Rotea, rotea, rotea gli occhi sul pubblico, poco ma non pochissimo. Conta ventidue, venticinque forse…
– Dedica?
– Come? Non mi riconosci? Sono Andrea, Andrea Ippoliti! Ci siamo conosciuti l’anno scorso. Ricordi?
Rotea gli occhi per cercare nella catasta dell’anomia a più strati in continua crescita di gente incontrata alle presentazioni, occasionalmente punteggiata da qualche volto familiare, nella galassia di amici di amici di amici, questa faccia aguzza con lunghi baffi e capelli bianchi, l’alito che sa di vino rosso, questo piumino smanicato nero con una toppa degli AC/DC e i pantaloni militari.
Nulla. A lui ricorda solo un redneck, un generico veterano come si vedono nei film americani, questi individui all’apparenza miti, in realtà completamente disgregati da un insanabile e brutale demenza. No, sicuramente è solo un innocuo cagacazzo, pensa, ma non può fare a meno di notare il tremore. Trema. Impercettibilmente, ma sempre, come un gigantesco cellulare. Potrebbe perdere il controllo? Potrebbe diventare pericoloso se lui continua a dirgli che non ricorda? Come certi cagacazzo psicotici affetti dalla dispercezione per cui se io conosco te (ti ho visto in tv, alla radio, sul socializzatore, ho letto i tuoi libri) tu conosci per forza me.
Rotea gli occhi sul figuro che insiste (con lo sguardo, fissandolo) a reclamare una consuetudine di cui non ha conservato memoria. Gli sorride, senza riuscire a rintracciarlo. Gli fa venire in mente solo certe ghigne da ku-klux-klan viste in fotografia,e l’idea di trovarsi a tu per tu con una persona del genere lo agita; rotea gli occhi, per non incrociare i suoi, in quegli occhi spiritati, da Saturno di Goya. Sarà ipertiroidismo, morbo di Basedown, ma non può fare a meno di pensare a certi famigerati pazzoidi, come Charlie Manson, che pensava di ricevere comunicazioni dai Beatles, o il tizio che uccise Lennon, o Valerie Solanas, o Andrew Cunanan…
Fa un tentativo. Lo avrà incontrato nei dintorni. Prova il primo paese vicino a quello dove si trova adesso, un posto del cazzo, in procinto di essere evacuato, dov’era stato l’anno scorso:
— Castelvitro! Da… Marlene. Sbaglio?
— Ehm! Da Carolina… no, macché Marlene, Carolina: hanno chiuso…Dovevo venirci, però… — risponde ridacchiando, scuotendo le spalle, mentre si arrotola una sigaretta, con le mani tremolanti, sempre più confidenziale, varcando la soglia dei cinquanta centimetri di distanza minima dall’interlocutore previsti dalla prossemica europea — …forse mi confondi con il Prunelli. Lui è di Castelvitro e tutti dicono che ci somigliamo molto. Vecchio Biker anche lui! Eh! Eh! Gli Hell’s Poet! Ricordi?
— Ora, ora, ecco, ora: ci sarebbe da parlarne un’ora, ora… – Ora, ora ecco ora-ora, ora – cosa direbbe il mio editor – ma l’idea (strampalata? O è un vettore che indica una tappa evolutiva?) per la quale un personaggio pubblico (anche senza essere una rockstar, ma un tizio mediamente noto a un pubblico di nicchia come il sottoscritto) debba per forza ricordare e riconoscere a spron battuto, chiunque gli si palesi davanti, in virtù di un fugace contatto avvenuto mesi prima in un luogo in cui ho sostato solo poche ore, o peggio, per un senso di comunione dato dall’aver condiviso le mie emanazioni mediatiche, le mie produzioni letterarie, i miei borbottii radiofonici, i miei peti sul socializzatore, le mie rade apparizioni, rifiutando il dato oggettivo che questa condivisione non è e non può essere; che la fruizione del personaggio è per sua natura monodirezionale e mediata dal suo…dal suo… che il personaggio pubblico non si rivolge a “te”, veterano del KKK! Ma a tutti! E non c’è mai e poi mai vera consuetudine e quindi scambio, a meno di non supporre (come fanno i cagacazzo psicotici) l’esistenza di una forma di telepatia o altra modalità di comunicazione feromonica derivanti dall’appartenenza a qualche specie fortemente gregaria, sistemi non lineari auto organizzati, adattabili, come lo erano le api, dotate di un’intelligenza di sciame che segua pattern di funzionamento globale. Ma cioè? Scusa! Pensi, per il fatto di avermi ospitato nel tuo desolante mondo interiore, di godere della stessa posizione nel mio mondo interiore? Perché una volta ti sei presentato e io dovrei…
— Ah! — lunga pausa in cui è stato pensato quanto sopra in corsivo — Prunelli! … Jacopo?
— Giacomo…Jack Prunelli! Il mitico leader degli Hell’s Poet! Il Raduno Reading di Cerviano, quello memorabile di San Palma, e poi anche quello di…
— Ah, Ecco! — lo interrompe —Scusami … Andrea? Ippoliti…Sì Allora tu eri a Bulso, alla Libreria Calindri?
— Calistri! Non Calindri. E che è? Il Cynar? Ahahah! Ma sì, dai! Ero io. Ma lo fanno ancora il Cynar? E come fanno per i carciofi?
Lo sguardo del veterano si accende.
Spunta verde. L’ha sfangata. Ovviamente non ricorda lui, né questo Prunelli, di cui conserva vaga reminiscenza per via del cognome, che gli fa venire in mente il Prunello Ballor di Fantozzi e per una questione noiosissima sul Leopardi e le Harley Davidson, memore solo del fastidio per il tempo perso ad argomentare con questo biker poeta.
Lei, invece, defilata, frullare di ditini inanellati, un ciao sussurato, la conosce: é la sua ammiratrice più fedele in zona, ma l’ha incontrata un numero sufficiente di volte da poter spiccare nel consumato bassorilievo dalle mille faccine sovrapposte che si staglia sopra la reception del cervello. Una donna bassa e sovrappeso vestita di scuro, col linfatismo, come si chiama? Non ricorda il nome, la conosce, ma non ricorda il nome. Ha i soliti capelli biondi tagliati a… fischietto (come si dice?) e quel sorriso in punta di bile che affiora sulle labbra di chi, nonostante la cattiva sorte, è comunque amorevole verso gli altri, i più fortunati, che non devono deambulare con il bastone a tre zampe che scintilla d’acciaio al suo fianco, come una sciabola.
