«Gesù,» disse «è sempre stata una questione di scrittura.»
«Cosa intendi?» chiese all’inchiostro. «Come funziona?»
Posso essere esso posso sarò inchiostro.
Billy Harrow e Grisamentum
Sin dagli albori della cultura occidentale tra le righe dei primi testi scritti appaiono le tracce di una particolare affinità elettiva, che accosta e lega tra loro l’atto dello scrivere e il corpo di chi quest’atto compie. Attraverso questa relazione si stabilisce una sorta di legame tra la scrittura e la vita stessa, ma invero questa vicinanza, per quanto stretta (o forse proprio perché stretta) si mostra in modi spesso molto dissimili tra loro, e, analogamente, si esibisce proprio passando attraverso ciò che si oppone direttamente alla vita, ovvero la sua fine, la morte.
La scrittura delle origini appariva già ai contemporanei come una sorta di gabbia, un modo per obbligare le idee e i pensieri nell’espressione ripetibile, una forma affine a ciò che Nietzsche chiamerà l’eterno ritorno dell’identico. Già in Platone, che è temporalmente vicino alla origine stessa della scrittura, il tema del rapporto tra questa e la cultura orale è centrale, e assolutamente non trascurabile. La posizione che ne emerge però non è univoca, e lascia spazio a molte interpretazioni. Il filosofo ateniese, a seconda della funzione, dello scopo che assegna allo strumento che in quel momento è oggetto della sua trattazione, a volte è più propenso verso la maggior centralità dell’oralità, come accade ad esempio nel Fedro e nella Settima Lettera, e questo perché agli occhi del greco il fonocentrismo (Ong, Oralità e Scrittura, 1986) rappresenta la mobilità e la duttilità che si richiede alla ricerca. Altrove invece emerge piuttosto il silenzio statico della scrittura, che difatti Platone ne La Repubblica vede come il modello del sapere proprio del suo progetto di società, e che nella sua concezione ha valore in quanto meccanismo di memorizzazione e trasmissione del sapere stesso, molto più consono a quel mondo delle idee che per lui in quel momento fungeva da schema per costruire una gnoseologia.
È evidente qui come il neonato alfabeto scritto stia affrontando la contraddizione insita nella sua stessa origine. L’ambito di studi qui accennato è evidentemente solo sfiorato nella sua complessità e vastità, ma è cruciale – e a questo ci si vuole riferire in questo contesto – che la critica abbia sviluppato una consapevolezza, anche se formale e subordinata, di quanto questo tema influenzi ogni altra ricerca, e delle conseguenze che ciò comporta in termini culturali. Gli studi di filologia greca hanno approfonditamente sviluppato questo tema, e a questo proposito esiste una bibliografia sterminata, non solo per quanto concerne il rapporto con la nascita della filosofia, dove Giorgio Colli, sviluppando il suo concetto di rappresentazione come proprio della cultura filosofica, lo collega con il mondo della parola scritta:
“La parola scritta anzitutto esprime la parola pronunziata, cioè la manifesta con segni, la rende visibile con mezzi sensibili, aumenta la sua notorietà e propriamente la mette fuori, la spreme […]. La seconda nota definitoria è quella del rappresentare […]. L’evanescente parola pronunciata si fissa in uno spettacolo, in cui un oggetto che ha trovato una sua immutabilità si fissa di fronte a un contemplatore. Colui che aveva pronunciato una parola, che era lui stesso allora congiunto a quella parola che proferiva, ora si è staccato da essa, ed è un semplice specchio. La parola è divenuta un oggetto contemplato.” (La Ragione Errabonda. Quaderni Postumi, Adelphi, 1982)
Anche gli studi sull’epica omerica hanno fornito un importante contributo (Finley, Il mondo di Odisseo, 1956), per giungere alla costituzione dell’idea stessa di una cultura orale (Havelock, Cultura orale e civiltà della scrittura, 1963). Lo studio del pensiero di Colli da un lato, che ci fa dono di un approccio profondamente e rigorosamente filosofico, e di quello di Havelock dall’altro, figlio invece di una riflessione di tipo storico, filologico e archeologico, certo non meno preziosa, se accostati e coltivati nella loro produttività distintiva creano l’orizzonte in cui lo studio del rapporto tra oralità e scrittura sorge nella Grecia Arcaica. L’oralità, proprio in quanto espressione di una globalità di azione, attinge alle più disparate forme della comunicazione non verbale (Leroi – Gourhan, Il gesto e la parola, 1964), e non richiedeva necessariamente che l’idea in oggetto fosse espressa in modo lineare, scritto e reiterabile. L’immediatezza ne è la cifra. Gli studi sull’origine