Non sembra, ma dietro un paravento di calma apparente siamo entrati in una società di sopravvivenza. Il mondo letterario non fa eccezione, ma potrebbe, se ad esempio alzasse la soglia di attenzione sul “cosa” e sul “come”. Come leggere un autore, quali autori scegliere per farci da animali-guida in questa lotta invisibile. L’antropologia è certamente un buon come, ma è importante sapere che nel paniere ci sono molte correnti e molti approcci, centinaia sono i libri di storia della materia che aiutano a orientarsi in una mappa stratificata di filiazioni genetiche e di avventure epistemologiche, eppure ogni antropologo, in fondo a sé stesso, sa benissimo che alla fine di tutto le posizioni possibili sono soltanto due, e sono entrambe politiche: antropologia come disciplina (anche in senso foucaultiano) e antropologia come pratica di libertà. In genere la prima posizione spinge gli antropologi a conservare paradigmi e metodi allo scopo di perimetrare un terreno di azione e di influenza. La seconda è invece convinta che il metodo antropologico sia soprattutto uno strumento per intervenire nel mondo. È in questa seconda accezione che voglio parlare di antropologia in J.R.R. Tolkien.
Tolkien ha parole severe per gli «antropologi, vale a dire persone che attingono ai racconti non secondo la loro destinazione originale, bensì come a una miniera dalla quale ricavare prove o informazioni in merito ad argomenti ai quali sono interessati» (Sulle fiabe, p. 25). Un giudizio reiterato anche nella nota introduttiva a The Story of Kullervo. Sinceramente è difficile dargli torto, ma in questo duro giudizio leggiamo anche le coordinate antropologiche del secondo tipo, quelle che Tolkien sceglie per sé: non la ricerca selettiva come conferma di dogmi e paradigmi ma lo studio come strumento per risalire alla «destinazione originale» del fare racconti. Negli anni in cui scrive questa frase, è il 1939, l’antropologia inglese non era più l’evoluzionismo di Edward B. Taylor. Bronislaw Malinowski insegnava alla London School of Economics da almeno tre lustri e solo due anni prima, nel 1937, Alfred R. Radcliffe-Brown era diventato professore di Antropologia sociale a Oxford. Tolkien aveva tutti gli elementi per farsi un’idea complessa e aggiornata dell’antropologia del suo tempo e la cosa interessante è che la sua posizione sembra appunto criticare la “vecchia” antropologia evoluzionista. Ma quello che doveva urtare Tolkien per tutta la vita non era l’antropologia alla Frazer, quella de Il ramo d’oro per intenderci, ormai archiviata, ma l’approccio “stenografico” alla Joseph Campbell e alla Vladimir Propp.

Bisogna però evitare di immaginare Tolkien come un fervente seguace del “progressismo” struttural-funzionalista di Radcliffe-Brown. La sua visione complessa della cultura gli veniva invece da qualcosa di molto più tradizionale, la linguistica storica e la filologia comparata, e la critica è rivolta piuttosto all’aspetto stratigrafico che accomunava in qualche modo archeologia e antropologia evoluzionista. Scrive infatti sul problema delle origini della fiaba: «anche per quanto riguarda la lingua, mi sembra che la qualità essenziale e l’idoneità di un certo linguaggio in un momento vivente siano insieme più importanti da cogliere e assai più difficili da rendere esplicite che il suo lineare sviluppo storico» (Sulle fiabe, pp. 26-27). Detto altrimenti, Tolkien si allinea alla “nuova” antropologia attraverso un cammino indiretto che lo allontana da una concezione evoluzionista della cultura e lo porta a posizioni molto più simili a quelle di un Boas o di un Malinowski. Ma è la riflessione su concetti precipui della linguistica storica come «evoluzione indipendente», «derivazione», «diffusione» (ivi, p. 28), poi adottati e adattati dagli antropologi al proprio campo, che offre a Tolkien gli strumenti per una specie di upgrade antropologico.
