SUOLO ASSOLUTO

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Geologia della parola

[Introduzione a L. Gaspar, Sol absolu/Suolo assoluto, a cura di M. Meschiari, Bologna, In forma di parole, 2002]

Nel cuore della pietra dimora il disegno splendido che essa proclama e che, come le forme delle nubi, come il profilo mutevole delle fiamme e delle cascate non rappresenta nulla.

R. Caillois, Pierres.

Il Romanticismo, in forme non sempre evidenti, ha continuato a evolversi nel Novecento, e in certi casi ne ha influenzato il carattere. Se vogliamo banalizzare il discorso con due figure-simbolo delle origini, Coleridge e Wordsworth,  si può dire che la pista del primo ha vinto nei consensi, mentre quella del secondo ha viaggiato sotterranea fino a oggi, come in attesa di tempi adatti per essere riletta con spirito pronto: mentre le atmosfere scure del Cubla Kan continuano oggi in un gusto piuttosto scarico per il buio e l’irrazionale, le acque fresche di Prelude cominciano a riemergere da uno strato sabbioso, grazie al braccio sapiente di quelli che definirei i ‘poeti della terra’, tra tutti Seamus Heaney. Si tratta in ogni caso di un movimento largo, che non si affida alla voce di un singolo autore, e che coinvolge menti che di recente stanno cercando nel luogo, nel paesaggio, nella terra, un universo concreto per sondare un’altra idea dell’uomo e della poesia.

Lorand Gaspar, ad esempio, conosce molto bene il deserto. Quando l’aria dell’ospedale di Gerusalemme in cui lavorava diventava opprimente, decideva di staccare e di andare a incontrare la sua nudità:

Di tanto in tanto, per scappare dalla presenza troppo ossessiva dell’ospedale, partivo verso qualche deserto. Quello di Giudea cominciava dove il nostro giardino finiva […]. Era lui, con le sue arenarie, le sue marne, i suoi calcari, che conferiva allora come ora, come a Gerusalemme, un tocco carnale alla luce. Mi piaceva andarci anche in piena estate, a fine pomeriggio, quando la fornace intollerabile del giorno esalava le sue ultime fiamme, per osservare dal tetto di una casa in paglia e argilla battuta i lenti progressi del crepuscolo sui pendii dalle grandi pieghe arrotondate, che si allargavano alla base, delle «montagne al di là».[1]

In lunghi anni di esplorazione tattile e verbale, Gaspar è arrivato a reperire nelle arenarie e nei gessi di quei luoghi una specie di grammatica profonda, di cui la poesia è come un residuo siliceo di superficie: nelle pieghe geologiche o nelle sabbie generate dall’azione eolica è contenuto lo stesso respiro che serve alla parola per dischiudersi in canto. Il lavoro del poeta è in perfetta consonanza con quello della corrosione, che modifica e mette a nudo la materia senza stravolgerne la struttura e il senso. Gaspar, infatti, sembra prendere i luoghi alla lettera, essendo poco incline a rovesciare la metafora oltre se stessa: il deserto è sicuramente uno spazio immaginabile in cui il poeta può pensare a tre dimensioni il proprio essere, ma la pietra è pietra e il terreno resta terreno. Piuttosto, il legame diretto tra pietra e poesia – un legame che Gaspar suggerisce spesso – sta nel fatto che entrambe sono modi dell’assoluto, e che l’una e l’altra sono luoghi in cui l’assoluto può essere colto e praticato:

C’è una vena di energia che è lingua, che procede continua dalle dispersioni cosmiche e dai piegamenti geologici alle trame della vita, ai movimenti più ripidi dell’immaginazione e del canto. Quando la voce si scopre in essa, movimento inseparabile, è come se riconoscesse un volto, una modulazione, un rapporto fondamentale proposto dal mondo; come se la nostra lingua trasportasse tutte le nostre architetture di pietre e venti, come se d’improvviso si immergesse dal presente in età senza memoria, come se riconoscesse il suo agire sconosciuto. Si riconoscesse.[2]