della scrittura e sul rapporto che questa mantenne con la cultura orale ci insegnano molto anche sul rapporto che si instaura tra la scrittura e il corpo nel moderno. Nel corso del tempo sempre più frequentemente il corpo viene visto in quanto segno, come una icona, di cui ha assunto lo status, e di conseguenza aumentano i punti di contatto con la dimensione della scrittura. Il corpo in quanto marchio, simbolo o pattern assume la fissità iconica dell’immagine e della scrittura, in contrapposizione alla metamorfosi e al divenire proprio della cultura orale, al suo mutare ininterrotto. Questo processo però ha preso una china differente a partire dalla seconda metà del secolo scorso, quando nella science fiction, nei corpi semi organici chiamati cyborg, nelle forme mutanti, negli artisti che fanno del corpo il loro mezzo di espressione, si ripropone implicitamente il recupero del legame con la dimensione dell’oralità (Macrì, Il corpo postorganico, 1996). È un processo ambivalente: sin dalle nostre più lontane origini cerchiamo di cambiare il nostro corpo (o sogniamo di farlo), e nel far questo (o comunque a causa di questa nostra aspirazione) il corpo è sempre stato un luogo deputato alla comunicazione, ma questa può essere statica e simbolica, come i tatuaggi, oppure dinamica e metamorfica, come le espressioni e il movimento. La cultura orale è fondamento e genitrice del mondo dei miti e delle leggende, ovvero di un contesto sempre diverso da sé stesso, un mondo in cui tutto è in continuo divenire, mentre la nascita della scrittura è all’origine anche della Storia, ovvero di una forma di memoria condivisa, di un racconto della realtà ideologicamente immobile, in cui le simbologie rigorose dei segni incisi si clonano immutabili. Ne sono esempio le religioni, tra cui contiamo ben tre religioni del Libro, e dove il rimando tra la cosa e ciò (o colui) che la rappresenta è la base di ogni accadimento, e soprattutto questa stessa rappresentanza immutabile ha espressamente l’ambizione di riproporsi sempre identica nel tempo, insuperabile. La stessa dinamica si ritrova anche nell’araldica, dove la relazione simbolica è statica e il segno è leggibile così come un qualsiasi testo scritto. La scrittura si rivela quindi come proprietà di una casta, esercizio di pochi specialisti istruiti nelle tecniche di memorizzazione, dagli scribi ai monaci amanuensi fino ai tatuatori, indipendentemente perciò dal fatto che queste siano composte di parole o di immagini. Lo stesso si può dire quindi per quanto riguarda l’incisione sul corpo, che è sempre stata eseguita dai pochi che possedevano la tecnica. Scrivere il corpo, sul corpo, con il corpo, è espressione di una sacralità che lega a un livello profondo due elementi che nella pratica quotidiana e più superficiale non riscontrano particolari affinità. La pratica del tatuaggio, che l’homo sapiens esercita sin dalle origini, in certe popolazioni senza scrittura ha raggiunto una profondità e un dettaglio senza precedenti. Un esempio è quello dei Maori, e in generale delle popolazioni polinesiane, la cui lingua – originariamente solo parlata – fu traslitterata solo in epoca moderna dopo la colonizzazione inglese. La pratica del tatuaggio, nella loro cultura rappresenta una forma simbolica pittorica, ma che, nella sua immutabilità, incarna questo primo fondamentale principio della relazione corpo – scrittura, ovvero la fissità, la pietrificazione. Non è un caso che il segno tatuato indicasse in prima istanza la casta di appartenenza, ovvero l’immutabile posizionamento sociale. Questo legame non è proprio solo della semantica delle origini, ma anche nella letteratura moderna ne emergono tracce e segnali, seppur con differenti formulazioni. È in particolare nel fantastico che, seppur non in modo esclusivo, si possono provare a rintracciare degli elementi comuni, nel tentativo di tracciare una sorta di tassonomia del rapporto corpo – scrittura.
Jeff VanderMeer, nell’opera che lo ha reso famoso agli occhi dei lettori, ovvero la Trilogia dell’Area X (Einaudi, 2014), inserisce alcuni elementi architettonici e artificiali, che si pongono in evidente contrapposizione con la rigogliosa naturalità (e conseguente disumanità) dell’ambiente in cui sono inseriti. Si tratta del Faro e del suo pendant sia visuale che narrativo, ovvero la Torre, che contrariamente a ciò che afferma il suo nome stesso, è una sorta di galleria nel sottosuolo, e difatti i personaggi si distinguono tra chi usa un nome piuttosto che l’altro.
“Quella notte parlammo della torre, anche se le altre tre insistevano a chiamarla tunnel.”

