Il ponte era in piedi ormai da anni: i rinforzi in legno come quelli in metallo andavano e venivano con il passare del tempo, mentre la sua anima più antica fatta di grosse pietre di fiume tenute insieme da malta sbrecciata, resisteva ancora da prima dell’Invasione.
Quel giorno eravamo in tre a difendere il Presidio Cinque: io, un novellino appena uscito a pedate dall’Addestramento per la Milizia, Gerry Malo, il nostro coordinatore e ufficiale in comando, e Michele Seccapassero, il nostro cecchino. Ero stato affidato ai due veterani secondo la consueta procedura del Battesimo del Fuoco, il nostro primo vero scontro, l’esame finale di fronte al Nemico.
La natura era dalla nostra, con le basse montagne che chiudevano a Nord l’incavo naturale che custodiva la nostra Cittadella, ma comunque era nostro compito difendere i punti d’accesso verso sud.
Lasciai la Cittadella quando era già mattino inoltrato. Feci il tragitto dalle Mura Meridionali al Presidio a bordo di una camionetta elettrica modificata della Milizia; imparai così che le storie che avevo sentito sull’accidentalità delle strade che circondavano la valle non avevano affatto indorato la pillola.
Fu il Capitano Malo ad accogliermi sul ciglio della strada: “Ecco qua il Novellino.” così disse, rivolgendomi un rigido saluto militare. Mi aiutò a scaricare l’equipaggiamento, così potei studiarlo da vicino. Devo dire che rimasi sorpreso, nulla nel suo aspetto, trasandato, con dei capelli unti lunghi fino alle spalle, occhi annacquati su una faccia appena sbozzata, nulla indicava il suo ruolo, non fosse per i gradi cuciti alla bellemeglio sulle spalline.
Mi presentai come richiedeva la procedura, anche se il Capitano non sembrò prestarmi poi molta attenzione: “Vieni dentro, gnaro.”
Lo seguii su per il sentiero che risaliva il terrapieno fino al retro dell’edificio con il tetto scoperchiato e le finestre sfondate: rimasi colpito nel vedere una struttura che portava ancora tanti segni della guerra.
Seguii il Capitano attraverso un’apertura obliqua nella parete e sbucai in un piccolo corridoio in penombra. Dovetti accelerare il passo per stare dietro a Malo mentre si muoveva con straordinaria disinvoltura. Ricordo che mi domandai per quanto tempo avesse tenuto questo caposaldo e se per questo dovessi più ammirarlo o compatirlo…
Ci spingemmo sempre più all’interno fino a un’altra apertura, questa coperta da un paio di grosse porte scardinate. Malo ne spostò una di peso e mi fece cenno di entrare.
Mi ritrovai così in un piccolo ambiente senza finestre: c’era poco spazio per muoversi, con tutte le casse e gli scatoloni che occupavano un lato, e il tavolo con l’apparecchiatura radio dall’altra parte. La luce arrivava da un paio di fanali fissati in alto: non sentivo il rumore di un generatore, quindi penso che dovesse utilizzare la stessa corrente usata nella Cittadella, visti anche i cavi che sbucavano in un cantuccio.
Credo fosse la dispensa della vecchia casa, convertita in magazzino e bivacco.
Mi accorsi dell’altro uomo solo in un secondo momento. Sedeva a gambe incrociate sulla sporgenza di una delle casse, intento a ripulire un grosso fucile con un vecchio panno logoro, così che non mi riuscii di vederlo in faccia.
Dietro di me, il Capitano Malo disse: “Buttati nell’angolo e datti da fare. Ehi, Secca: guarda che ci mandano i capoccioni.”
L’altro uomo alzò la testa e mi scoccò un’occhiata che poteva essere stata benissimo di noia come di distaccato divertimento. Aveva occhi grigi, taglienti quasi quanto la faccia: in realtà, tutto in lui pareva affilato da un tornio.