L’idea è quella di una parola che dimora come energia nelle cose stesse, e che attraverso la sua persistenza da epoche senza tempo è in grado di riemergere sempre, attraverso l’immaginazione e la poesia. Il gesto del poeta diventa allora quello di un reperimento, un riconoscere che accade in un luogo, magari provando a leggere le pieghe delle stratificazioni geologiche. E questa energia che diventa lingua, o che lo è già in una qualche forma implicita, mentre dice qualcosa di metafisico getta anche luce sul rapporto che il poeta ha con la realtà: la sua parola non è denotativa o connotativa, ma è un processo per risalire direttamente all’ontofania delle cose:

Ciò che la mia parola cerca senza mai fermarsi, sempre insufficiente, inadeguata, senza fiato, non è la pertinenza di una dimostrazione, di una legge, ma il denudarsi di un lucore imprendibile, che trafigge, di una fluidità al tempo stesso benefica e rapinosa. Una respirazione.

[…] Questo cercatore inappagato, questo inadeguato perenne, questo spregiatore di impossibile è anzitutto un operaio della lingua, un operaio che dispera e ride. Risalendo alle fibre della tessitura, alle sorgenti della chimica, vuole anzitutto asciugare teneramente la condensa, condensa delle condense, e guardare attraverso questo varco maldestro la lenta migrazione del paesaggio.[3]

Il lavoro del poeta è dunque raggiungere attraverso la parola una visione asciutta e luminosa della realtà, dove i rapporti tra le cose sono ritagliati nel fondamentale, nel molteplice dinamico e sorgivo del mondo. Tutto sta nel cogliere la vibrazione intima tra parola e cosa, la risonanza rivelatrice, e anche se rimane sempre un qualcosa di non dicibile, per quanto il poeta realizzi più una tensione che un’azione, può comunque capitare di trovare ancora la parola giusta:

La poesia è in grado di trasmettere a volte (come i metalli buoni conduttori) un trasalimento della parola, comunicando ai nomi la sua fluidità, il suo potere corrosivo senza memoria. Così la parola, – l’immagine – da semplice elemento chimico che partecipa alla costituzione di un corpo composito (un sema), si trasforma in un enzima che può operare la sintesi o la lisi, la creazione inattesa di composti nuovi, che sollevano in ciò che li brucia fiamme diverse.[4]

L’immagine del lavoro chimico che trasforma la materia, accendendola di fuoco biologico o corrodendola, è piena di sfaccettature, ma è molto lontana dall’essere una metafora. Gaspar non cerca di arricchire la sua poesia mescolandola ai dati della scienza. Cerca invece di chiarire come nella chimica degli elementi accada qualcosa che è in perfetta risonanza con quanto accade in poesia. Si potrebbe parlare di metonimia, cioè di riduzione di distanza tra realtà linguistica e realtà materiale, cogliendo un’articolazione che le lega di fatto. O più che di metonimia si dovrebbe parlare di omologia, eliminando ogni fraintendimento retorico ed entrando senza filtri nel bagno dell’ontologia.

Però la poesia di Gaspar, lo si vede ad apertura di pagina, è anche una poesia topologica. Se l’assoluto è l’inespresso a cui tendere, il suolo sotto i piedi è lo spazio per l’azione che incarna questa ricerca. Lo spazio fisico e lo spazio concettuale circolano nella pagina per canali secchi e per valli che sboccano in ondulamenti di dune o nella quiete asettica di un lago salato. Ma la topografia che mette in rilievo il pensiero è solo un aspetto di ciò che orienta Gaspar verso la nuova attenzione per la terra, in linea con molta della più intelligente poesia contemporanea. Certamente l’amore postmoderno per la mappa, l’idea di un paesaggio da ‘leggere’, l’immaginario geologico e le variazioni sul tema dello spazio sono tracce evidenti di una riflessione consapevole e radicata nei tempi. Ma ciò che sembra evidente in Gaspar, e in maniera più immediata di quanto avviene nella poesia di un Kenneth White o di un Seamus Heaney, è la tendenza a elaborare, umilmente, un nuovo sentimento del sublime, un sublime all’altezza delle problematiche e delle acquisizioni concettuali della modernità. Attraverso un ripensamento della parola.

