Il Ciclo del Nuovo Sole è l’opera più nota di Gene Wolfe ed è composto da quattro romanzi: L’ombra del Torturatore (The Shadow of the Torturer, 1980); The Claw of the Conciliator (L’artiglio del conciliatore, 1981) La spada del littore (The Sword of the Lictor, 1981) La Cittadella dell’Autarca (The Citadel of the Autarch, 1983). Successivamente è stato scritto un seguito che conclude “ulteriormente” la quadrilogia iniziale, Urth del nuovo sole (The Urth of the New Sun, 1987)
Il ciclo, riconosciuto dalla maggior parte dei critici a livello mondiale come eccezionale, ha incontrato anche un notevole favore di pubblico. Ma non è raro imbattersi anche in qualche detrattore: persone che ne considerano lo stile eccessivamente ampolloso e/o “troppo letterario”, persone che sono disturbate dalla commistione di elementi “fantasy” e “fantascientifici”. In realtà si tratta di un’opera molto particolare e davvero originale che difficilmente lascia indifferenti; è peraltro un unicum: non ha dato vita ad un genere, non ci sono romanzi che ne seguano le orme, anche se, a ben vedere, qualcosa si può ritrovare nella potenza dell’alienità del mondo di Perdido Street Station di China Mieville.
Per dare un’idea immediata di quello che si intende, si consideri un breve passo, quasi continuo, tratto dal primo capitolo del primo libro:
Severian. Sono un torturatore, o meglio, un apprendista torturatore, Signore. Faccio parte dell’Ordine dei Cercatori della Verità e della Penitenza. — Feci un respiro profondo. — Sono un vodalario. Uno delle migliaia di vodalari di cui non sai nulla. — Era un termine che avevo sentito pronunciare molto raramente.[1]
Fino qui, il lettore potrebbe pensare di essere davanti ad una “normale” storia di stampo fantasy, tipicamente permeata di topoi medioevaleggianti.
— Tieni. — Mi pose qualcosa nel palmo della mano: una piccola moneta, talmente levigata che pareva unta. Rimasi lì a stringerla, vicino alla tomba profanata, e lo guardai allontanarsi. La nebbia lo avvolse molto prima che raggiungesse il bordo della valle e dopo alcuni istanti un velivolo argenteo, aguzzo come un dardo, sibilò sopra di me.[2]
Subito, però, il lettore è spiazzato dall’immagine del velivolo argenteo: “come sarebbe, un velivolo argenteo? allora ci sono le astronavi! Allora è fantascienza!”. Procedendo:
Noi siamo convinti di inventare i simboli. In realtà sono i simboli a inventarci: noi uomini siamo le loro creature, forgiate dal loro filo tagliente. Quando i soldati proferiscono il loro giuramento, ricevono una moneta, un asimi sul quale è raffigurato il profilo dell’Autarca. Accettando quella moneta, essi accettano i doveri e gli oneri della vita militare… da quell’istante sono soldati, sebbene non sappiano ancora usare le armi. A quel tempo non lo sapevo, ma è un grave sbaglio credere che occorra conoscere certe cose per restarne influenzati; anzi, una simile convinzione sfocia nella più infima e superstiziosa magia. Solo l’aspirante stregone confida nella conoscenza pura; le persone dotate di ragione sanno che gli eventi agiscono da soli o non agiscono affatto. Quindi, mentre riponevo in tasca la moneta, non sapevo assolutamente nulla dei dogmi che caratterizzavano il movimento guidato da Vodalus, ma li appresi ben presto, perché erano nell’aria. Come lui, detestavo l’Autarchia, sebbene non avessi idea di cosa si potesse contrapporle. Come lui, odiavo gli esultanti che non riuscivano a ribellarsi contro l’Autarca e gli donavano le loro figlie più belle come concubine. Come lui, non tolleravo quegli uomini per la loro mancanza di disciplina e di uno scopo comune. Di tutti i valori che il Maestro Malrubius (il maestro degli apprendisti ai tempi della mia infanzia) aveva cercato di inculcarmi, e che il Maestro Palaemon si sforzava ancora di farmi accettare, ne approvavo uno soltanto: la fedeltà alla corporazione. E avevo ragione… Come avevo intuito, era completamente giusto servire Vodalus e continuare a essere un torturatore. E così iniziò il lungo viaggio che mi avrebbe condotto al trono.[3]
A questo punto il lettore capisce che ha di fronte un oggetto ben più strano, molto differente da quello in cui si imbatte quando legge qualcosa di etichettato come “fantasy” o “fantascienza”: la voce dolente, il tono riflessivo, la profondità di analisi che ritrova qui sono quelle di una narrativa che ha ambizioni maggiori. Perché non c’è solo una storia, non c’è solo un’ambientazione: ci sono personaggi davvero speciali, scene forti, pensieri acuti e originali; soprattutto c’è l’ingombrante voce del protagonista che è indimenticabile a distanza di anni.
