Questo è il momento di rileggere Tucidide, degli ateniesi che stanno perdendo la guerra, assediati, la potenza di Atene adesso schiacciata da una serie di errori strategici, quello che funzionò contro i Persiani non sta funzionando contro gli spartani o forse sì, potrebbe, Pericle e la flotta sono intatti, ancora. Ma un sistema ha camere e spazi di compensazione, linee di resistenza, alcune regole narratologiche quindi ineludibili come quella che le guerre combattute lontano, con navi e agenti provocatori, tendono poi ad arrivare sulla soglia di casa, inevitabilmente. Un’altra di queste regole è che una volta scatenato un male ne arrivano altri, che certi vanno placati a qualunque costo, peggiori, l’effetto cumulativo degli stressor si realizza ed ecco che gli alleati abbandonano il campo, svaniscono e arriva la peste. L’epidemia impazza, incendia la risposta immunitaria, sembra colpire soprattutto i first responder, i medici. Non è solo una malattia nuova, forse nelle condizioni di promiscuità e affollamento di Atene sotto assedio è una legione di malattie che colpisce la popolazione. Sono vivi gli stessi che hanno creato Atene Gloriosa ma adesso muoiono. Forse leggendo Tucidide, il grande medico Galeno di fronte a quella che sarà chiamata la peste antonina decide di abbandonare Roma, rifugiarsi in campagna. Apollo scaglia le sue frecce di miasma contro Atene devota ed è un demone che riempie le fosse comuni e le pire funerarie. Sembra che alla vista del fumo gli spartani decisero di ritirarsi, un limite si è rotto e anche un esercito vittorioso, erede di quello che affrontò divinità di fronte Troia, sa che quel fuoco non è il sacrificio di cui i superni si nutrono, sono demoni operativi ed erano lì prima che un’altra tradizione li nominasse in schiere. Non mettersi nella condizione di perdere l’umanità, superiore alla golden e alla silver rule, o si finisce assediati e poi a scavare fosse comuni negli stadi, mentre malati defedati si muovono ancora dentro i sacchi per cadaveri. Tucidide scrive, descrive il dettaglio, non si ritrae dall’orrore. Non lo fa per onorare i morti ma per testimoniare, avvisare. Scrive una lettera per il futuro.
Cosa suggerisce Ghosh nei suoi romanzi e in quel metaromanzo dell’Antropocene che è la Grande cecità: il cambiamento climatico e l’impensabile? Parla di orrore, scrive di reietti e re, personaggi animali e persone non umane, di occasioni perdute, del fantastico prima e dopo una catastrofe della storia, la dinamica della colonizzazione come azione semplificatoria e tragica dei futuri, quindi gli immaginari, possibili. In qualche modo questi mondi perduti, dimenticati, possono essere recuperati secondo l’antropologo Ghosh. Allo specchio: l’eliminazione dell’animalità dagli immaginari, la sterilizzazioni dei paesaggi reali e poi romanzati, la dissonanza cognitiva sugli eventi dell’Antropocene sono quei preamboli delle catastrofi correnti e, nell’accumulazione di C02 come di mali, future in cui il non pensato si trasforma in non pensabile.
Evoluti con alcuni bias e alcuni di questi alimentati, ipereccitati per diversi interessi, il senso di una letteratura dell’Antropocene è quello di una soluzione analogica al destino determinato dell’agire umano nel perimetro del pensabile, immaginando il futuro. “L’ossessione filosofica, tutta contemporanea, per il tema del mostruoso ci costringe a rinunciare a pensieri confezionati a «misura d’uomo»” scrive Timothy Morton in Iperoggetti. Non serve alla scrittrice o allo scrittore immettere nella narrazione un essere mostruoso, il fantastico, l’elemento divergente nel paesaggio, nello svolgimento di una vita letteraria è già qui, in azione. Turbato è il mondo sotto il cielo nel senso compiuto del perturbante nelle vite, nelle strade, in tutte le case. Oggi Pazuzu, demone dell’aria, non deve possedere il corpo di una bambina, è già presente, nel pianeta che si riscalda. Sono gli eventi non lineari, avvenuti, in corso e prossimi che riempiono di demoni l’aria e il sottosuolo in Cyclonopedia di Negarestani. La condizione umana, così speciale ed essenziale mentre il sistema pianeta ancora compensa e il plafond di sussistenza della civiltà sembra lontano dall’esaurirsi, perde, nell’Antropocene manifesto, la sua signoria. Ne Gli uccelli di Daphne du Maurier, esempio di “eerie” per Mark Fisher, c’è il senso di questo esaurimento. I personaggi si ritrovano assediati dagli uccelli, sono in un survival horror pre-romeriano, in attesa di soluzioni, di risposte, la BBC è la voce della civiltà che si spegne, pian piano. Schiacciati dal non pensato, ridotti a una condizione di sopravvivenza, sono ridotti a funzioni narrative andando avanti con la lettura, perdono la carica di “personaggi”. Sul palco dell’Età della Catastrofe chi è messo nella condizione di mera sopravvivenza, in un attacco a sorpresa fisico e insieme immaginifico, scompare: il protagonista è quel rumore, non udibile, sopra il gracchiare di corvi e gabbiani. Immaginiamo: entità non umane governano adesso il mondo. Dicono: non avete mai governato questo pianeta. Penso: c’è una finestra di opportunità e si chiama Olocene. Adesso è passato.