Sarebbe infatti impensabile per Gaspar, che è sempre in ascolto – anche nell’immobilità della pietra – di una sorgività permanente, non includere in quest’ottica larga la parola stessa, e cioè non considerare anche il linguaggio come un modo dell’assoluto. L’idea che esso scorra nelle cose da tempo immemorabile è chiave di lettura dei paesaggi. Pensarli come abitati dalla parola li rende già più leggibili. Ma leggerli significa cercare in essi la fonte luminosa della loro scaturigine. Così l’assoluto che Gaspar vede non ha né i connotati del divino né quelli del pensiero matematico-quantitativo. Piuttosto è tutt’uno con la genesi e il dispiegamento complesso degli elementi, un paesaggio di spazio e di tempo intrecciati, un cosmo a più livelli avvicinabile solo per complessità: complessità della forma, della macro-sintassi dei luoghi e del testo, e anche complessità e pluralità dei punti di vista, degli spazi – e dei tempi – da cui osservare i fenomeni.

 Il «pensiero del complesso», di cui si parla da qualche tempo, è la cifra che più di molte altre parole d’ordine transitorie e parziali caratterizza il ripensamento della modernità degli ultimi trent’anni, e quando non nasce direttamente da un’osmosi tra scienza e filosofia, può emergere in poesia ogni volta che il linguaggio va a esercitarsi su un suolo multiplo, ad esempio un paesaggio reale, magari quello delle coste atlantiche, o quello irlandese, o del deserto di Giudea.

 In tempi in cui l’infinito quantitativo in atto di Borges sembra affascinare ormai molto poco, e forse in un clima culturale in cui lo stesso concetto di infinito cerca nuove formule un po’ meno cartesiane e un po’ più immaginabili ed esperibili, la complessità del paesaggio (cioè della vecchia Natura romantica finalmente spazializzata e resa presente al tatto in ogni sua parte) sembra fornire un modello credibile e sufficientemente ‘alto’ per alimentare una nuova estetica del sublime. Quasi come una secolarizzazione dell’infinito dei Romantici, la ‘realtà complessa’ sondata nel secondo Novecento può stimolare quel piacere misto a sgomento che si avverte di fronte al possibile, al non visto, e che solo l’immaginazione poetica può cogliere e completare con un potente supplemento di vita. Ciò che muta in sostanza è che l’oggetto che ci emoziona non è distante da noi come può esserlo un algoritmo o un buco nero, o come un orizzonte silenzioso di là da una siepe. Il paesaggio, al contrario, è sempre qui e ora, e la sua essenza di legami, come avverte Merleau-Ponty, non va confusa con la sua visione: il sublime del paesaggio è la sua permanente percorribilità, la possibilità di frequentarlo in prima persona, di conoscerlo col corpo nei suoi intrecci temporali e dinamici.

La complessità del mondo fisico, quella suggerita oggi dalla geomorfologia, dall’ecologia del paesaggio, dalla matematica frattale, dalla neo-geografia di François Dagognet, riallaccia il pensiero alle cose, ristabilisce i termini per trovare una relazione convincente tra l’io e il mondo, tra complessità della mente e complessità della terra. Ma la differenza della nuova estetica ‘cosmografica’ rispetto a quella del Romanticismo è significativa almeno quanto il legame – forse genetico – che la stringe ad esso: il sentimento del sublime, che a partire da Kant sembrava additare alla ragione un ordine soprasensibile, oggi mostra piuttosto al poeta un mondo intrasensibile, esperibile dall’interno, e quindi abitabile e da abitare secondo formule ancora da scoprire. Qualcosa che ci riporta con attualità a Spinoza, e che con spirito presocratico ci libera dal costante rapporto dialettico con la scienza, la filosofia e la storia.

