 1348?
Il rapporto fra movimenti sociali e politici con l’arte è notoriamente scivoloso e difficile da provare e concettualizzare. Ma Meiss esamina un gran numero di opere (il libro contiene ben 169 illustrazioni) e nota molti caratteri nuovi, anche bizzarri: le figure si posiziano in modo diverso, sono più spesso rappresentate frontalmente, evitano di guardarsi direttamente in faccia, non si toccano, sono separate all’interno di strutture architettoniche molto segmentante, i Gesù Bambino sono più strettamente fasciati e toccano il meno possibile Madonne che non li guardano, i sacerdoti, anche ebrei, sono presentati con molta maggiore solennità e rispetto. In breve, un’arte più gerarchica, più mistica, più solenne, più apparentemente semplice, meno umanistica e meno familiare.
“Tutti i settori della borghesia erano, comunque, chiaramente concordi nel volere un’arte più intensamente religiosa (…) Folle intere, vedendo nelle grandi calamità una punizione per la loro vita mondana e i loro peccati, erano presi da pentimento e da uno struggente anelito religioso (…) Diversi pittori – l’Orcagna, Luca di Tommé, Andrea da Firenze – furono indotti a una più profonda religiosità o a estasi mistiche. Altri, meno profondamente toccati, ritennero tuttavia conveniente, come i fabbricanti di immagini votive, di adottare i nuovi valori e le nuove forme artistiche, ma in modo più convenzionale”.
Il discorso è interamente stilistico, perché i temi erano sempre esclusivamente quelli del discorso religioso: Presentanzioni al Tempio erano prima e Presentazioni al Tempio rimasero – ma diverse. Di rappresentazioni dirette della Morte Nera praticamente non ce ne sono. Il noto Trionfo della Morte (un tema che dopo il 1349 dilagherà ovunque) di Buffalmacco Buonamico al Camposanto di Pisa è precedente, mentre successivo è l’impressionante frammento dell’Orcagna conservato in Santa Croce a Firenze, dove vediamo storpi e ciechi invocare la Morte perché li liberi dalle loro sofferenze.
Già che ci siamo, fra i cronisti dell’epoca citati da Meiss ce ne sono di quelli che sembrano di stretta attualità, per esempio Matteo Villani sulle conseguenze della peste: “Credettero gli uomini… che divenissono di migliore condizione, umili, virtuidiosi e cattolici, guardassonsi dall’iniquità e dai peccati, e fossono pieni di amore e di carità l’uno contra l’altro. Ma di presente restata la mortalità apparve il contrario: che gli uomini… si diedero alla più sconcia e disordinata vita che prima non avevano usata”
E sulle conseguenze economiche: “Stimossi per il mancamento della gente dovere essere dovizia di tutte le cose che la terra produce, e in contrario per l’ingratitudine degli uomini ogni cosa venne in disusata carestia, e continovò lungo tempo”.
Quello di Meiss è un libro accademico, nel senso migliore del termine. L’altro libro di cui vi voglio parlare è l’esatto opposto, il libro meno accademico che possiate immaginare.

Eppure il titolo promette bene, ‘Kulturgeschichte der Neuzeit’, che nella sontuosa edizione americana (non è mai stato tradotto in italiano) in tre volumi del 1953 che possiedo diventa ‘A cultural history of the Modern Age’, anche se sarebbe più corretto dire della Modernità. Più professorale di così…
Solo che l’autore era l’austriaco Egon Friedell e ora molto, molto poco accademico. Attore, cantante, improvvisatore, umorista, scrittore, viveur e festaiolo, Friedell era un classico ‘Kaffeehaus Witz’ viennese e fra gli inventori di quella deliziosa forma d’intrattenimento che era il cabaret e di cui lo stand-up è una pallida discendenza. Ebreo convertito al cattolicesimo, profondamente conservatore ma privo di qualsiasi spirito di classe e allegramente irrazionalista, morì nel 1938 in maniera caratteristica: appena annessa l’Austria i nazisti andarono a prenderlo e lui si lanciò dalla finestra, non prima d’aver avvertito quelli sotto di spostarsi.
Perciò i suoi amici furono molti stupiti quando, fra il 1928 e il 1930 Friedell fece uscire la sua ponderosa Storia Culturale della Modernità, un’opera che fa esattamente quel che dice il titolo, cioè una storia delle idee e dei costumi europei dalla Morte Nera allo scoppio della Prima Guerra Mondiale.