Con uno shift un po’ brusco dalla storia delle idee alla pratica della scrittura, può essere interessante vedere allora in che modo l’antropologia, intesa come sguardo performativo sui fenomeni culturali e non come disciplina accademica, possa agire sottotraccia nel lavoro del “creatore di mondi”. Il giudizio di Tolkien sugli antropologi ha probabilmente lasciato un’impronta negli studi sul worldbuilding. Ad esempio Mark J.P. Wolf fa una lista delle «infrastrutture» della subcreazione ed elenca mappe, cronologie, genealogie, natura, cultura, linguaggio, mitologia, filosofia. Manca l’antropologia, ma da Always Coming Home di Ursula Le Guin, una complessa antropofiction futuribile pubblicata nel 1985, sappiamo che l’antropologia è invece un enzima potentissimo per fare worldbuilding. Quale antropologia emerge allora nei testi di Tolkien? Che cosa può insegnarci l’antropologia per fare subcreazione?
Lasciamo in sottofondo l’aspetto più visibile, quello della ben ovvia influenza (ed esplicita difesa ideologica) del background cristiano-occidentale nella costruzione della Terra di Mezzo. A parte le questioni teologiche, etniche e geopolitiche già da molti sottolineate, a parte la questione della mitopiesi e degli influssi germanici e finnici nell’invenzione di Arda, Tolkien costruisce popoli e costumi imbastendo un’antropofiction talmente iconica da generare una tradizione. In particolare, quello che è impossibile non notare è la caratterizzazione tipologica dei vari popoli, basata sul vecchio e ottocentesco concetto dell’indole: Hobbit sempliciotti e dalle limitate ambizioni, Nani tenaci e testardi, Elfi nobili e malinconici, Orchi brutali e crudeli, e via dicendo. Anche questo aspetto non sembra delineare un contributo irrinunciabile, soprattutto alla luce della banalizzazione operata dal genere fantasy che ha accolto e ripetuto il cliché fino allo svuotamento. Ma Tolkien derivava questo immaginario da un substrato meno banale e, forse proprio per questo, ancor più problematico: da un lato la rappresentazione medievale della scala gerarchica degli esseri, la Scala naturae, dall’altro l’antropologia razziale di età vittoriana, impregnata di darwinismo sociale e abitata dallo spettro dell’eugenetica.
Il modello gerarchico, ad esempio, sembra ritornare nella distinzione degli Uomini in Numenoreani, Rohirrim e Popoli selvaggi, che ricorda molto da vicino la tripartizione evoluzionista alla Morgan degli stadi culturali: stato selvaggio, barbarie e civiltà. La visione di Tolkien, in realtà, è più articolata, ma resta il fatto che da un punto di vista antropologico, con le “razze” della Terra di Mezzo, siamo in presenza di una vera e propria riduzione stereotipica dell’alterità, completamente realizzata dagli epigoni e abbastanza forte in Tolkien, tanto che, proprio per questo, è stato tacciato di razzismo o pregiudizio razziale. Non riaprirò qui la questione, anche perché basterebbe rileggersi la lettera di rifiuto a dichiararsi ariano per l’edizione tedesca de Lo hobbit, in cui afferma «la completa perniciosità e non-scientificità della dottrina della razza» (Lettera a Stanley Unwin, 25 luglio 1938, p. 44). Invece vorrei concentrarmi sul fatto che già rileggendo ne Il Signore degli Anelli il lungo Prologo sugli Hobbit o le Appendici, in particolare la D, la E e la F, si vede che l’autore sa toccare strati più complessi quanto a cultura materiale, etnobotanica, etnolinguistica e, più in generale, etnofiction. Il “potenziale antropologico” dell’opus tolkieniano è insomma abbastanza evidente, tanto che c’è chi ha considerato l’analisi del suo universo narrativo come un esercizio di fieldwork a tutti gli effetti, da esplorare come antropologo in una pubblicazione mirata oppure da proporre addirittura agli studenti, come il corso in Anthropology of Middle Earth del Western Nevada College o “Creative Connections” with J.R.R. Tolkien dei corsi di antropologia sociale di Leah McCurdy alla University of Texas.