Rotea, rotea, rotea si sofferma su tutti e nessuno, tutto è passato. Il redneck si è smaterializzato in terza fila e con lui l’apprensione, che ha saputo gestire e per esserci riuscito si sente grato. Grato in senso generale. Non a sé stesso. È grato.
Dice che con le dediche si riprende dopo. Sta per arrivare il moderatore, il grandissimo Memo Guglia (non vuole apparire troppo “divetto” e farlo aspettare, mentre sta lì a firmare copie). Invita tutti a sedersi e si siede lui stesso. Rotea anche con la sedia, alza poco, poco la mano che tamburella la coscia, per un saluto discreto rivolto alla donna linfatica e all’altro palmipede che la segue, un maschio filiforme dalla testa oblunga e calva, l’incarnato cinerino e la maschera da sudate carte su cui furono tagliate a trincetto due fessure per gli occhi. Anche lui partecipò a quella rottura di coglioni di dibattito su Leopardi e le Harley? Non ha l’attitudine da poeta biker. Sembra più quel professore d’Italiano Operativo delle Scuole Intermedie Reintegrative di Cerriglio (o era Caranarola?) che lo invitò, un paio di anni prima, a parlare della Deimpollinazione del 2027 ai suoi studenti, ex fumatori di basi e fentalinisti, analfabeti funzionali, decorticati da Gerotoxine con Sindrome della Propriocezione Ridondante, resettati cronici etc. Roba da ripartire dalle tabelline, altro che scuole intermedie. Come si chiamava? Maestrelli? Maestrini? Macché… Giolitti? Santagata? Villanova? Vatusso? Pascoli? Cervantes?…
E mentre il suo cervello sciorina cognomi, giungono i giovani spelacchiati di Lettere Biodinamiche; in prima fila qualche tentativo di bagascia da circolo del libro, annunciata dall’iperestesia olfattiva della sua eau de toilette; ignote cariatidi scorrono a scatti sul fondo, come sagome trascinate sopra un carrello tirato da attrezzisti scoglionati, figure del teatro delle ombre cinesi che, alla ricerca d’un posto defilato, inciampano nei loro stessi piedi o in ostacoli immaginari; alcuni sembrano essere stati rianimati con il defribrillatore, ovvero appena ridestatisi da un colpo di taser.
Rotea le palle oculari su questa composita schiera di garbati aficionados che si accomodano lenti, indugiando in convenevoli, nella sala conferenze della biblioteca; quindici uomini sulla cassa del morto (gli viene in mente la canzoncina dei pirati che ascoltava da quel mangiadischi che aveva trovato al mercatino di Muschiano, ma saranno una trentina, ora, anche trentasette).
È stato invitato per il festival letterario “Emarginazioni Operose: Culture del Sommesso Sommerso” patrocinato dal comune di Bulso e fortemente voluto dall’assessora, la dottoressa Pillotti, medusa ottimista dalla voce squillante di topo, amante di poetry trekking e creatrice di un sistema di microeditoria locale definito “DIYourself-publishing”, un ibrido fra autoproduzione e vanity press, da collocarsi in quel Purgatorio, mantenuto in provvida nebulosità, fra indipendente e a pagamento, pubblico e privato, che si regge a un brulicare di tipografie fallimentari, tenute a loro volta in piedi dal medesimo pseudo mercato che riforniscono, reclutate per stampare volumetti dall’aria deliziosa ed invitante, l’equivalente cartaceo dei cupcakes di fimo.
Scorge, con un moto interiore di fastidio, farsi largo, quasi a spintoni, nel pubblico che prende posto educatamente, i Diamanti Morti. Casa editrice di autentici tangheri nichilisti, “dissennatori gelidi e reticenti con l’uccello grosso” come li definì Mary Potter, la cosplayer nota per esser stata con loro protagonista della controversa gangbang fantasy-riduzionista nella quale fu ucciso per futili motivi un piccione, dove la reticenza è cifra stilistica che si sono attribuiti, per distinguersi in tanto ciarlare, e l’uccello grosso conseguenza di innesti biomeccanici, camere di microespansione in silicone; fanno capo a quel testa de cazzo di Gaddo Panegalli, il Gapa, detestabile estinzionista (si estinguesse lui per primo) ex animalista, di quelli che spruzzavano con le bombolette rosse gli hamburger dei portinai cingalesi al Macdonald urlandogli contro “Assassini!”, ora fanatico promotore di una sua originalissima aberrazione per la quale gli animali non meritano amore perché partecipi, anzi complici, dell’Oscuro Inconscio Assassinio (l’acronimo OIA, che capeggia sulle loro felpine brune) da lui teorizzato in una serie di articoli apparsi sul “Catabasico” rivista avantgarde, un tempo ritrovo di ex darkettoni ed electro-sbobinati fissati con Artaud, fumatori di basi di Cronozepan, che sotto la sua direzione ha assunto un taglio rigoroso, marzial-monacale da cavalieri teutonici, assestandosi su posizioni neoisolazioniste in voga, come Monadismo ed Egotomia, Antibioma, Rizoma Inorganico, Environmental Shutdown etc…
Da alcuni anni, a tale proposito, organizza con i suoi sodali, le cosiddette “Battute di Morte”, nel corso delle quali, vagando per boscaglie, parchi urbani, aree di riselvatificazione e periferie disattivate, uccidono ogni animale in cui s’imbattono, anche animali d’affezione e specie protette, exploit venatori per cui è perseguito in numerosi tribunali della penisola, per lui grandi occasioni di visibilità, durante le quali inscena flashmob e altri ributtanti teatrini come la performance porno con la stordita cosplayer di cui sopra, interpretando il ruolo di martire e visionario. Ma si sparasse! Macché! Mica è Yukio sto pezzodemmerda.
Rotea, rotea, rotea, e mentre aspetta che tutti siano seduti, dà un occhio agli scaffali, che ospitano, in gran numero le produzioni “DIYSP” della Pillotti e, in una zona più centrale e di prestigio, i libri lasciati dagli autori intervenuti alle precedenti presentazioni. Testi perlopiù destinati a un salutare oblio, gran mattanza d’incolpevoli foreste, come “Benzocaine” di Allerand nella scandalosa traduzione di Riccardo Rastelli-Rullante (il Tre-erre che non pochi affermano porti sfiga); Vincenza Salgemma, con il suo appena passabile “Pittogrammi di Vita”; “Ricognizione sul Calvario” del Marchesi, una sbobba NeoCat, definita negli abstract come la Passione di Cristo vista da un Drone; “OIA Manifesto” del testa de cazzo di cui prima, “Mungi le tue Meningi” di (…e chi sarebbe questo idiota?) Alfeo Zavolati… mai sentito e che ci fa qui fra i “prestigiosi” magari ci si è messo da solo, il meschinello? “La Terra di Giugno” Premio Pantelleria 2012, miglior esordio narrativa, il geo-giallo di Guido Richter, il libro meno venduto della storia; “Vergini di Gore-tex” della sovrastimata Silvia V. Cernia (dove V non sta per vegan, ma per vergine, ultima moda di certi ambienti estinzionisti d’ispirazione cristiana, in opposizione ai NeoCat ortodossi).