Realizzai solo allora che avevo davanti il Seccapasseri, la leggenda di noi cadetti: quello che aveva fatto fuori dodici dei loro con solo un caricatore …
Seccapasseri scivolò giù dalla sua cassa e mi si parò di fronte: mi sorprese notare che nonostante fosse alto quasi quanto me, avevo come l’impressione che fosse lui a sovrastarmi: “Domanda: sei un pischello non-autosufficiente? –
“C-come?”
“ Sei di quelli che non sanno neanche pulirsi da soli la propria merda?” ripeté lui con un moto di stizza, mentre con la coda dell’occhio lo vidi accarezzare la canna del fucile che teneva al fianco.
“Nossignore”.
Intervenne il Capitano: “Non farti impressionare. Spara cazzate, ma se lo hai dalla tua, sei in una botte di ferro”.
“Solo fino alla prossima settimana… poi me ne vado dai ragazzi del Presidio Meridionale” sogghignò Seccapasseri senza distogliere gli occhi da me “ Rancio migliore, gente più allegra e lì sì che ci si diverte!”
Annuii ammirato.
Iniziò così il mio primo giorno di ruolo: vidi il ponte per la prima volta poco dopo, mentre mi spostavo verso l’angolo della casa riconvertito in latrina. Nelle vicinanze c’era una piccola finestrella da cui si riusciva a scorgere parte della struttura.
Ricordo con chiarezza l’impressione che ne ricavai: l’acqua del fiume riluceva di brillanti, diventava schiuma gorgogliante intorno ai pilastri, su cui la luce si rifletteva con riflessi cangianti; zio Alfredo avrebbe tirato fuori qualche frase presa da qualcuno dei suoi libri, costruendo un altro ponte sopra quello che stavo guardando, un ponte fatto di parole e periodi squadrati e ben edificati.
Mentre rientravo, m’imbattei nel Capitano: “Sign… Capo, è incredibile trovarmi qui: sempre in prima linea, no?”
Mi guardò con un’espressione stupita, come avessi detto chissà quale fesseria; per un attimo sembrò volermi dire qualcosa, per poi rinunciare e allontanarsi senza aggiungere nulla.
Mi ci volle poco per capire quanto i miei due commilitoni fossero diversi; Malo teneva sempre quella sua aria bovina per ogni occasione, mentre Secca mostrava sempre un’impenetrabile aura di calma raccolta, ma bastava la pur che minima scintilla, come ho scoperto a mie spese quando rientrando nella stanza, colpì accidentalmente una latta che sbatacchiò sul pavimento con un forte fracasso, per scoppiasse in fragorosi accessi di rabbia accompagnati da insulti che rimbombavano in quello spazio limitato, per tornare, appena esauriva la tempesta, a concentrarsi sul suo lavoro come se nulla fosse.
Stavo districando una matassa di cavi che ingombrava il mio giaciglio, quando tutt’a un tratto Seccapasseri mi chiese: “Sei il figlio del Nozzi, vero?”
Annuii, e lui fece lo stesso: “Uno stronzo che non si può non amare. Non lo vedo da mesi: come se la passa?”
“È ufficiale addetto all’amministrazione dell’Addestramento.”
“Salute! Allora sei un altro raccomandato cocco di papà, eh?” e scoppiò a ridere; non me la presi, perché non sentivo cattiveria nella sua voce.
“ H-ha-hai combattuto fin da quando è iniziato tutto, come mio padre, vero ?”
Seccapasseri non mi degnò di uno sguardo, ma sapevo che la domanda lo aveva colpito sul vivo, da come aveva ripreso a passare il panno con gesti più lenti e calibrati.
“ Perché lo vuoi sapere ?”
“ Voglio sapere come è stato davvero.”