Il protagonista è, grazie ad un classico espediente, anche il narratore. All’inizio del primo libro, nel primo capitolo, appena prima della prima scena, rivela la sua natura:
È una mia caratteristica — la mia gioia e la mia maledizione — quella di non dimenticare mai niente. Ogni tintinnio di una catena e ogni sibilo di vento, tutto ciò che vedo, ogni odore, ogni sapore, tutto resta impresso in maniera indelebile nella mia memoria e, sebbene sappia che non tutti gli uomini sono uguali a me, non riesco a immaginare che possa essere altrimenti. Quei pochi passi che facemmo lungo il sentiero bianco sono ancora freschi davanti ai miei occhi. Era freddo, sempre più freddo; noi eravamo senza lanterne e la nebbia si infittiva. Alcuni volatili si erano posati sui pini e sui cipressi e svolazzavano agitati da un albero all’altro. Rammento il contatto delle mie mani mentre cercavo di riscaldarmi le braccia, la lanterna che ondeggiava in lontananza fra le stele, la nebbia che faceva esalare dalla mia camicia l’odore del fiume e il puzzo acre della terra appena smossa. Quel giorno avevo rischiato di morire soffocato fra le radici intrecciate; quella notte sarei diventato un uomo.[4]
E si è conquistati, da subito, da questo tono accorato, struggente; consapevole e dolente, la voce di Severian porta avanti e indietro il lettore sul nastro temporale di questa lunghissima narrazione, accelerando e rallentando il ritmo a seconda delle esigenze del protagonista – che è però anche il narratore; così si segue, incantati, Severian per mano, ma si è di fatto condotti attraverso la finzione del suo ricordo nella narrazione di “autore” – autore che “sceglie” così di mostrare ora una cosa ora l’altra. E’ un sortilegio molto potente. Questa figura di narratore – protagonista – prodigio di memoria eidetica risulta produrre infatti un forte paradosso: nel momento in cui Severian racconta del suo dono/maledizione di ricordare ogni cosa, nel momento in cui ci si affida come lettori totalmente a lui, ci si rende anche conto che però in qualche modo non ci sarà un narratore “onnisciente”, “oggettivo”; Severian ricorda inevitabilmente ciò che lui vede, come lui lo vede, quando lui lo vede. E ci si trova quindi ad osservare il tutto attraverso un filtro estremamente personale, proprio mentre viene dichiarato che quanto viene raccontato sarà perfettamente preciso e aderente. Ma, attenzione, preciso e aderente a una realtà soggettiva, a una realtà che è ricordo, che è visione.
Già questa riflessione dovrebbe farci capire che si è di fronte a un oggetto “non comune”, nonostante ci siano elementi che suggeriscono che si tratti di un semplice romanzo “di avventura”.
La storia appare come un viaggio di crescita morale e spirituale: un romanzo di crescita, ma anche una quest; una storia di “salvezza del mondo”. Il Ciclo del Nuovo Sole è, di fatto – come accennato sopra – il diario di Severian – scritto dieci anni dopo che egli è diventato Autarca – ed è ambientato nel mondo di Urth – un mondo antico di milioni e milioni di anni, tecnologicamente esausto, illuminato da un sole – letteralmente – morente. Riconosciamo infiniti strati di storia attraverso reperti archeologici (oggetti abbandonati) provenienti da così lontano nel tempo, che spesso si è perduto anche il senso del loro scopo.
In un continente dunque lontanissimo nel futuro, il Commonwealth è impegnato da tempo in una lunga guerra contro Ascia, le cui armate continuano ad assalire il montuoso confine nord. Questi invasori, tuttavia, sono solo i servi di mostruose e potenti creature che hanno attraversato lo spazio per conquistare Urth. L’unica speranza per il Commonwealth è tenuta in vita dalla fede nell’Autarca e nella seconda venuta del leggendario Conciliatore (una figura cristologica che venne su Urth in epoche remote per profetizzare la venuta di un Nuovo Sole) – che farà sorgere un Nuovo Sole e ringiovanire e rifiorire la terra, ormai desolata.
Il racconto mostra Severian, apprendista torturatore, all’inizio del suo viaggio, esiliato dalla sua gilda per avere mostrato pietà verso una “cliente” di cui si è innamorato. Costretto dunque a lasciare l’antica e irregolare città di Nessus, inizia il suo viaggio verso Nord, verso Thrax, la città dalle stanze senza finestre, dove si troverà a fare il Littore dell’Arconte. Una volta arrivato a Thrax, egli rifiuterà di uccidere una moglie senza fede per conto dell’Arconte e dovrà di nuovo fuggire, a nord. Attraverserà campi di battaglia fino al continente più settentrionale, Ascia, dove incontrerà l’Autarca, capo del Commonwealth, che lo nominerà suo successore.