Silvia è la cugina di Ottavia Cernia, direttrice editoriale di Verde Melograno, meglio nota come l’Ammazza-esordienti, mattatrice di giovanissime falene che bruciano rapidamente nella luce corrusca della gran dama. Ottavia segue una sua policy draconiana: pubblica solo donne. Era partita con il lodevole obiettivo di “pareggiare il conto” in un mondo editoriale ancora prevalentemente maschio.
Col tempo però la sua produzione ipertrofica, volta a garantire una presenza di spicco sugli scaffali (la “macchia viola” delle sue autrici) si è espansa come un’epidemia, attraverso una proposta incalzante di titoli sempre nuovi, incoerenti per stile e tematiche, roba per lo più illeggibile, al traino ormai spompo di una pariglia di ex-gettonatissimi cavalli da tiro, dignitosi ma superati saggi sullo xenomorfismo post-patriarcale. Per ottenere questo obiettivo, Ottavia sottopone le autrici a un ciclo sbrigativo e massacrante tipo lavaggio industriale. In rapida successione: editing fulmineo ma di merda, progettazione grafica approssimativa (basta che la costola resti viola e il font dei titoli il Gloucester), refusi a manetta (un correttore di bozze è stato ricoverato in una casa famiglia perché ha rasentato il Karoshi), carte e materiali scadenti e alla via così. In stampa! Uscito il libro, le autrici vengono in primis osannate da un team di critici prezzolati ormai arcinoto nell’ambiente, quindi sballottate in giro per i principali bookstore e indipendenti di prestigio della penisola, per un paio di mesi, da Bressanone a Santa Maria di Leuca, zero rimborsi, poi, sottoposte ad analisi vendite, proiezioni massimo a un anno, infine centrifuga e cancellazione (quando va male, e va quasi sempre male considerato il livello di sputtanamento della Verde Melograno).
Talvolta le poverette sono pure chiamate a co-finanziare, ma in linea di principio ci si limita a non pagarle grazie ad astuti accorgimenti, o più di frequente giocando sull’imbarazzo e la soggezione\ammirazione verso la diva Ottavia. Qualora si osasse avanzare richiesta di ottemperanza degli obblighi contrattuali, partono le denunce per stalking della stessa e non poche si sono ritrovate a dover risarcire il loro flop, incluse spese processuali. Disney, fosse vissuto oggi, avrebbe tratto grande ispirazione da Ottavia Cernia per disegnare Crudelia Demon: una mortesecca calzata in un tubino nero elasticizzato, sui cui scintilla un collier decò d’oro bianco appartenuto a Eva Braun e dovreste vedere come cammina! Un’empia effige staccatasi da un glifo egizio che pare muoversi solo di lato, geometricamente, per ghermirti; gli occhi smagati d’anaffettiva contornati dall’eye-liner che mirano sempre alla fronte e paiono intimare “Don’t mess with me.”
— Oh! Non ci posso credere — pensa, facendo inversione a U sullo scaffale – l’unico libro apprezzabile, anche se datato, di questo florilegio da macero: “Antagonismo & Decubito” di Carla Acerboni, esplorazione approfondita e sofferta dell’hikkikomori estremo, saggio antropologico e inchiesta sul gruppo di giovanissimi hacker-sabotatori minorenni autoreclusi, sbarbatelli con un QI in media di 160, che fecero esplodere la Seconda Bolla nel 2028, ma che, a causa del forzato e continuo star seduti davanti al computer, svilupparono forme di artrosi precoce, paralisi, piaghe sulla schiena, sui glutei, tromboflebiti ed infezioni batteriche profonde e incurabili, tanto da darne definizione patologica come “sindrome di Acerboni”. Al pari dei suoi protagonisti, questo libro d’inchiesta un po’ vecchio stile, monoproteico, sofferto, profondo ebbe sfortuna, perché venne surclassato per vendite e appeal antropologico da “Karma Letale”, uscitogli a ridosso, poche settimane dopo, in cartaceo, ebook e fbook, l’autobiografia tragica e sgargiante del trapper SubCane, al secolo Diego Forgione, casertano, legato ai clan, suicidatosi in carcere, idolo dei prepuberi, prima della grande ondata di Analfabetismo Inverso dell’ottobre 2032.
Mentre il suo sguardo finisce di sorvolare la mensola, accavalla le gambe, tenendo in grembo il taccuino beige di robaccia riciclata, scarabocchiato a penna blu sul retro e il suo ultimo libro, quello con la copertina in tessuto di cocco: la gamba che sta sopra l’altra dondola un piede nudo, giallognolo, un accenno di luridume a cingere la caviglia, calzato da un sandalo tecnico della Ninive, con suola in vibram. Pantaloni blu della Cyclops con tasche idrorepellenti e taschino esterno in rete elastica, finiture in neoprene; il giaccone, appeso alla spalliera della sedia a ciondolare una manica pesticciata con studiata sciatteria, forse peruviano, di quelli che pizzicano addosso anche attraverso strati su strati di camicie e maglioni e che lui stoicamente indossa sopra una sola maglietta, nera, con scritto “SAVE IT” slogan di qualche dimenticata campagna eco-anabattista, il cotone reso opaco dai frequenti lavaggi, seppur effettuati senza l’uso di detersivi e ammorbidenti industriali (per un po’ usò quella pallina che si rivelò essere una fregatura).
La sua pelle, alla luce alta della sala conferenze, luminaria abbacinante da Estasi e Assunzione in Cielo è, per le medesime ragioni, lucida, patinata, marrone cuoio, come le pseudocotenne delle porchette di seitan sui furgoni dei paninari lungo la provinciale. L’igiene è un residuato novecentesco, la materializzazione di ubbie e moralismi finalmente superati e come i vax in ambito sanitario, il suo strumento casalingo più diffuso, la doccia, è stato rimesso in discussione dalle nuove conquiste della Scienza Dolce. Col suo getto violento, combinato all’uso di saponi industriali contenenti parabeni e tensioattivi aggressivi, la doccia distrugge equilibri batterici delicati e fondamentali per la buona salute dell’epidermide; perciò si raccomanda di sottoporvisi, al solo fine di rimuovere la pelle morta e la polvere con scrub di esclusiva provenienza vegetale a base di farina di ceci o grano saraceno; un lavacro fugace, da svolgersi a cadenza bisettimanale, usando solo acqua fredda, depurata con un’apposito macchinario giapponese per l’osmosi inversa che la priva di ioni inidonei e latenze chimiche dannose, frizionandosi delicatamente con saponi artigianali che lo Scrivente lascia non di rado irrancidire nell’umido e nel buio del suo bagnetto poco frequentato e privo di illuminazione elettrica come quasi tutta la casa.