All’inizio Secca non sembrò volermi rispondere, poi tutto d’un tratto, smise il suo lavoro e si fermò a guardare un punto fisso davanti a lui; prese a parlare con una voce che sembrava trattenere a stento l’emozione e in un paio di occasioni sono certo di averlo visto leccarsi le labbra come se assaporasse ogni singola parola:
“ Beh, ragazzo… ecco i fatti: all’inizio erano ancora in pochi… piccoli colonie che arrivavano alla spicciolata da Fuori. Allora avremmo potuto tagliare la testa del verme con facilità, prima che l’infestazione si diffondeva… Ma quelli più deboli, quei buonisti vigliacchi hanno detto: ‘no, facciamoli pure entrare… diamogli il nostro cibo, accoglia-moli nelle nostre case e nelle nostre mense… abbiamo un dovere verso di loro’… Hanno aperto le porte, e quando i migliori tra noi hanno capito quello che stava succedendo, il danno ormai non si poteva riparare…”
Ascoltavo rapito il racconto di Secca: aveva qualcosa nel suo modo di parlare che lo rendeva quasi ipnotico.
“ … Hanno trascinato con loro la nostra gente, le nostre città. Quelli di noi ancora disposti a combattere, a non piegare la testa, abbiamo capito che la battaglia era persa, ma non avremmo mai lasciato che vincessero la guerra. Ci siamo messi alle spalle le montagne e abbiamo lasciato solo terra bruciata dietro di noi. Quanti posti che ho attraversato e lasciato ridotti in cumuli di macerie… Sempre meglio che lasciarli a chi veniva a rubarceli. Ora stiamo rintanati come topi nella nostra tana… ma non credere: sii fiero di questo, perché ogni giorno, ogni anno diventiamo sempre di più… ci avviciniamo sempre più al momento della riscossa.”
In quel momento, rientrò il Capitano: valutò a malapena il mio lavoro; poi si rivolse a Miché agitandogli sotto il naso con atteggiamento invitante un mazzo di carte consunto: “Che dici, Secca… Partitina tra gentiluomini?”
“Certo! Ehi, pischello” facendomi un cenno “ti va di unirti a noi? ”
Non mi feci pregare: conoscevo la maggior parte dei giochi con le carte grazie al mio vecchio e anche se in quell’occasione non ebbi fortuna, il gioco mi ha permesso di scoprire molte cose sul conto dei miei nuovi compagni d’armi.
Il comportamento del Capitano mi divenne più chiaro quanto mi parlò della sua figlioletta, in Clinica per un’influenza, giù alla Cittadella, intanto che la madre era impegnata a lavorare nelle Piantagioni occidentali, senza che nessuno potesse lasciare il suo posto…
Secca, d’altro canto, non aveva fatto altro che vantarsi di quella volta che aveva ammazzato una decina d’invasori solo con centri perfetti.
Stavamo per iniziare una nuova partita, quando dalla console radio cominciò a diffondersi una voce femminile, deformata da interferenze statiche: “Bbbzzzz… Base Cittadella a …Bbbzzz…sidio Cinque. Mi ricevete, passo?…Bbbzzz”
Il Capitano corse a rispondere al microfono: “Qui Presidio Cinque. Venite avanti, passo.”
“Identificarsi.” ordinò la voce all’altro capo.
“ Capitano Geraldo Malo. Matricola AL439S, passo.”
“ Capitano… lei e i suoi preparatevi a un imminente ingaggio con il nemico.”
Ci guardammo negli occhi: non saprei dire con certezza cosa provavo, ma ricordo gli sguardi degl’altri; pareva che la notizia dello scontro imminente avesse acuminato ancor di più quello di Secca, rendendoli più simili a quelli di un rapace. Eppure, fu quello del Capitano che m’impressionò di più: vidi un fuoco nei suoi occhi che avrei imparato a conoscere molte altre volte.
Intanto, la voce alla radio proseguiva: “Le sentinelle ci hanno segnalato un gruppo dei loro in avvicinamento da sud-est. E i ragazzi della stazione meteo prevedono entro sera nella zona la formazione di banchi di nebbia.”
“Sti’ maledetti devono averlo previsto.” sibilò Seccapasseri accanto a me.