Fin qui un’antropologia tolkieniana. Ma in che senso possiamo definirla “nuova”? Per questo, dobbiamo recuperare l’appunto iniziale di Tolkien in cui parlava di “destinazione originale” della fiaba. Il concetto è chiarito subito dopo: asseverando la critica contro l’antropologia e la mitologia comparata, scrive «l’ignoranza o la dimenticanza della natura di un racconto come alcunché di narrato nella sua interezza, ha spesso fatto approdare tali ricerche a singolari conclusioni» (Sulle fiabe, p. 25), e ancora «è proprio la tonalità, l’atmosfera, sono gli inclassificabili particolari singoli di un racconto, e soprattutto il significato generale, che informa e vivifica l’ossatura compatta della vicenda, a contare davvero» (ivi, p. 26), e infine «per quanto attiene alle fiabe, a mio giudizio è più interessante, e anche in un certo senso più arduo, considerare ciò che esse sono, ciò che sono divenute per noi e quali valori il lungo processo alchemico del tempo vi abbia fatto germinare» (ivi, p. 27). Qui Tolkien filologo e Tolkien autore si confondono, e potremmo limitarci a considerare che lo scrittore sta perorando la causa della singolarità di ogni esperienza narrativa. Invece la questione è più squisitamente antropologica, perché ciò che qui si contesta è proprio il metodo comparativo che serviva all’antropologo evoluzionista e al folklorista per desumere dei modelli universalizzanti. Come ho già osservato, tra le due guerre, a Oxford, la discussione antropologica aveva già ampiamente superato le posizioni di Taylor e Frazer. Ma la novità di Tolkien si può leggere in questa idea dinamica, e in definitiva politica, di un’antropologia di «valori» fatta «per noi».
Potrebbe sembrare un discorso ingenuo, ma è ritagliato nella stessa ingenuità a cui un antropologo come Tim Ingold ha affidato quello che può essere considerato uno tra i più innovativi manifesti delle scienze sociali: «Il tipo di antropologia che propongo qui ha uno scopo diverso. L’obiettivo non è quello di interpretare o spiegare le modalità degli altri; e nemmeno “collocarli” o relegarli nella categoria del “già compreso”. Si tratta piuttosto di condividere la ricerca in loro presenza, imparare dai loro esperimenti di vita, portando questa esperienza a sostegno della nostra immaginazione su come potrebbe essere la vita umana, sulle sue condizioni future e sulle sue potenzialità. L’antropologia, per me, si nutre di questo connubio tra immaginazione ed esperienza» (Antropologia, p. 16, corsivo mio). Nel flusso di un’interpretazione autentica della pratica antropologica, Tolkien dice qualcosa che somiglia a delle istruzioni per l’uso, a una guida mitopoietica del presente e del dopo che ci attende: fiaba, subcreazione, storytelling fantastico non sono cose da conoscere sulla carta, non sono il destino di un singolo autore, ma sono pratiche sociali, collettive, performative, che hanno il potere di aiutarci a reimmaginare la realtà: «Tutte le narrazioni si possono avverare; pure alla fine, redente, possono risultare non meno simili e insieme dissimili dalle forme da noi date loro, di quanto l’Uomo, finalmente redento, sarà simile e dissimile, insieme, all’uomo caduto a noi noto» (Sulle fiabe, p. 91).
M M
Riferimenti:
– W.J. Cynarski, Anthropology according to Tolkien’s mythology, in “Ido Movement for Culture”, XV (2015), pp. 17-26.
– C.C. Estep, Applying Anthropology to Fantasy. A Structural Analysis of “The Lord of the Rings”, Thesis submitted to the Department of Anthropology College of Arts, Social Sciences, and Humanities, The University of West Florida, 2014.
– D. Fimi, Tolkien, Race and Cultural History. From Fairies to Hobbits, Basingstoke, Palgrave Macmillan, 2008.
– T. Ingold, Antropologia. Ripensare il mondo, Milano, Meltemi, 2020.
– U. Le Guin, Always Coming Home. Author’s Expanded Edition, New York, The Library of America, 2019.
– V. Luling, An Anthropologist in Middle-earth, in “Mythlore: A Journal of J.R.R. Tolkien, C.S. Lewis, Charles Williams, and Mythopoeic Literature”, XXI (1996), pp. 53-57.
– J.R.R. Tolkien, Albero e foglia, Milano, Rusconi, 1982.
– J.R.R. Tolkien, La realtà in trasparenza. Lettere 1914-1973, Milano, Rusconi, 1990.
– J.R.R. Tolkien, Il Signore degli Anelli, Milano, Rusconi, 1993.
– M.J.P. Wolf, Building Imaginary World. The Teory and History of Subcreation, London, Routledge 2012.
L’ha ripubblicato su Downtobaker.
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