Molto tempo prima che arrivassero gli spagnoli, gli aztechi sapevano che sarebbero arrivati degli invasori dall’altra parte del mare. Sapevano che avrebbero avuto “bastoni di fuoco”, sapevano perfino quale forma avevano i loro elmi. E proprio perché sapevano queste cose non furono capaci di difendersi quando l’invasione effettivamente avvenne. La gente pensa che conoscere il futuro aiuti a prepararsi per ciò che accadrà, ma spesso non fa che renderti più vulnerabile».
Jacques Bergier, nel bellissimo Elogio del fantastico, adora la scrittura di Stanislav Lem e insieme mal sopporta la sua concezione del mondo. Niente, non il tempo, non la tecnologia riesce a mettere in comunicazione l’uomo con Solaris, un dialogo che si compone di armi nucleari, disperazione e simulacri. Non c’è una scala evolutiva per il Punto Omega di Teilhard de Chardin e se esiste è proprio un altro campionato, uno in cui l’umanità non può sapere, partecipare. Ecco che la lotta per la sopravvivenza mostrata da Cixin Liu ne Il Problema dei tre corpi ma che ritroviamo anche in altri suoi romanzi e un suo pessimismo storico sono un errore di prospettiva. Nella trilogia di Trisolaris l’umanità commette una serie di sbagli, dimentica le catastrofi del passato in pochi anni, sembra bloccata in un “ottimismo da scenario roseo”. Il survivor bias è un nemico dell’umanità quanto e forse più delle flotte di Trisolaris. Il senso di colpa di essere civiltà di cui la quinta colonna umana di Trisolaris, composta da intellettuali e scienziati, sembra invasata, “l’amore indistinto per l’umanità” che la fa odiare e disprezzare l’umanità è un agente ideologico tossico che, con mezzi e occasione, rappresenta il desiderio di estinzione neanche tanto latente in gruppi umani. La stessa Rivoluzione culturale, mostrata all’inizio del primo libro, è un esempio di autosabotaggio, anni persi per affrontare “la fine della fortuna” dell’umanità. Eppure il linguaggio dell’universo, di cui la “dark forest” non è che una piccola parte, è comprensibile all’uomo. La mente umana è capace di elaborare la sua uscita da uno stato di minorità cognitiva e niente di quello che è il complesso biofisico dell’universo le è precluso. C’è un orrore e altri ne seguono nel costruire una centrale nucleare a Mumbai e nel non aspettarsi un uragano mai visto in un mare arabico che si riscalda. Questo orrore comincia prima che davvero un forza 6 si abbatta sulla città, in un esercizio di scenario che è nello spettro del romanzo dell’Antropocene in cui da una parte ci sono possitopie, ambientate in questo mondo come in altri.

In How it Ends, film Netflix, un misterioso “evento sismico” ha colpito la costa occidentale degli Stati Uniti. Il mondo è cambiato ma per le strade di Chicago solo un po’ di traffico, la gente va al lavoro. Sembra che solo gli oggetti si siano accorti della catastrofe avvenuta a centinaia e centinaia di chilometri di distanza. Le luci d’emergenza, i pannelli informativi dell’aeroporto, gli ascensori bloccati, i bancomat. Un contadino polacco non si chiede o forse non gli importa di quel fumo continuo, giorno e notte, da quella ciminiera nel campo circondato dal filo spinato. Potrebbe essere in corso un massacro come un sacrificio umano di inedite dimensioni a divinità oscure. La primazia del fantastico, la famosa profezia ballardiana sulla letteratura di “genere” in questo mondo di iperoggetti, o demoni nell’aria, nei geni, nel sottosuolo, in attesa di nascere o emergere, un altro complesso di esseri/eventi, in questo post-Olocene, è allo stesso tempo sotterranea e strabordante. Il senso del religioso, di immagini e momenti a portata verticale, è fortissimo. Scienziati adorano Mord, alcuni si aspettano che qualcosa, forse dio, salvi il pianeta, rectius i suoi abitanti umani, dalla superiorità tecnologica di Trisolaris, un alito di vento che interrompa la caduta delle tessere del domino, l’ispirazione improvvisa per evitare lo scacco matto, il meteorite che devia dalla sua traiettoria d’impatto. In cerca di soluzioni, il fantastico nell’Antropocene deve rileggere lo spirito di Tucidide: l’orrore prima dell’orrore è nella perdita di tempo, occasioni, energie. Gli anni prima del collasso sembrano attimi.
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