Ne è un esempio, credo, la convivenza in Gaspar di medicina e poesia, qualcosa di molto diverso dalla contaminazione tra scienza e poesia di un Queneau:

Mi si è spesso domandato come potessi conciliare poesia e chirurgia, due pratiche che sembrano così lontane l’una dall’altra, forse addirittura contraddittorie nell’immaginario quotidiano. In fondo non so bene cosa rispondere, non sentendole né complementari né opposte, ma derivate molto naturalmente da un lungo commercio tra i movimenti che partono dalla mia fonte minuscola e tutti quelli innumerevoli con i quali si scontrano, si alleano, o a volte si uniscono, dall’epoca in cui nella grotta uterina cominciavo a captare le prime sonorità della voce di mia madre, a sentire sul dorso i primi massaggi delle contrazioni uterine e, forse, le prime molecole – in soluzione – di un profumo materno.[5]

 Gaspar sembra non credere a una sintesi identitaria tra le discipline. Il suo ascolto dei luoghi desertici e della vita beduina lo spinge a praticare un ‘pensiero nomade’ piuttosto che a parlare di ‘nomadismo intellettuale’. Come dire che anche le intuizioni migliori possono scivolare nell’astratto, e che al contrario non bisogna mai dimenticare i «massaggi» tattili della realtà che ci circonda.

Come la luce, ad esempio, che torna in modo costante nella poesia di Gaspar, e che è un pensiero praticato direttamente nel deserto. Le lunghe camminate, il contatto con un paesaggio respingente, l’osservazione attenta delle forme geologiche sembrano aver offerto alla parola il terreno giusto per riconoscere se stessa in quelle cose. L’erosione, le alterazioni morfologiche dovute ad elementi invisibili, come il vento e l’acqua che scorreva nel deserto in epoche anteriori, sono l’immagine evidente di una realtà spaziale duplice, in cui volume pieno e vuoto, in cui materia e tempo si intrecciano in modo complesso. Il silenzio che le abita è denso come la pietra, e ogni gioco di variazione di luce è un lampeggiamento che permette di cogliere in essenza le dinamiche perdute che hanno portato quella pietra ad essere come è. Nella natura estrema del deserto, in cui tutto si polarizza, il pensiero si radica in questa polarità, ne accetta lo spazio, e si modella su di esso. Il volume pieno e il volume vuoto, raccolti nell’essenzialità della pietra, suggeriscono una visione dell’essere e del non-essere che è tangibile, presentificata, che improvvisamente rivela, grazie a questa radiografia ontologica esplicita, un dinamismo dell’immobile, del litico: la grana dell’arenaria è la grana stessa della luce, e il silenzio del deserto è ciò che suona nelle canne d’organo del basalto.

Quello che di fondamentale la poesia di Gaspar passa al lettore che cerca cose fondamentali, è un’ipotesi dello spazio – reale, mentale – senza compromessi culturali: lontano dai percorsi caricaturali della ‘società dei poeti’, Gaspar è uno di quei rari esploratori che hanno deciso di andare a vedere di persona. Le sue sono informazioni di prima mano, su cui si può riflettere come sui primi dati che tornano in contesto urbano da una spedizione geografica. Occorre studiarli con atteggiamento fresco, a maggior ragione se la ‘città a tutto tondo’ è l’Italia, dove Croce, liquidando Roger Caillois come «astrologo dell’estetica», ha saputo ritardare qui da noi l’ascolto di voci che vanno lontano, le voci di una poesia ‘delle pietre della terra’.