Questi elementi attraversano l’intera trilogia, e ne rappresentano due chiavi interpretative profondamente diverse, si potrebbe dire quasi in opposizione, e proprio per questo complementari. Il Faro è sin dall’inizio la meta e l’obiettivo da raggiungere che il gruppo dei personaggi si è prefissato. Il Faro è una sorta di parafulmine della realtà, il luogo dove sono avvenuti e avvengono dei fatti, degli eventi precisi, il luogo dove ci si aspetta che avvenga ciò che porterà chiarezza nel mistero. Il Faro è una perfetta proiezione di immanenza. Inverso e simmetrico è invece la Torre, dove agisce lo Scriba. La Torre esiste solo sul piano della spiegazione, dell’interpretazione e della ricerca. È quanto di più lontano possibile dall’attualità, esistendo solo in una estensione del possibile. Nella Torre si trova la spiegazione di ciò che accade nel Faro, ma ciò che lo Scriba mostra non è un chiarimento, bensì qualcosa che aumenta la complessità e la inaccessibilità della spiegazione stessa.
“[…] Non so perché mi venne la parola torre, dal momento che scavava un tunnel nel terreno. Avrei potuto benissimo considerarla un bunker o un edificio sommerso. Eppure, appena vidi le scale, ricordai il faro sulla costa ed ebbi una visione improvvisa dei membri dell’ultima spedizione, che si allontanavano, l’uno dopo l’altro, mentre il terreno qualche tempo dopo si spostava, seguendo un percorso costante e prestabilito, lasciando il faro dov’era sempre stato, ma depositando la sua parte sotterranea lontano dalla costa.”
VanderMeer per mostrare ciò utilizza un escamotage tutt’altro che secondario, e che, proprio in quanto meccanismo e artifizio retorico, si incarna in pieno nella sua funzione. Le pareti della Torre si rivelano coperte di una scrittura biologica, una sorta di racconto vivo e scritto con materia organica. La lettura, la comprensione e l’interpretazione del testo e della sua origine sono una chiave per accedere al mistero dell’Area X.
“Sulla parete interna della torre, ad altezza delle spalle, grosso modo un metro e mezzo, vidi quelli che all’inizio scambiai per dei rampicanti verdi che brillavano fiochi scendendo nell’oscurità. A un tratto ebbi il ricordo assurdo della carta da parati a fiori che rivestiva il bagno di casa mia ai tempi in cui ci vivevo con mio marito. Poi, mentre li guardavo, i «rampicanti» si fecero più nitidi, e vidi che erano parole, in corsivo, le lettere sospese a circa quindici centimetri dalla parete. […] Mentre mi avvicinavo, mi stupii di conoscere la lingua in cui erano scritte quelle parole? Sì. Fui colta da un misto di terrore ed esultanza? Sì. Cercai di reprimere le migliaia di nuovi interrogativi che sorgevano in me. Con voce più calma possibile, conscia del momento importante, lessi dal principio, ad alta voce:
– Dove giace il frutto soffocante che giunse dalla mano del peccatore io partorirò i semi dei morti per dividerli con i vermi che…
Poi fu tutto inghiottito dalle tenebre.
[…] E così mi avvicinai, scrutai Dove giace il frutto soffocante. Vidi che le lettere, collegate dalla grafia in corsivo, erano fatte di quello che agli occhi di un profano poteva sembrare muschio felciforme verde intenso ma che in realtà era un fungo o un altro organismo eucariote. I filamenti arricciati si assiepavano sporgendo dalla parete. Le parole mandavano un odore argilloso con un lieve sottofondo di miele marcio. Quella foresta in miniatura fluttuava, quasi impercettibilmente, come le alghe nella dolce corrente di un oceano.
Altre cose popolavano l’ecosistema in miniatura: seminascoste dai filamenti verdi, creature in gran parte trasparenti e a forma di minuscole mani infisse per i polsi. Le «dita» terminavano con dei noduli dorati. Mi sporsi più vicino, come una stupida, come una che non aveva alle spalle un corso di sopravvivenza durato mesi, né mai studiato biologia. Una indotta a credere che quelle parole andassero lette.”
Senza entrare nel merito della complessa e lunga narrazione vorrei che ci si soffermasse sulla retorica: l’autore sta scrivendo un testo in cui narra di qualcuno (qualcosa) che usa la sua stessa vita (il suo stesso corpo, la sua materia vivente) per raccontare una storia. È evidente il senso di immedesimazione che VanderMeer inserisce in quello che è il nodo centrale di un romanzo che si rivela in ogni senso determinante per il suo stesso essere scrittore. Sulle pareti della Torre, come fossero pitture rupestri, si dipana una storia antica, senza tempo, la storia stessa dell’uomo, dell’uomo che racconta, e che si mostra come uomo proprio per il suo essere colui che racconta. Quella che si intraprende in quel momento, ci dice VanderMeer, è una via senza ritorno. Una volta che il mistero si è presentato, che la nostra umanità stessa si è mostrata di fronte al racconto di sé, non si può fare altro che seguire la via, e accettare ciò che comporta. Qui appare evidente come la scrittura di sé sia in realtà qualcosa di molto diverso da un mero processo di astrazione. Soprattutto qualcosa di ben più concreto del rispecchiarsi narcisistico dello scrittore nella sua alienazione inchiostrata. La scrittura di sé, il rapporto tra linguaggio e corpo, tra segno e materia, è una relazione carnale, una liaison dangereuses, molto spesso dolorosa e a volte perfino mortale.