La Cittadella dell’Autarca si conclude con Severian che aspetta il giudizio sul mondo di Yesod, dove lo Hierogrammata valuterà il suo merito come epitome di Urth. Se egli avrà successo nel suo processo, Urth riceverà un Nuovo Sole, se fallirà sarà evirato e il suo mondo condannato alla dissoluzione entropica.
In realtà, se questa sopra descritta è la storia, il vero “plot” – cioè il pattern di eventi , situazioni e relazioni atti a catturare un particolare interesse nel lettore – si disvela quando ci si rende conto che tutto quello che accade a Severian e che sembra una teoria di incidenti arbitrari, è invece il prodotto di una potente narrazione sottesa che riguarda la lotta dello Ierogrammate contro l’entropia. La vera quest di questo ciclo è infatti l’indagine sulla natura della realtà stessa, su quello che si trovi al di là di tutti i sogni e le illusioni della vita. Vista in questo modo, la struttura “convenzionale” del viaggio come rito di passaggio, uno stilema così caratteristico della fantasy, è invece solo una delle “illusioni” dietro a cui l’autore nasconde il senso ultimo del romanzo.
E queste illusioni sono molteplici: dall’uso di termini latini e greci, come a evocare una decadenza degna dell’impero bizantino (optimates, castellanus, carnifex), alla creazione di intere nomenclature (si pensi ai composti Iéros, divino, come in Ierogrammate, Ierodulo, Ierofante) a suggerire una burocrazia millenaria, alla presenza tangibile di animali futuri o scomparsi, come a voler chiudere il tempo su se stesso (ci sono teorie per le quali, se sulla terra si verificassero nuovamente alcune passate condizioni, potrebbero tornare le passate creature).
La forza del romanzo sta quindi non solo nella storia, davvero appassionante o nella scrittura così ricca e particolare, quanto invece e soprattutto nella forza dell’evocazione di un mondo davvero diverso, davvero alieno; tanto più alieno perché intriso dei nostri simboli e della nostra storia: un po’ come un mostro che ci avesse fagocitato e ci guardasse ammiccando, un Frankenstein sorridente, di lontano.
Bio – Eroi e mondi moderni.
Gene Rodman Wolfe è uno scrittore americano, nato il 7 Maggio del 1931 a New York City. Passò l’infanzia a Peoria, Illinois, dove viveva vicino alla sua futura moglie, ma a sei anni la sua famiglia si trasferì a Houston, in Texas, dove Wolfe si diplomò. Partecipò alla guerra di Corea (1952-1954), ricevendo la Combat Infantry Medal, e al suo ritorno si laureò all’università di Houston in Ingegneria Meccanica.
Nel 1956 sposò Rosemary Dietsch, da cui ebbe quattro figli (1958, 1960, 1963 1966) e con cui restò tutta la vita, fino alla morte di lei, nel dicembre 2014.
Dopo la laurea, lavorò per sedici anni per la Procter & Gamble, a Cincinnati (Ohio, dal 1956-1972), presso la quale sviluppò la macchina che cuoce l’impasto usato per fare le famose patatine Pringles. Dopo avere lasciato la Procter & Gamble, ricoprì il ruolo di Senior Engineering Editor presso il “Plant Engineering” journal.
Dopo aver vissuto per molti anni a Barrington, Illinois, si trasferì a Peoria, Illinois nel 2013, dal momento che sua moglie, malata, desiderava tornare “a casa”.
Dal 1984 si è dedicato esclusivamente alla scrittura e nella sua carriera ha vinto moltissimi premi, legati alla letteratura di fantascienza e del fantastico. I più noti sono:
Il premio Nebula (La Morte del Dottor Isola, L’artiglio del Conciliatore), il Premio Locus per il miglior romanzo Fantasy (Il soldato nella nebbia, La Spada del Littore, L’artiglio del Conciliatore), il Premio Locus per il miglior romanzo breve (La morte del Dottor Isola, Golden City Far), il premio World Fantasy (L’ombra del Torturatore, L’artiglio del Conciliatore, La Spada del Littore, Il Soldato nella nebbia, Il soldato dell’Arete, The Wizard Knight, Soldier of Sidon).
di Denise Bresci, tratto da Guida alla letteratura fantastica, Odoya 2015. Ringraziamo l’editore.
[1] Capitolo I – L’ombra del torturatore
[2] Capitolo I – L’ombra del torturatore
[3] Capitolo I – L’ombra del torturatore
[4] Capitolo I – L’ombra del torturatore
L’ha ripubblicato su Downtobaker.
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