Perché Sol absolu esce la prima volta per Gallimard nel 1972, e leggendolo solo oggi in italiano ci si chiede cosa stavamo leggendo trent’anni fa. In ogni caso, di questo libro si ricordano per sempre due cose. Che la pietra è spazio, e che l’idea è in qualche modo già rappresa nella pietra. Tra pietra e pietra, poi, circola una luce rischiarante, o una notte piena di suoni, e il poeta, che era là a guardarle quando noi eravamo in casa, è riuscito a portare in superficie una realtà multipla, in cui mondo mentale e mondo dei fenomeni trovano proprio nel deserto un luogo dove coabitare.

Bio-bibliografia

Lorand Gaspar nasce nel 1925 in Transilvania orientale, a Marosvásárhely (oggi Tîrgu-Mures), da una famiglia ungherese. Nel 1943 è ammesso al Politecnico di Budapest, ma qualche mese più tardi è chiamato alle armi. Nel 1944, in seguito al fallimento del tentativo di pace separata, finisce in un campo di lavoro nazista in Svevia-Franconia, da cui evade però nel marzo 1945 per presentarsi a un’unità francese a Pfullendorf. In seguito raggiunge Parigi, dove studia medicina. Specializzatosi in chirurgia, accetta nel 1954 un incarico all’ospedale francese di Gerusalemme. Tra il 1955 e il 1970 lavora negli ospedali francesi di Gerusalemme e Betlemme. Compie viaggi nel deserto di Giudea, nei grandi deserti del Vicino Oriente e dell’Arabia, e sulle isole dell’Egeo, che diventano i luoghi privilegiati della sua riflessione poetica. Nel 1970, in seguito alle recrudescenze del conflitto arabo-israeliano, decide di lasciare Gerusalemme e ricoprire un posto di chirurgo all’ospedale Charles Nicolle di Tunisi. Attualmente vive tra Parigi e Sidi Bou Said, in Tunisia. Per la sua attività di poeta in lingua francese ha ricevuto tutti i premi francesi più prestigiosi.

Poesia: Le quatrième état de la matière, Flammarion, 1966; Gisements, Flammarion, 1968; Sol absolu, Gallimard, 1972, 1996; Corps corrosifs, Fata Morgana, 1978; Egée suivi de Judée, Gallimard, 1980; Sol absolu, Corps corrosifs et autres textes avec un essai d’autobiographie, Poésie/Gallimard, 1982; Patmos, Pierre-Alain Pingoud, 1989; La maison près de la mer, Pierre-Alain Pingoud, 1992; Egée. Judée suivi d’extraits de Feuilles d’observation et de La Maison près de la mer, Poésie/Gallimard, 1993; Amandiers, Pierre-Alain Pingoud, 1996; Patmos et autres poèmes, Gallimard, 2001.

Prosa: Approche de la parole, Gallimard, 1978; Journaux de voyage, Picquier-Le Calligraphe, 1985; Feuilles d’observation, Gallimard, 1986; Carnet de Patmos, Le temps qu’il fait, 1991; Apprentissage, Deyrolle, 1994; Arabie Heureuse, Deyrolle, 1997; Carnets de Jérusalem, Le temps qu’il fait, 1997; Georges Perros-Lorand Gaspar, Correspondance 1966-1978, La part commune, 2001.

SAGGI: Histoire de la Palestine, Maspero, 1968 (édition revue et augmentée, 1978).

TRADUZIONI: D.H. Lawrence (traduction en collaboration avec Sarah Clair): Sous l’’étoile du chien, édition bilingue, La Différence, 1989; Poèmes, édition bilingue, Poésie/Gallimard, 1996. János Pilinszky (traductions en collaboration avec Sarah Clair): Poèmes choisis, Gallimard, 1982; KZ-oratorio et autres pièces, Obsidiane, 1983; Trente poèmes, Editions de Vallongues, 1990; Même dans l’obscurité, La Différence, 1991; Conversations avec Sheryl Sutton, Editions de Vallongues, 1994; 3 autels et autres récits, Editions de Vallongues, 1998. Peter Riley (traductions en collaboration avec Sarah Clair; le poème Ospita est traduit par Claire Malroux): Noon province et autres poèmes, édition bilingue, Atelier la Feugraie, 1996. R. M. Rilke: Les Élégies de Duino, Requiem, Nouveaux poèmes, in Poésie, Le Seuil, 1972. Georges Séféris: Trois poèmes secrets (traduction en collaboration avec Yves Bonnefoy), Mercure de France, 1970; Journal 1945-1951, Mercure de France, 1973.