La Torre dell’Area X di VanderMeer è in un certo senso anche affine all’idea di libreria infinita, di borgesiana memoria, ed è in un certo qual modo l’archetipo della biblioteca, un luogo dove i libri sono in ogni direzione (come ad esempio qui). Qualcosa di analogo appare in un libro di Miéville, Il libro magico (Fanucci, 2007), dove la giovane protagonista a un certo punto da letteralmente la scalata a una libreria alta chilometri ed estesa in ogni direzione a perdita d’occhio.
“La libreria che lei stava scalando saliva come una scogliera, dritta a strapiombo, e ai lati si stendeva fin dove l’occhio poteva guardare. […] poteva vedere solo la libreria, che si stendeva all’infinito. […] forse continuerò ad arrampicarmi per tutta la vita, pensò quasi sognando. Mi chiedo quanto sia alta questa scaffascogliera.”
Questa, nella sua parte conclusiva si rivela una sorta di ciminiera, una torre letteralmente tappezzata di libri in ogni sua parte, ed è chiamata La Fossa di Granparole. Qui bibliotecari alpinisti, addetti alla manutenzione e assicurati alle loro imbragature, vanno alla ricerca dei volumi più rari e dimenticati, per poterli riportare alla notorietà.
“Era a cavalcioni sull’orlo di una immensa torre. Un cilindro di almeno trenta metri di diametro, cavo al centro e con le pareti interne piene di libri. […] un anello fatto di librerie come quella che lei aveva appena scalato. Quel tunnel verticale di libri era buio […] sembrava non avere fondo. Non era una torre: era la punta di un condotto di libri che scendeva fin nelle profondità della terra”.
Le parole di VanderMeer e quelle di Miéville sembrano scritte dalla stessa penna, e sicuramente sono figlie di una ispirazione comune. In questo caso non si ha una relazione diretta corpo – scrittura, ma evidentemente il tema (che non è tanto quello del Libro, ma soprattutto quello della Scrittura, l’atto e la materia dello scrivere) per entrambi è cruciale, e lo ritroviamo difatti anche in un altro suo romanzo, La fine di tutte le cose (Fanucci, 2019), dove lo scrittore porta la speculazione a un punto ancor più radicale. In questo racconto vi sono ben due personaggi – e non è casuale che siano due villains – la cui essenza vitale, la loro psiche, il loro essere stesso, viene condensato in inchiostro, la materia prima che possiede il significato della scrittura, in contrapposizione alla matrice (la carta, la pergamena). L’inchiostro-forma è un elemento che compenetra l’intero romanzo. Tra i suoi personaggi appare un Architeuthis, ovvero un calamaro gigante (il titolo originale del romanzo è Kraken), e il liquido nero che produce è utilizzato anche come droga psichedelica. Nel caso del primo personaggio l’inchiostro vivente viene tatuato sulla schiena di un ignaro soggetto, dando così origine a Il Tatuaggio, nel secondo invece l’uomo che era stato non si allontana dallo stato liquido, continuando ad aumentare il suo sapere (e il suo potere) attraverso la spremitura di altri libri, da cui trae l’inchiostro che assimila al suo. Il Tatuaggio è stato punito, e condensato per rappresaglia, mentre Grisamentum (questo il nome della seconda malvagia entità) è costretto a trasformarsi per evitare di morire. Entrambe le figure sono malvagie e crudeli, e ambedue vivono la loro nuova condizione come un’arma, piuttosto che come opportunità, vittime del rancore e della vendetta, oltre che della bramosia del potere.

“Era stato Grisamentum a sovrintendere al tatuaggio. E là nella stanza sul retro, imprigionato e privato dell’essenza con il passare delle ore, c’era stato l’uomo che era diventato il Tatuaggio. Che colpo di mano arcano. Non un omicidio… la crudeltà di quegli uomini era troppo barocca per questo… ma una messa al bando, un imprigionamento. Forse l’inchiostro era stato colorato con il sangue. Di certo una qualche essenza, chiamiamola anima, era stata prosciugata dall’uomo, lasciandosi alle spalle un guscio vuoto di forma umana.”
“Grisamentum era bruciato vivo, in quella variante di fuoco della memoria alterata temporalmente e fisicamente, quella miscela bastarda di talenti: quelli del piromante e di Byrne, con le sue intuizioni da tanatologa. Però non era morto del tutto. Non era mai morto, ed era questo il punto.