Sì, perché lui caga fuori, anche in pieno inverno, nella sua compost toilet autocostruita, dalla quale, una volta espletati i bisogni, esce per andare ad accoccolarsi sull’erba così da nettarsi l’ano, massaggiandolo senza andar troppo in profondità, per non irritare le mucose del colon, con una spugna artigianale di luffa, comprata all’Equosol Megastore di Rivizzano, che poi risciacqua sotto il rivolo d’acqua del rubinetto del suo “incolto”. Il “giardino” è un concetto vecchio come l’igiene, svilente della molteplice sinergia di piante, insetti e altre creature che trova spazio nelle pertinenze incostruite dell’umano abituro a cui è opportuno, visto come vanno le cose, lasciare spontaneo sfocio.
Abbonatevi a “Rewild & Ruins” e capirete di quel che si parla: forestal detachment, oceanismo antinautico…
Rotea gli occhi, ma non per guardare adesso: li rotea all’interno delle palpebre serrate, e ripassa sulla lavagna interiore quanto deve esporre, come insegnatogli dal suo maestro Ngô-Lành-Huong, il Mite Empatico, L’Autarchico Amichetto, il Pragmatico Melodioso, l’ideatore, vietnamita, della Dottrina Semplice del Ricollocamento Mentale Gestaltico Inoffensivo, grazie alla quale in molti hanno tratto beneficio recuperando capacità cognitive attenuatesi o perdute a causa dell’uso smodato dei socializzatori a ricaptazione (adesso fuorilegge) che costringevano l’accesso indiscriminato alle informazioni che portò all’Analfabetismo Inverso e ai Reset Permanenti da Disattivazione del Filtro di Broadbent.
La Lavagna Interiore attraverso l’approccio Gestaltico Inoffensivo e la Respirazione Sintagmatica, senza costringere la mente a sforzi soverchi, permette di ricostruire gradualmente la propria memoria, rendendola visibile sulle palpebre chiuse, sottoforma di Directory, inizialmente una semplice struttura ad albero con tre cartelle connesse (applicativi, dati, sistema) come compariva sui monitor dei calcolatori del secolo scorso, poi con la concentrazione e la sicurezza che via, via si acquisiscono, sempre più profonda e dettagliata in tutte le sue diramazioni, arrivando in alcuni casi anche a poter recuperare remote nozioni scolastiche, date, nomi di fatti e personaggi minori, o addirittura esperienze di poco successive alla nascita. I più audaci esploratori della Lavagna riescono così nel loro intimo a recuperare stralci importanti del sapere collettivo e possono diventare in tal caso Recovery Disk Viventi, andando così a supplire, nelle aree affette Amnesia di Massa, i crolli cognitivi di intere popolazioni, fornendo loro supporto in quasi tutto: dal ricordare i propri familiari, alle piccole mansioni quotidiane che non sono più in grado di compiere, come un prelievo ATM o una prenotazione su Outing.
Usando questa tecnica, ripercorre rapidamente il suo cammino di “Scrivente”: è lui stesso che ama definirsi così e vuole che così sia definito.
Laureatosi in Lettere Biodinamiche, conobbe precocemente la stima del mondo accademico fin dalla sua tesi, intitolata “Tassonomia delle Fragranze Cartacee dei Libri” per la cui redazione, analizzò e classificò tutti i tipi di odore della carta e le loro variazioni in base all’ambiente in cui venivano conservati: dal “muffato-fenico” delle librerie antiquarie all’”aldeidico-talcato” dei franchising; dalle note retrolfattive di cinnamono che la carta assume nel “legnoso” delle librerie indipendenti, al “pungente” delle bancarelle, fino al “fougère-ambrato” degli archivi di stato o il “floreale-incensato-fermentato” di certe biblioteche monastiche, mettendo in relazione le implicazioni chimiche relative alla percezione del lettore-consumatore alle ricadute economiche sul mercato editoriale e, considerato che chi scrive è per forza di cose anche forte lettore, tutte le influenze riguardanti la Letteratura tout-court e il posizionamento sul mercato delle produzioni letterarie.
Proseguì per alcuni anni la carriera accademica, pupillo e primo assistente di Carletto Fanti Balestra, il facinoroso ma indiscutibile deus-ex machina dell’ultima grande stagione letteraria italiana. Quella che tutti ricordano, sospirando.
Si produsse in altri lavori scientifici di minor impatto, poi la svolta: mise in fila Gary Snyder, Clément e Young Chop, proponendo (siamo nel 2025) quella che lui definì “un’erratica rivoluzione in chiave trap della Decrescita”, restituendo linfa a un movimento che stava conoscendo, dopo il fulgore dei primi duemila, una fase discendente. La decrescita coerentemente a sé stessa, discendeva, ma non per lo Scrivente che, con la sua ricetta di mite nomadismo radicale e trappuso antiproibizionismo, entusiasmò e convinse un’intera generazione di millennials accigliati pre-analfabeti.
“CasaStrada PianetaSpacca” fu fatto pervenire a Zachary Curvo in persona, il filosofo della Delocalizzazione Antropica, autore del best-sellers “Cogito Ergo Belva” per scrivere la fascetta della seconda edizione: in poche righe e per una discreta somma (anche se si dice che gli piacque per davvero), consacrò pubblicamente lo Scrivente, novello faro del Mov. Da lì in avanti, i suoi scritti, pur a fronte di un venduto in calo costante, furono sempre osannati dalla critica. Molti i diari di viaggio, esclusivamente cartaceo-riciclati, fra cui il memorabile “L’America a Zoppetto” sottotitolo “epopea saltellante di un samnyasin da New York a Los Angeles”, coast to coast ineguagliato, fatto su una gamba sola, misto d’ascesi, penitenza, gesto atletico. Come quel sadhu che teneva il braccio alzato da anni, ormai anchilosato pollone che puntava al cielo, inservibile a qualsivoglia fotosintesi. Ma guai a pensar male! A pensare che ci fosse esibizionismo o (orrore! orrore!) voglia di far colpo!