E’ un opera fluviale, che tenta di essere sistematica ma non ci riesce, perchè Friedell parte continuamente per la tangente e si perde dietro tutto quel che gli interessa e a fatica torna all’argomento principale. Un’erudizione spaventosa che però lascia molti dubbi: a volte chiaramente conosce molto bene l’argomento e altre volte, altrettanto chiaramente, pattina su versioni di seconda e terza mano. Del resto è convinto che “l’intera storia intellettuale dell’umanità è una storia di furti… Tutta la letteratura mondiale non è che un unico immenso plagio”.
Fermamente convinto della supremazia del momento spirituale, di cui quello materiale è solo l’incarnazione storica, è bravissimo nel descrivere di ogni epoca lo stile nel vestire, nel mangiare, nell’abitare, nel parlare, nel ridere, partendo dal principio che ogni epoca – il Rinascimento, il Barocco, l’Illuminismo – abbia un suo stile unitario (“Il caffè è la tipica bevanda del tardo Barocco”).
Friedell era, primo di tutto, un entertainer. Qualsiasi argomento è l’occasione per monologhi e battute, più o meno sue: si va da Leopardi che ‘rifiutò il mondo in versi di tale commovente bellezza da renderlo intensamente desiderabile’ al fatto che ‘Nietzsche soffrisse di megalomania: era convinto di essere Nietzsche’ o Emerson ‘apparso in un momento in cui l’America già correva il rischio di essere americanizzata’. Tutto estremamente soggettivo perché “se anche un mortale avesse la forza di scrivere una storia assolutamente obbiettiva e imparziale nessuno se ne accorgerebbe, perché nessun altro mortale avrebbe la forza di leggere un libro così mortalmente noioso”.
(chi volesse conoscerlo meglio si procuri ‘Piccole storie senza morale’ del suo amico Alfred Polgar, pubblicato da Adelphi, che contiene un commosso ritratto di Friedell, difatti è l’introduzione all’edizione americana della Storia, e un mucchio d’altre cose dolcemente divertenti e tanto, tanto viennesi, specie quelle dall’esilio)
Sì, ma la Morte Nera?
Se per Friedell quel che conta nella storia è sempre l’esperienza interiore dell’umanità, pensa anche che eventi esteriori possano avere la funzione di shock, seguiti da una neurosi traumatica che è l’incubatore del cambiamento. Per questo avanza l’ipotesi che l’origine dell’Uomo Moderno, l’uomo faustiano di Spengler e Schubart, sia il 1348, l’anno della Morte Nera.
Segue un lungo excursus sul valore della malattia, di come l’essere più sano sia l’ameba, di come il divenire sia sempre decadenza, di come gli organi acquistino valore quando stanno male e di come un organo malato abbia più vitalità, più capacità e più potenziale di sviluppo di uno sano, tanto che si potrebbe parlare di sopravvivenza del meno adatto e comunque si sa che il genio non è mai sano (e del resto non è mai malato) – direi che vi siete fatti un’idea.
Friedell descrive con gran gusto l’epidemia – e le altre catastrofi che segnarono il Trecento – e le sue conseguenze e di come queste mettessero fine al mondo medievale. Arriva a ipotizzare che “anche le malattie abbiano una loro storia e che ogni particolare era storica abbia le sue, che non c’erano prima e non ci saranno dopo”, adatte allo spirito dell’epoca come tutto il resto, dalla poesia alle guerre ai mobili. Del resto si sa, ‘è lo spirito che si costruisce un corpo: è sempre lo spirito la causa iniziale, per gli individui come per le masse’.

Friedell nota vari fenomeni concomitanti, dai Flagellanti alle persecuzioni degli Ebrei al generale ritorno alla religione più rigida e estrema (la stessa cosa che dice Meiss, solo più in grande), e vi vede la fine del mondo, il mondo medievale, “quel mondo così strano, così limitato e così luminoso, puro e depravato, elevato e incatenato, che crolla fra il fragore e la miseria negli abissi del tempo e dell’eternità, per non tornare mai più”.
Caratteristicamente, per Friedell il fattore decisivo è filosofico, cioè il Trecento, con la Morte Nera proprio al centro, vede la fine della disputa filosofica fra Realisti e Nominalisti con la vittoria dei secondi. I due nomi sono oggi ingannevoli: in quanto i Realisti erano in realtà gli idealisti, cioè quanti affermavano la realtà delle Idee platoniche, dette anche Universali, mentre i Nominalisti, la negavano, consideravano le Idee come pure concezioni umane mentre l’unica realtà – Dio permettendo – era quelle delle sensazioni individuali e discrete.
Per Friedell il Medioevo si basava sul principio che gli universali sono reali; i disastri del Trecento, Morte Nera in testa, rendono insostenibile la posizione e fanno vincere definitivamente, dopo il periodo di incubazione post-traumatico, il Nominalismo, cioè l’Uomo Moderno faustiano e razionalista la cui era – nel primo dopoguerra in cui Friedell scriveva – si avvicinava alla fine, una parentesi razionale fra le grandi ere dell’Irrazionalismo.
Ok, questo è quanto. Niente facili paralleli: il Covid-19 non è la Morte Nera e le conseguenze non le possiamo prevedere, dato che non sappiamo nemmeno come e quando finirà. Ma personalmente su una cosa ci scommetterei: cioè che ci saranno delle conseguenze, proprio a livello di immaginario (lasciando un attimo da parte le conseguenze sociali e economiche). Mi pare assurdo credere veramente che chiudere in casa gran parte dell’umanità per mesi, interrompendo improvvisamente abitudini tanto radicate da sembrarci perfettamente naturali, non abbia conseguenze psichiche mica da poco, non necessariamente negative. Uomini e società sono resilienti, ma fino a un certo punto. Insomma, non credo che torneremo veramente ‘come prima’.

Intanto ora conoscete due bei libri poco noti – uno abbastanza facile da trovare e l’altro meno – e sento di aver fatto il mio dovere.
Stefano Trucco