Ore più tardi, dopo che i dolenti se ne erano andati, il suo corpo era stato raccolto. Era cenere, ma non era mai morto del tutto. Era al sicuro dalla malattia… non aveva vene che potesse avvelenare, organi che potesse rovinare. Byrne […] doveva aver preso i suoi resti, color carbone nella loro urna, e aver ridotto in polvere ogni frammento residuo di osso, per poi mescolare il tutto con la base che aveva preparato: gomma, spirito, acqua e un ricco truccheggio. […] l’inchiostro era Grisamentum, forse lui era in ogni sua goccia, forse ciascuna possedeva tutti i suoi sensi e i suoi pensieri, e una piccola porzione del suo potere.
«Lei lo grattava via ogni volta che lo recuperava e tornava a mescolarlo» disse Billy. Ogni singola pipetta piena reintegrava la consapevolezza imbottigliata di Grisamentum. Altrimenti perché ci sarebbero stati quegli occhi? L’inchiostro doveva sapere quello che avevano appreso tutte quelle gocce ricongiunte della sua essenza. «Immagino che abbiano dovuto centellinarlo.» La sua sostanza era limitata. Ogni ordine che scriveva, ogni incantesimo che diventava, tutte le sue comunicazioni erano lui, e lo consumavano. Se fosse stato scritto tutto, ci sarebbero stati solo diecimila piccoli Grisamentum su frammenti di carta, ciascuno sufficiente a essere forse, in un qualche modo patetico, una cartolina magica.
Quando ebbe finito, Billy aveva un po’ di sostanza, più di una goccia, ma di poco.”
La malvagità dei personaggi inchiostrati ideati da Miéville, soprattutto nel processo di degenerazione che hanno vissuto a causa della loro trasformazione, è affine a quella subita dai Lord Sith nella saga di Star Wars. Sia Palpatine (Darth Sidious) che Darth Vader nel loro percorso verso il lato oscuro attraversano una metamorfosi dell’orrore, che incide letteralmente sui loro corpi il male che impersonano. Si ritrova qui la logica del tatuaggio, l’incisione perenne che segna, come accadde a Caino, il male nel corpo.
Il rapporto corpo-scrittura trova la sua espressione più feroce e impietosa nel racconto di Franz Kafka Nella Colonia Penale (Mondadori, 1970) Qui il testo scritto, trattandosi di un carcere, è – inevitabilmente – il testo della legge, quella norma, che – per inciso – è anche la spiegazione, ovvero il motivo, la causa stessa della carcerazione (o per lo meno quella apparente, più formale). Questo viene intarsiato e cesellato direttamente sul corpo del condannato, ed è un complesso, elaborato e delicato meccanismo a farlo, dove il tutto assume una funzione, oltre a quella pietrificante della norma stessa, anche di ornamento estetico, come un orpello che contorna la scrittura, in una sorta di diluizione della legge nel passaggio dal mito al nomos. Così se nella Torre dell’area X le pareti sono scritte con materia vivente, ed è la relazione tra umano e non umano che VanderMeer cerca di portare alla luce, per Kafka è il corpo vivo la materia stessa in cui si innesta la norma, mostrando il conflitto – integralmente umano e politico – tra la legge arcaica intesa come destino e la legge umana, che si esercita attraverso la definizione di un equilibrio, di una giustizia che vuole essere espressione del possibile. Kafka in questo contesto è quindi totalmente interno alla dimensione antropica, e difatti vuole esplicitamente sottolineare la ossessiva e progressiva alterazione che si realizza tramite la macchina. L’umanità kafkiana è vittima di un dispositivo sociale alienante e burocratico, ma non è perduta. L’ufficiale, costruttore e sostenitore della pena, è isolato ed evidentemente tormentato nel suo desiderio espiatorio e purificatore. Per lo scrittore praghese costui non rappresenta l’umanità, ma ne incarna la follia. Quindi, per quanto i personaggi siano evidentemente concordi con lui – per ignavia, ipocrisia e opportunismo – circa la validità e l’utilità della pena che deve essere eseguita, per quanto non ci sia nessun tipo di alternativa o di orizzonte, non è un uomo ad eseguire la condanna.