—…ci sono sempre, sempre, sempre, sempre altre e ben più alte ragioni. —
Obbietterebbe lo Scrivente, mettendo a favore di pubblico la gamba sinistra, rimasta più piccola a causa di quel semestre di forzato inutilizzo e, avvalendosi di una metafora esistenziale sui tennisti e il loro braccio da competizione sproporzionato, porrebbe l’accento sulle motivazioni ideali dello sportivo che si annulla e si esalta nel gesto atletico, rendendo il suo ego irreperibile (nella misura in cui lo pervade fino a traboccare, per riversarsi sul mondo) così come ogni “scrivente” fa nella letteratura, chiosando, commosso, con quella celebre citazione da David Foster Wallace, che tutti ricordiamo.
Adesso non si affanna più. È Consacrato: pennella, dà uno spunto. Non per essere sibillino, quanto per non darsi arie di “trombone”. Non sfoggia, tutt’al più centellina, con modestia e nella maggior parte dei casi, tace, dondolando la gambina.
I suoi muscoli facciali sono addestrati a piegare i lineamenti nella fige universalmente nota dell’umiltà, il sorriso a mezza bocca, a svelare mezza arcata di dentini eburnei, radi, che lui usa massaggiare con le setole vegetali di uno spazzolino di legno, il sorriso magistralmente eseguito sulla partitura di “La Smorfietta Spontanea e Adorabile di un Cinquenne che veda Meraviglia nel Mondo” dal quale lascia sorgere lo sguardo lucente di chi stia per erompere in pianto, trattenuto sottoforma di civilissima commozione dalla dignità superna che, per suo tramite, si rende manifesta al mondo, concedendo, alle sole sopracciglia, licenza d’arcuarsi verso il basso, francescanamente.
Se fosse una donna e si spendesse appena un poco di più nella cura della propria igiene intima, sarebbe assimilabile a quella vasta adunanza delle Suore Laiche. Quasi tutte le sue fidanzate, (ops, compagne) provenivano da codesta risma d’aggraziate demolitrici di testosterone. Tranne due.
Dopo il viaggio a zoppetto e dopo aver rimesso in moto i decrescitori, giunse l’idea che lo fece accogliere permanentemente nel Gotha della cultura letteraria nazionale.
“Ciclo di Narrativa” primo audiolibro incorporato a una mountain bike: sette percorsi scritti dal nostro e narrati da sette voci emergenti della scena clinico-teatrale e cinematoscopica italiana; sette storie da ascoltare pedalando e, pedalando, alimentare il lettore di file audio, creando un circuito chiuso virtuoso di attività fisica e culturale, con un tasso di ecofilia certificato del novantasei percento, surclassando persino i libri in dung paper. Costo complessivo della audio-bike, meno di duecento eurocoin.
La critica si mostrò perplessa all’inizio su “Ciclo di Narrativa” (qualche disallineato, cominciò persino ad usare il termine trovata per riferirsi a quest’opera – senza alcuna malizia – solo per sottolineare come l’ostentata ingegnosità, in altri contesti e con altri e decotti autori, possa suggerire un momento di stagnazione creativa, per cui si renda necessario appoggiarsi al marketing al fine di dare manforte al Nome da Rilanciare, cosa di cui – ci tenevano a specificarlo – lo Scrivente non aveva certo bisogno). Come i critici però iniziarono a pedalare sulla Audio-Bike, immediatamente si ricredettero e, anzi, riferirono di un’esperienza immersiva e onirica, che induceva uno stato di coscienza inedito; una comunione fra spirito e corpo; la narrazione che si compenetrava all’azione fisica, nutrendosi di sudore, di pulsazioni, fiati, una sorta di amplesso letterario… per di più assolutamente adattabile (sette storie e sette livelli di difficoltà, ma anche un piccolo GPS che permetteva alla storia site-specific di arrestarsi, rallentare o accelerare a seconda della pedalata, delle pause, del ritmo del lettore-uditore-ciclista).
L’inedito supporto di questa narrazione per la quale fu scomodato anche Chatwin, l’audiobike, era un prodotto assolutamente ecocompatibile: dall’alimentazione del dispositivo, ai materiali, al telaio in alluminio riciclabile ottenuto a sua volta dal riciclaggio di contenitori in alluminio a uso alimentare prodotti da aziende equosolidali che operano nel rispetto dei lavoratori, in paesi in via di sviluppo; a garanzia di tutta la trafila, un grande marchio del ciclismo italiano (che non possiamo citare in questo testo), una joint venture fra questo e la piccola ma titolatissima casa editrice (di cui non possiamo citare il nome, come sopra) che faceva capo ai Maratonisti… I commenti musicali che accompagnavano le letture, composti da Gioia Frizzuto, la più grande producer trap-core italiana, registrati agli studi Oznan di Milano, quelli di Carburo Barba, Manlio Fark, Gli Stami, Greco Diciotto e Le Squale…
Rotea, rotea, rotea… gli occhi sono uova sode e si agitano nel pentolino delle loro orbite, arrossati, per via del deodorante chimico che si promana dal diffusore a ultrasuoni, messo lì da quell’impiegato, un pollastro preso a secchiate di dopobarba sottomarca pino mugo e con quel pullover infeltrito verde sembra proprio un arbre magique; l’essere scrivente trattiene a fatica i singulti, ma gli lacrimano gli occhi. Le sue ammiratrici quindi pensano che sommessamente egli pianga; s’interrogano su quali sentimenti lo stiano attraversando adesso. La sua equilibrata opinione su (qualsiasi cosa) è nota; si sa, non perde occasione per sposare ogni giusta causa sui suoi Socializzatori, ma quello che adesso interessa al pubblico è “cosa” sente e “come” lo sente. Quale sferzata emotiva si è abbattuta, così, inattesa, sul suo cuore spazioso di asceta, poeta e atleta? Lui, così misurato e poco incline ad esporsi, così ricettivo e forte a un tempo, non riesce a trattenere le lacrime! Nessuno è di certo così sfacciato dal far notare che quello sgocciolio è causato dal diffusore. Perché incaricarsi per poi esser severamente ripresi (anche se questo arrecherebbe subitaneo ristoro all’amato autore)? E d’altro canto, lui, registrata questa fluttuazione empatica a pro suo, conclude che deluderli con un così meschino problema di allergie agli agenti chimici, potrebbe essere per il settantadue percento motivo di delusione e solo per un restante ventotto cagione d’ulteriore tenerezza. Ma come si diceva nel Secolo Morto, non stuzzichiamo il can che dorme: il pubblico è in assorta e raggiante comunione con il suo sobrio idolo e il silenzio, proprio in questo istante, comincia ad espandersi, cancellando ogni brusio residuo.