Note

[1] De temps en temps, pour échapper à la présence devenue trop obsédante de l’hôpital, je partais vers quelque désert. Celui de Judée commençait au bout de notre jardin […] C’était lui, par ses grès, ses marnes, ses calcaires, qui donnait et donne encore, comme à Jérusalem, son toucher charnel à la lumière. J’aimais y aller aussi en plein été, vers la fin de l’après-midi, quand la fournaise intolérable du jour rendait ses dernières flammes, observer, du toit plat d’une maison en pisé, les lents progrès du crépuscule sur les flancs aux grands plis ronds, s’élargissant vers la base, des «montagnes au-delà» (Introduction a Sol absolu, p. 16).

[2] Il y a une veine d’énergie qui est langue, qui chemine continue depuis les dispersions cosmiques et plissements géologiques aux tissages de la vie, aux mouvements les plus abrupts de l’imagination et du chant. Lorsque la voix s’y découvre, mouvement inséparable, c’est comme si elle reconnaissait un visage, une modulation, un rapport fondamental proposés par le monde; comme si notre langue charriait toutes nos architectures de pierres et de vents, soudain du présent plongeait aux âges sans mémoire, reconnaissait son acte inconnu. Se reconnaissait (Approche de la parole -estratti-, in Sol absolu, p. 30).

[3] Ce que cherche ma parole sans cesse interrompue, sans cesse insuffisante, inadéquate, hors d’haleine, n’est pas la pertinence d’une démonstration, d’une loi, mais la dénudation d’une lueur imprenable, transfixiante, d’une fluidité tour à tour bénéfique et ravageante. Une respiration.

[…] Ce chercheur inassouvi, cet éternel inadéquat, ce contempteur d’impossible est avant tout un ouvrier de la langue, un ouvrier qui désespère et qui rit. Allant aux fibres du tissage, aux sources de la chimie, il veut d’abord essuyer tendrement la buée, buée des buées, regarder par cette trouée maladroite la lente migration du paysage (Approche de la parole, pp. 26, 27).

[4] La poésie est capable de conduire parfois (à l’instar des métaux bons conducteurs) un tressaillement de la parole en communiquant aux mots sa fluidité, son pouvoir corrodant sans mémoire. Ainsi le mot – l’image –, de simple élément chimique qui participe à la constitution d’un corps composé (un sème), se transforme en un enzyme pouvant opérer la synthèse ou la lyse, la création inattendue de composés nouveaux, qui lèvent, en ce qui les brûle, des flammes différentes (Approche de la parole, pp. 27-28).

[5] Il m’a été souvent demandé comment je conciliais poésie et chirurgie, deux pratiques paraissant si éloignées l’une de l’autre, peut-être même contradictoires dans l’imaginaire quotidien. Au fond je ne sais jamais très bien quoi répondre, ne les sentant ni complémentaires ni opposées, mais découlant très naturellement d’un long commerce entre les mouvements qui partent de ma source minuscule et, tous ceux, innombrables, auxquels ils se heurtent, s’allient, ou s’unissent parfois, depuis l’époque où dans la grotte utérine je commençais à capter les premières sonorités de la voix de ma mère, à sentir les premiers massages du dos des contractions utérines, et, peut-être, les premières molécules – en solution – d’un parfum maternel (Vivre et écrire, in Apprentissage, pp. 47-48).

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