“[…] «non è un saggio di calligrafia per scolaretti. Occorre leggervi a lungo. Anche lei alla fine ci riuscirebbe. Naturalmente non deve essere uno scritto semplice; non deve infatti uccidere subito ma, in media, soltanto in un periodo di dodici ore; dopo sei ore, si calcola, giunge il punto culminante. Occorre dunque che lo scritto vero e proprio sia circondato da molti ghirigori, perché da solo gira intorno al corpo in una zona sottile; il resto è destinato agli ornamenti. Riesce ora ad apprezzare il lavoro dell’erpice e di tutta la macchina?» […] «L’erpice comincia a scrivere; una volta che lo scritto è stato segnato una prima volta sulla schiena dell’uomo, lo strato di ovatta si arrotola facendo girare così il corpo lentamente da una parte, per offrire all’erpice nuovo spazio. I punti piagati dalla scrittura vengono a trovarsi intanto a contatto con l’ovatta, che, per la sua speciale preparazione, arresta subito l’emorragia e prepara il corpo a una nuova e più profonda incisione della scrittura. […] In fondo non succede che una cosa: l’uomo comincia a decifrare lo scritto; stringe le labbra come se stesse in ascolto […] lo decifra con le sue ferite […]»”
L’immedesimazione qui non c’è: Kafka sa che la scrittura uccide, sa che la legge può essere disumana, che non si può trovare molto di più (o di meno) che insensatezza nella macchina statuale, nel moloch burocratico e nella giustizia (e quindi a maggior ragione nel testo che la racconta), ma nonostante ciò fa un passo indietro, e lascia che sia la macchina a macchiarsi, chiude gli occhi di fronte alla lucida follia, e toglie all’umanità il peso di questa ennesima condanna. Però non può essere nascosto né dimenticato il fatto che anche in questa esternalizzazione della pena, in questa morte per interposta macchina, la macchina è soprattutto macchina di scrittura. La macchina non uccide con le modalità scontate e note: non fucila, non avvelena, non impicca. La macchina scrive, ed è la scrittura che uccide, prima ancora della macchina stessa. Inoltre, è l’ambiguità strutturale della scrittura, che è contestualmente demone e condanna, a creare questo escamotage, questa confusione di ruoli e segni per cui l’uomo è contestualmente vittima e carnefice, in un evidente sdoppiamento semantico, confermando la figura del Doppelganger come presagio e simulacro di morte. Simbolismo che si concretizza una volta di più nell’apparizione conclusiva del racconto, nella tomba sconsacrata e semi nascosta, rimando al tempo crudele del mito, annichilito dalla bassa brutalità del mondo borghese, dal mondo del bisogno materiale.
Un processo affine si trova ugualmente nel romanzo breve di Friedrich Dürrenmatt La guerra invernale del Tibet (Adelphi 2017). Anche in questo contesto il personaggio, un solitario soldato, un mercenario sopravvissuto a una guerra devastante, si ritrova a percorrere corridoi e tunnel scavati nelle viscere di una montagna, da un lato alla ricerca del nemico e dall’altro – contestualmente – cercando di sfuggirgli. Il protagonista è un relitto umano, un cyborg con un mitra innestato sul braccio, costretto ad aggirarsi nella semi oscurità su di una sedia a rotelle. Il mercenario percorre ossessivamente gli infiniti corridoi sotterranei, e in qualche modo cerca di dare un senso alla disperata solitudine che lo avvolge. Grazie a un punteruolo innestato in uno dei suoi arti incide sulle pareti dei tunnel il racconto della sua vita, il racconto della guerra, e le folli (ma ineludibili) riflessioni filosofiche che sorgono nella sua mente. Questo sistema circolatorio esteriorizzato formato dai tunnel e dalle gallerie, per dirla con Ballard, appartiene alla montagna, che diventa una proiezione del corpo stesso del mercenario, che usa la macchina con cui ormai è identificato, gli strumenti che ha innestato in sostituzione degli arti, per scavare nella roccia e trascriverci, ad imperitura memoria, come fosse una stele cuneiforme, il dramma del mondo, così che sia eternamente solidificato, nella pietra-carne. È infatti la memoria stessa dell’umanità che il mercenario si assume il compito di trasmettere, “perché l’uomo, qualunque cosa descriva, descrive sé stesso”. Ed è quindi l’uomo stesso, l’impossibilità di un futuro e di una scelta che viene pietrificato nel chilometrico delirio drogato del soldato.
Apparentemente Dürrenmatt all’inizio del testo lascia che sia l’elemento meccanico a farsi carico del compito peggiore e assimila la macchina stessa alla disumanità, mentre mantiene per l’incisore–scrittore un vago spiraglio di accesso a qualcosa di empatico e sensibile, seppur appena emergente dalla bestialità in cui la guerra lo ha fatto cadere. La rappresentazione della guerra e della distruzione che ne deriva, la follia paranoica dell’onnipresente nemico e l’ossessione della fedeltà al proprio comando in contrapposizione al mondo dei politici e degli intellettuali, visti come i veri responsabili della distruzione finale, sono i temi dei racconti e delle riflessioni che il mercenario scrive in modo rimbombante e senza sosta. Ma nel proseguo è l’ossessione che lo pervade, il processo per cui il soldato diventa la macchina, surclassando così il formale dualismo kafkiano, che fa sì che la scrittura, così come il dare la morte, diventi un automatismo, un meccanismo. La sua scrittura quasi rimanda a quei fenomeni di scrittura automatica riprodotti sotto l’effetto di ipnotici oppure riportati come la riprova di particolari facoltà medianiche. La possibilità di scrivere in modo incosciente mostra il Re nudo, e rivela la distanza che può intercedere tra l’atto della scrittura e il contenuto che si desidera trasferirvi. Il parlottio incomprensibile e illogico diventa una versione limite della scrittura, a cui poco importa il senso, bensì rileva il puro suono, il rumore. Nella parte finale della novella il registro linguistico diventa quello di una rappresentazione teatrale, non è più l’eroismo il sentimento cardine, quanto la sofferenza e la stanchezza, si coglie il prometeico spirito del mercenario, che si rivela però essere una bassa contraffazione della nostra quotidianità, di un dopo guerra ripiombato nel conformismo piccolo borghese, senza più nemmeno la grandezza bestiale di un orco assassino con un mitra innestato al posto del braccio e che tenta di scrivere versi, di trovare la sua via per la vita. Nulla più del delirio di un moribondo alcolista, ma che raccoglie quelle poche gocce di verità che riusciamo a raggiungere.