Silenzio assoluto, ora.
L’essere scrivente si schiarisce la voce, quando un tonfo, come di piede di robottone nipponico, risuona sulla pedana: è lui, lo smodatamente pingue, l’obeso e grave Enrico Folgheraiter, il moderatore designato dall’assessora.
—“Ma non era previsto Memo Guglia? Perché questo inguardabile ciccione la cui unica attività fisica consiste nel premere pulsanti per attivare gli innumeri ausilii di domotica, deambulazione e intrattenimento di cui si circonda?”
Enrico Folgheraiter, che fino ai centosessanta chili aveva camminato da sé pur con notevolissima pena, ma arrivato a duecentoventi chili si era visto costretto a ricorrere ad una sedia a rotelle bariatrica motorizzata, dalla quale strisciare come un tricheco, all’altre sedute stazionarie rinforzate, che per lui vengono allestite ovunque debba recarsi.
Enrico Folgheraiter, che sfregando l’interno cosce irritati e manovrando le ginocchia valghe, compresse dalla mole sovrastante, mette i piedi, uno avanti all’altro, pesanti basi di ombrellone che non si staccano mai che di pochi millimetri da terra, quasi scivolando come una petroliera che ormeggi, giunge al cospetto dello Scrivente guadagnando il suo scranno ammortizzato da pistoni a olio, la fronte fradicia e le guance scarlatte. Sprofonda e finalmente aspira a più riprese da una bombolina d’ossigeno che penzola al suo fianco e, rimossa la mascherina, accenna un mezzo sorriso anche lui.
Lo Scrivente ricambia, come si conviene fra persone colte e perbene. Gli dice — Oh! Enrico, carissimo…— dissimulando completamente la sorpresa e il dispiacere.
– Ma no! Non sarò io certo a farne una questione di body shaming…Povero Folghe. Il problema col Folghe non è l’obesità ma in cosa l’obesità lo ha trasformato. Guglia era più adatto, basta. Melania – l’assessora – me lo aveva assicurato…ma cazzo!”
Ancora lo scrivente non sa (la notizia verrà data nel tardo pomeriggio) che Guglia si è sfasciato, scalando una scogliera in Corsica, precipitando proprio accanto a una coppietta, con i loro telini da bagno. Un gavettone di organi disparati e, dettaglio straziante, si dice abbia avuto persino il tempo di un ultimo rantolo, rivolto alla ragazza. Qual è stata l’ultima parola del poeta scalatore? La ragazza, spergiura di aver capito “acqua” e come le creature angeliche che compaiono ai morenti, si è prontamente allungata verso la poltiglia ancora cosciente, porgendogli il suo thermos, per versare poche gocce in quella che le pareva essere una bocca. Per lei si prospettano, mesi di psicoterapia e dosi ragguardevoli di qualche buon preparato farmaceutico per ristabilire un ragionevole equilibrio psichico o le sue tollerabili parvenze, sicuramente una miscela ben calibrata di benzodiazepine e antidepressivi, per non risvegliarsi ogni notte con l’immagine di quella creatura esplosa, come ne “La Mosca” – se ve lo ricordate – la scimmia rivoltata come un calzino dalle telecapsule.
Questa per quanto esorbitante motivazione, non giustifica l’assenza di Guglia. Infischiandosene del nostro, ha preferito andare ad arrampicare e morire in Corsica, piuttosto che presentare il libro con la copertina di cocco.
— …E perché Melania non mi ha detto nulla!? Forse aveva paura che se mi avesse detto che c’era Enrico avrei dato forfait? Spero che questo ciccione, sgraziato nel corpo e nello spirito, non la butti in caciara come al solito. È un buffone che pensa, senza alcun giovamento per la sua carriera, né per la sua salute o crescita intellettuale, che tutto sia oggetto di scherno. Non è un ciccione simpatico, come da stereotipo, è un ciccione antipatico e tormentato, che si rifà delle sue beghe, sghignazzando di tutto con tutti, alle spalle e in faccia a chiunque.Tipica intervista con Enrico: le prime tre domande OK e uno pensa, si ricrede, dice, ma vedi che l’avevo giudicato male, poi non si scappa, la quarta domanda è una stronzata, un gioco di parole, come quella roba triste che disse su “Ciclo di Narrativa” giocando sul doppio senso fra ciclo e mestruazioni, e chiedendo se, una donna avrebbe potuto usare l’audio-bike nei suoi “giorni spontanei” (giuro! Li chiamò così! Che mi venga un accidente)… e quella sullo “sbolagnare” riferito all’uso del name dropping di fantasia usato nel racconto numero cinque?
Domande talmente sceme da sollevare una bruma di risatine isteriche e colpi di tosse. E dire che lo avevo invitato io. Mai più, mai poi. Ora eccolo di nuovo lì.
Rotea, rotea, rotea gli occhi, nel tempo e, non di rado, nel futuro, in quello che si presuppone essere un futuro, vaticinio desunto dal fosco miscelarsi di presente e passato.
Rotea, rotea, rotea per scansare la faccia rotonda e l’alito del Folghe, zuccheri che fermentano in un ascella, scintille micotiche, retrogusto muffato; gioca di scartino, senza dare nell’occhio, perché l’occhio rotea, e Folghe lo sa, e si stropiccia le mani gonfie; dalla sua copia penzolano foglietti strappati malamente — Oh mio dio! Ma cos’è quello? Un pezzo di carta igienica! — lo Scrivente comprende qual è la sede elettiva delle letture di Enrico e, forse, non è del tutto errato pensare che questi volumetti da palmo, siano pensati proprio per esser compulsati in associazione ai movimenti peristaltici. Troppo ampolloso? Per esser letti mentre si caga.