“La mia situazione è disperata. In balia di me stesso, costretto a procedere a carponi lungo la parete di una caverna mostruosa e labirintica, mi è finalmente lecito pormi la domanda che non mi sono mai concesso durante i combattimenti: chi è il nemico? La domanda non mi paralizza più, e nemmeno la risposta. Non ho più niente da perdere. Questa è la mia forza. Sono diventato invincibile. […] È vero, non ho più la sedia a rotelle, la mia protesi mitra è rimasta chissà dove in qualche galleria, eppure, servendomi del punteruolo d’acciaio inscrivo con una grafia minutissima, ciò che sono arrivato a capire, non perché qualcuno lo legga, ma per poter fissare meglio i miei pensieri. Incidendoli nella roccia infatti li incido nella memoria: la via che porta alla conoscenza è difficile da seguire, […]. Se non ci si assume il rischio dell’immaginazione, la strada verso la conoscenza è impraticabile.”
Così il mercenario, prima di introdurre la sua personale versione del mito della caverna di Platone, che troviamo nella parte conclusiva del memoriale. Ombre e fuochi, segni e scrittura, comprensibili solo grazie all’ausilio dell’immaginazione, che gli permette di scoprire che
“scopo dell’uomo è essere nemico di sé stesso – l’uomo e la sua ombra sono una cosa sola.”
Anche nella saga di Harry Potter si rintraccia il tema della scrittura e del corpo, ed è un segno decisamente distintivo. Nel volume Harry Potter e l’ordine della fenice, compare il personaggio della perfida Dolores Umbridge. Costei dispone di una particolare piuma nera dalla punta molto affilata che non richiede inchiostro; scrive infatti con il sangue dell’utilizzatore e incide le parole sotto forma di ferita sul dorso della mano della persona, tanto più profondamente quanto più la si usa. Harry viene punito, e più volte, e sulla sua mano viene incisa, sempre più profonda, la frase “Non devo dire bugie”. Questa ripresa del meccanismo kafkiano vuole sottolineare gli aspetti repressivi della scrittura, quell’ordine del discorso che pone la scrittura nei primi posti della speciale classifica dei dispositivi punitivi. Non è certamente casuale il fatto che tutto ciò accade in una scuola. In questo caso, inoltre, vi si affianca il motivo epistemologico, per cui la repressione non si esercita più solo sul piano educativo e su quello politico, ma si concentra sul piano della conoscenza, visto che chi detiene il potere della scrittura stabilisce anche cosa è il vero. Difatti non sono trascurabili il dettaglio chirurgico e il linguaggio scientifico con cui J.K. Rowling descrive la scena. D’altronde Voldemort nel corso della saga ha letteralmente trascritto il proprio corpo, nel rifiuto di quello con cui è nato e trasformandosi in un oggetto assolutamente postumano. Vi è nella scelta del linguaggio e dei termini una sorta di asetticità che rispecchia (e critica) il freddo razionalismo di un potere burocratico e anempatico.
“Gli porse una lunga penna d’oca nera e sottile con la punta insolitamente affilata.
«Voglio che lei scriva Non devo dire bugie» gli sussurrò
«Quante volte?» chiese Harry, con una lodevole affettazione di cortesia
«Oh, quanto ci vuole perché il messaggio penetri» rispose la Umbridge mielosa.
«Cominci» […]
Harry levò la penna nera, poi capì che cosa mancava.
«Non mi ha dato l’inchiostro» osservò.
«Oh, non le servirà l’inchiostro» disse la professoressa Umbridge, con una vaghissima punta di ilarità nella voce. Harry posò la punta della penna sul foglio e scrisse: Non devo dire bugie.