Chi lo ha detto poi che le cosidette “produzioni culturali” non siano più adatte a stimolare gli intestini che la mente? La copertina in cocco presenta chiazze sinistre, una strisciata marrone. Il suo libro ha accompagnato il Folghe nelle sue attività principi, mangiare e cagare. Non è stato consultato sulla panchina di un parco – che del resto non potrebbe sostenerlo – rimirando il laghetto con i cigni e l’isolotto con il tempietto in stile dorico dove il Barone Guccini, detto lo Zoppo, soleva appartarsi con le villane; non sotto il salice dove lo stesso si dica abbia composto “La Campagnatica”, o alla scrivania del suo lercio studio di trippone, avendo a portata di mano altri volumi da confrontare… Nessun studio, solo le impressioni bizzarre e astiose di un obeso che s’ingozza e va di corpo. Cosa può chiedere un tizio così ridotto a un asceta, poeta e atleta? A una persona frugale, che si nutre di rado e solo di erbe spontanee che raccoglie dal ciglio della strada; che si concede il raro lusso di un caprino erborinato o di un bicchiere di rosso nelle occasioni importanti; un ruminante parco e salcigno cosa può ispirare a questo invaso di colesterolo LDL semiparalizzato dalla iperuricemia, a questo scempio vivente plasmato da stravizi e dipendenza da merendine che, da anni, non mangia nulla che prima non sia stato contenuto in una busta di plastica? Chiede questo:
— Dopo la trovata della bici, forse qualche idea te la potevi far venire, ma (ti capisco, eh!) È fatica! Perciò, ecco un’altra bella trovata. Trovata e non…idea. Se vuoi cogliere la sfumatura. Sto sottolineando, se non si fosse capito. “Cocco di Mamma – L’Adolescenza Perduta” libro per ragazzi…ussignur! Anche i libri per ragazzi ti sei messo a scrivere, adesso? Con copertina di tessuto di cocco… un po’ un downgrade o sbaglio? No, dico, rispetto alla bici da duecento carte. Scusa, eh, se ti sembro aggressivo, ma è che me so rotto er cazzo ergo, non me ne frega più un cazzo. Sì, cazzo-cazzo chiama il tuo editor. Sempre quel coglione di Ginestra? “O fai come Ginestra o salti la finestra” Ma se lo sapessero quelli là, — indicando il pubblico — lo sapessero per davvero! Di tutti ‘sti magheggi. Ed è anche il tuo disciplinatore editoriale, quel despota manierista e ottuso? Ma sai che mi frega a me dei tuoi problemi e di chi ti cura le edizioni: mi hanno dato dai due ai tre mesi di vita, quindi se permetti, anche se affannosamente, vado di fretta e dritto al dunque, come nessuno, con te, ha mai fatto e ti chiedo. A cosa cazzo serve questa roba? Ai ragazzi? Non ci parli più ai ragazzi dai tempi di “CasaStrada PianetaSpacca” e la trap ormai è roba da Sanremo. Questi qua non solo non sanno più scrivere, non ascoltano più nulla, non leggono e hanno anche smesso di parlare. Conosci i dati sul Mutismo Selettivo? Stiamo al 35%… e te “parli” ai ragazzi che non parlano? Noi non sappiamo più nulla di loro, Berentz sostiene che sia in corso una rapida mutazione genetica, che quelli là siano un’altra specie… a chi scrivi allora? Al ragazzo che è in te? Molto romantico. Quel ragazzo è morto, come tutti i ragazzi, come tu ed io li conoscevamo, sono morti. Ora ci sono, al massimo questi sbarbati qua… — indica gli studenti di lettere bio, che dondolano come papaveri, senza reagire.
Lo Scrivente continua a roteare gli occhi e in questi movimenti orbitali, elabora, cerca una risposta che sia al tempo stesso garbata e tagliente, una risposta di classe a questo cafone. Si schiarisce la voce, tossisce, rotea la testa da cui pende grigia una coda di capelli raccolti con l’elastico, un dread unico, amalgama di forfora e pensieri che là sotto s’intrecciano, senza trovare più una via da tempo. Si gratta la testa. La risposta garbata e tagliente, la prima che gli è venuta, è una testata sul setto nasale, secca, poi, senza dargli tempo di reagire, prenderlo a calci in quella pancia badiale, accanirsi selvaggiamente su ogni singolo rotolo che colà si accatasta. Ma lo guarda, amorevole, e sorride. Espressione selezionata:
“il mio ironico e pungente interlocutore, apparentemente detrattore della mia opera, in realtà generatore di interesse e dibattito su un libro, questo mio ultimo, se possibile ancora più insulso e presuntuoso dei precedenti.”
— Manco un’idea. Una. Non le “trovate”, le idee. Non il marketing o le collaborazioni: manca il pilone, il muro portante; alcuni di voi — dice Enrico rivolgendosi al pubblico— ricorderanno Giovanni Servini che rimase paraplegico al Salone del Libro di Aversa per essersi appoggiato, con disinvoltura, alla finta parete dello stand di Tab Rasa. Per fare lo spigliatone con Silvia Cernia, che dimme te! La vergine de plastica! Cadde e si fratturò C4 e qualche altra cosetta indispensabile al moto degli arti inferiori. E così facciamo tutti e anche te, che però ci devi rompere il cazzo con la tua…la tua… ma come si chiama? Manco è più una simulazione d’impegno civile. Che cazzo è? A me sembra un tumore. Hai il tumore comportamentale? Soffri di conformismo compulsivo? Narcisismo metastatico? Le hanno ancora catalogate queste patologie? Perché se ti studiano, le hai tutte. Donati alla Scienza Dolce.
Lo scrivente visualizza adesso la root con sempre maggior difficoltà, pur roteando gli occhi con calma, senza lasciar trapelare il disagio crescente; la Lavagna si svuota, torna nera, scompare ogni appunto, ogni diagramma, la cimosa passa e s’impregna di polvere di gesso. Rotea gli occhi, senza rispondere: enigmatico e giocondo sorriso che il pubblico interpreta come “no comment” di classe alle sparate del Folgheraiter.
Pillotti interviene dal fondo, squittisce, una mezza ramanzina al moderatore che lei stessa, – vogliamo ricordarlo? – ha scelto.
Sguardo lama e sorriso molosso dello Scrivente all’assessora, uno sguardo che vuol dire: —“Embè? Tu ce lo hai messo! Dove cazzo è Guglia?”.
Guglia è morto, ma ancora non lo sa nessuno. Passeranno ore, i documenti verranno rintracciati più tardi, nella tenda del defunto al campeggio comunale di Ota-Porto; la notizia passerà poi a Bastia e da lì a Marsiglia, al consolato in Francia, alle autorità in Italia e da queste, l’incarico penosissimo di darne comunicazione alla moglie, incarico affidato a un carabiniere di ventun’anni, un bambolotto appena fuoriuscito dalla sua cameretta trasformato d’imperio in adulto armato, che, per non essere travolto dall’ansia, suonerà il campanello con il documento ufficiale sventolante nella mano che si scioglie come un gelato, per annunciare tutto d’un fiato ai familiari di Guglia quanto imparato a memoria nel tragitto dalla caserma alla loro abitazione:
—“Buonasera. Lei è la signora Guglia? Sono spiacente d’informarla che… che…che come comunicato-ci dai colleghi della Gendarmerie di Bastia, suo marito, il signor Memo Guglia fu Saverio è deceduto a seguito di rovinosa caduta da… da una goccia…roccia. Scusa. Condoglianze.” — senza rendersi conto che ad aprirgli è andata Teresa, la figlia dodicenne, ma già molto sviluppata, del poeta, che lui ha, per tale ragione scambiato per la moglie.
Teresa, senza scomporsi, chiama sua madre. Stava già tutto sul Socializzatore, da almeno due ore, dicono, e Teresa lo sapeva, senza aver sentito la necessità di parlarne con nessuno; la notizia era lì per tutti. Forse ha pensato che si trattasse di un’altra persona? Nel Socializzatore tutti sembrano un’altra persona, tutti sembrano già morti. Mentre la madre grida, Teresa è scossa da un brividino per quell’urlio sgraziato, come molti coetanei soffre di S.R.A.F (sindrome di ripulsa dalle alte frequenze). Le è preso freddo, perciò torna in cameretta e indossa la sua felpa OIA. Non lo piange.
Guglia aveva ringambato, come amava dire lui, da toscano d’adozione, affascinato da certe espressioni pittoresche, solo un paio di giorni prima; tanti motivi, tante scuse, il libro sulla Corsica, da finire (aveva ultimato la parte toscana del libro, quella sui carbonai, i boscaioli e le genti appenniniche, che dalla Lucchesia alla Montagna Pistoiese, emigravano sull’isola per lavorare a metà ottocento) ma nulla di irrimandabile, ecco. Ma le scuse possono essere montate una sull’altra, e tante piccole scuse messe insieme possono concorrere a diventare un motivo vero. La stagione fu la chiave di volta dell’arco di scuse impalcato da Guglia:
— Melania! È la stagione perfetta per scalare le scogliere del versante occidentale! Pochissimi turisti. Mi è arrivato anche il permesso per l’accesso alla riserva naturale della Scandola. Come faccio, Melania? Ti chiedo scusa! Capisco: guarda, sono imbarazzato, ma gli eventi sono precipitati nelle ultime ore — come dargli torto— non puoi sostituirmi con qualcun altro?
In cuor suo, il vero motivo poteva riassumersi in “presentatelo da te quel pagliaccio che hai chiamato solo perché devi far bella figura prima delle amministrative e tenere in piedi il tuo baraccone”.
Ma Guglia odiava davvero così tanto lo scrivente? Lo invidiava? O ne invidiava le immeritate fortune? Perché Guglia non lo ha voluto presentare? Perché Enrico Folgheraiter lo sta prendendo a calci nelle palle? Vogliamo aprire proprio in chiusura di questa lunga narrazione una parentesi penosa su autenticità e artificio? Vogliamo parlare di editoria drogata, di marketing pernicioso in una civiltà morente? Del povero Servini che scambia un telo elasticizzato tirato fra due tubi innocenti per una parete e da allora mangia con il cucchiaino? Di abbagli? Di chi ci è e chi ci fa? Di quanto ci siamo e ci facciamo? Fare mea culpa? Considerare queste nostre dispute meschine nello scenario di un tracollo globale?
Sarebbe una trattazione noiosa e inutile, che troverebbe momenti di grande fervore solo fra i giovanissimi studenti di lettere biodinamiche, non affetti da Mutismo Selettivo o Analfabetismo Inverso, gli stessi che ora assistono sconvolti all’aggressione frontale al loro idolo, al buzzone che sta dando della mignotta all’assessora e urla:
— Non me frega un cazzo a me!? Capito? Zoccola! Ruffiana! Buffone! Chi cazzo è lui? Il Guru? Ma che siamo in chiesa? Voi pensate di essere meglio dei legonisti e siete più scemi dei legonisti! Siete come i legonisti! Indioti! Paraculti! Bionzi!
Al che si alza fra il pubblico, il tizio allampanato, coi capelli lunghi e i baffi bianchi, vestito come un cavallaro, il Redneck, il poeta motociclista Andrea Ippoliti e si rivolge al Folghe:
— Falla finita sai, ciccione di merda! Vengo lì, ti spacco la faccia! Noi siamo venuti qui per sentire lui, non per sentire le tue stronzate di pazzo!
Il ciccione si rivolta, si alza in piedi e prova ad avanzare verso il veterano. L’assessora e altri accorrono, si frappongono, lo Scrivente si alza, retrocede, ricade sulla sua poltroncina. Vola una sedia, lanciata da qualcuno in sala. Colpisce Enrico che stramazza, rimbombando nella sala. Tutti sono in piedi, qualcuno scappa senza farsi notare. Nemmeno in quattro, riescono a rimetterlo in piedi. Ha perso i sensi. Lo Scrivente lo guarda, smarrito. Si alza e s’inginocchia accanto a lui. Tende le mani verso la facciona paonazza, lo accarezza.
Enrico si rinviene e spalanca gli occhi, piange. Lo guarda, senza odio, senza amore, senza preoccupazione. Il suo sguardo è solo interrogativo, impaurito. Non capisce, non capisce il perché dello scrivente, ma ancor prima il perché debba esistere uno scrivente, cosa lo abbia prodotto, cosa o chi produca tutti noi, a queste condizioni. Lo scrivente gli risponde a bassa voce, flautato, senza farsi sentire, facendo appello alle residue facoltà mentali rimastigli dalla cancellazione della Lavagna:
— È così Enrico …come dici: mi sono ridimensionato. Tutti noi. Anche tu. Tutti più…tutti meno…capisci?
Arrivano i paramedici, il capannello attorno a Enrico si è dissolve, alcuni restano in sala, l’assessora è fuori a fumare una sigaretta. Riceve ora una telefonata dalla moglie di Guglia. Oh! Se ci resterà di merda, appena la moglie le darà la notizia! Povera Melania che giornataccia.
Arrivano anche i carabinieri. Enrico sta male. Nessuno ha visto chi ha scagliato la sedia, le telecamere di sorveglianza erano state disattivate su precisa disposizione dello Scrivente.
Lui si è rimesso a sedere con le gambe incavallate, come se non fosse successo nulla, dondola la gamba piccola. Forse ha già dimenticato. Rotea gli occhi sugli scaffali, su questo pubblico indisciplinato che ancora non ha preso posto e sono già in ritardo di mezz’ora; attende Guglia, il grande poeta scalatore, anche lui in ritardo. Si concentra, rotea gli occhi chiusi nelle palpebre per visualizzare la Lavagna. I Socializzatori sono impazziti, dibattiti, filmato virale realizzato da i Diamanti Morti. La realtà li esclude. Lo Scrivente rotea gli occhi, in silenzio: movimenti armonici ma inconsulti, mutismo selettivo (non ancora conclamato) tipici della sindrome da Analfabetismo Inverso.
Andrea Betti