Emise un gemito di dolore. Le parole erano comparse sulla pergamena in quello che sembrava scintillante inchiostro rosso. Nello stesso tempo, erano apparse anche sul dorso della mano destra di Harry, incise sulla sua pelle come tracciate da un bisturi: mentre lui era ancora intento a fissare il taglio luccicante, la pelle si richiuse, lasciando il punto dove si era aperta appena più rosso di prima, ma liscio. […] E andò avanti così. Più e più volte Harry scrisse le parole con quello che ben presto capì non essere inchiostro, ma il suo stesso sangue” (pg. 277-278).
È centrale in questo contesto sottolineare il forte mandato critico presente nella scrittura di J.K. Rowling. La scrittrice ha perfettamente chiaro il piano semantico in cui si svolge il conflitto politico che descrive: è la lingua che definisce le parti in causa ed è sempre la lingua l’orizzonte ribelle in cui agisce Potter. Sono l’illuminismo e la caparbietà che lo contraddistingue a permettergli di superare gli ostacoli che il potere mette sul suo cammino, e molti sono i temi con cui si deve misurare, ma il percorso della conoscenza, la gnosi, e quindi la scrittura stessa, resterebbe il cammino principe da seguire, quello che alla fine ci si augura abbia la forza di disperdere ogni oscurità, ma questo non accade, e anche qui riemerge il tema del rispecchiamento, del doppio, della compresenza degli opposti, tema attraverso cui Harry Potter giunge a comprendere il suo infrangibile legame con la sua nemesi malvagia. La comprensione del male per il giovane protagonista (e quindi anche per il lettore) apparentemente non può avvenire che all’interno del razionalismo, ma questo si rivela insufficiente, se non viene connesso a una poetica e una etica indipendenti. Rowling non spiega mai come questo accade. La banalità del male non ha una spiegazione. La scrittrice si affida perciò alla scrittura, e racconta di come il conflitto interiore trascende nel mondo, e di come la scrittura possa raccontare la salvezza, oltre che infliggere dolore, ma ad un certo punto è però costretta a fermarsi. Si deve interrompere di fronte alla insensatezza della bontà e alla assurdità di una vita felice, e di come tutto ciò non trovi fondamento nella logica e nella umana ricerca che ha condotto per tutta la vicenda. Nel mondo in cui Harry Potter diventa adulto, che è un mondo in definitiva fatto di sfumature e di compromessi, di mediazioni piuttosto che di opposti, di compassione piuttosto che di verità, in questo mondo in cui il giovane lettore si ritrova alla conclusione dell’epopea, non ci sarebbe posto per la gioia, eppure il miracolo sta proprio nel suo esistere comunque, senza nemmeno un perché. La grande magia della scrittura, il suo incanto, qui si disvela, e poco ci importa se si tratta di menzogna e di illusione, ma non si può prescindere dalla lunga penna nera di Dolores Umbridge che è un monito costante, un ammonimento sul dolore che può provocare ciò che ci arriva tramite la parola scritta.

L’orizzonte del fantastico, anche se in modo estemporaneo e non organico, si è mostrato quindi come la fonte di questo mondo dove si incontrano il corpo e la scrittura, dove i sentimenti aprono porte e trasportano le coscienze, ma in cui il realismo e l’orrore sono solo due lati della stessa moneta. Non solo in quest’ambito però – com’è ovvio – questi due elementi si confrontano, bensì l’intero campo letterario ne reca le tracce. Leopardi stesso incarna la condizione qui descritta come difficilmente altrove si è visto. Limitandoci però ai confini che qui si è cercato di definire, si tratterebbe, a voler continuare questa indagine, di impostare una strategia di ricerca, un percorso che rintracci nella storia della letteratura questo rumore di fondo che proviene dalle origini stesse della scrittura e che parla al suo lato più materiale: il suo rapporto con il corpo. Qui ed ora, forse, rimane una sorta di difficoltà a maneggiare questo tema, un imbarazzo dovuto forse all’intimità che è necessaria, e che raramente è presente. La misura della adesione alla propria scrittura, la capacità di riversare nel testo il proprio stesso corpo, magari sgraziato e poco piacente, evidenzia la funzione terapeutica della scrittura, ma a questa si associa il rischio di avvicinare – seppur inconsapevolmente – quanto di meglio e quanto di peggio si possiede, e di dover affrontare in questo modo un devastante conflitto. Se quindi la scrittura è originariamente una forma di archivistica, se depositare la memoria è un meccanismo di sacralizzazione, e quindi accedervi ci rassicura, ci reintegra quando la devastazione dell’anima è insopportabile, il fantastico ha la meravigliosa funzione di non chiederci conto del principio di realtà, e di permetterci di sperare quando non c’è più alcuna speranza, se non quella per cui quel sublime a cui si aspira nella scrittura, sia tale da porre una adeguata ipoteca sul risultato della lotta.
Luca Giudici

L’ha ripubblicato su Downtobaker.
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