Malo non gli prestò attenzione, concentrandosi per seguire quello che diceva la donna all’altro capo:
“ Dobbiamo aspettarci un attacco in forze?”
Rimanemmo in attesa della risposta: “No… Sembrerebbe un numero ridotto di unità. Cinque o sei: probabilmente una piccola squadra di razziatori.”
“ Fòtuti bacherozzi ”, per la prima volta vidi una smorfia di disgusto affiorare sul volto del Capitano.
“ Capitano… Richiedete rinforzi?”
Il Capitano ci guardò, come se spettasse a noi decidere, ma né io né Seccapasseri ci muovevamo.
“ No. Possiamo cavarcela da soli. Passo.”
“ Qui Base. Ricevuto. Buona fortuna ragazzi. Passo e chiudo.”
Restammo imbambolati a fissarci l’un l’altro, senza saper cosa dire: l’unico suono che sentivamo era altre scariche dell’apparecchio.
A rompere il silenzio fu Secca, che sorrise soddisfatto: “Beh, e dire che prometteva di essere una serata così tranquilla!” , si piegò verso di me per assestarmi una sonora pacca sulla spalla: “Congratulazioni, pischello. Avrai presto il tuo vero Battesimo del Fuoco.”
“Miché, piantala e corri a prepararti, e tu…” esclamò puntandomi addosso una delle sua dita tozze “seguimi.”
Uscimmo in fila indiana dalla stanza: Secca si allontanò verso l’interno dell’edificio, mentre io e il Capitano entrammo in quello che doveva essere stato l’atrio della casa e prendemmo la scala che saliva verso il piano superiore.
Salimmo quasi fino a metà, quando Malo si arrestò davanti a un’apertura nella parete, ciò che restava di una vecchia finestra in frantumi e mi fece un gesto: “Avvicinati e guarda fuori!”
Restai allibito: avevo cominciato a udire in lontananza un familiare gorgoglio; considerato su quella lato dava, affacciarsi da quella finestra era un suicidio.
Il Capitano sembrò interpretare i miei pensieri, poiché mi disse: “Tranquillo: al momento saranno ancora ben lontani.” e si piazzò in piena mostra davanti all’apertura. Lanciò un’occhiata all’esterno: “ A giudicare da là, la nebbia calerà tra un’ora, massimo un’ora e mezza.”
Io rimanevo immobile a fissarlo mentre sfidava così avventato il pericolo; credo che fu in quel momento che ho iniziato a stimarlo davvero.
Mi avvicinai per vedere anch’io, mantenendomi però sempre al riparo dell’infisso scheletrico. Ormai rido di un gesto così timoroso, ma allora ero un giovane di primo pelo, non sapevo ancora leggere i segnali.
In effetti, le prime dita di foschia cominciavano ad addensarsi alla base delle colline in fondo alla valle.
“Quelli non avranno il fegato di tentare qualcosa prima di notte. Fanno proprio come gli insetti.” e mi rivolse un sorriso in cui riuscivo a distinguere il disgusto che celava.
“In ogni caso, ecco cosa volevo farti vedere” e indicò qualcosa sotto di noi.
Dal ponte partiva una piccola strada: prima dell’Invasione, sarà stata forse un’anonima strada secondaria, eppure ora rappresentava uno di quegl’ultimi flebili collegamenti tra la Cittadella e la terra che una volta era nostra.
Tra la casa e la strada correva un muretto di sassi e mattoni: appena dietro l’angolo della casa, si distingueva un punto dove la struttura era venuta giù in un cumulo di detriti che ingombrava parte della carreggiata, là dove faceva angolo con la base del terrapieno.
Lo avevo già notato quando ero arrivato, ma non ci avevo prestato molta attenzione. Era quello che Malo stava ora indicando: “Tu dovrai posizionarti là dietro”
Risposi Sissignore ancor prima di realizzare quello che mi diceva.
Ritornammo nell’atrio: Secca ci aspettava con le spalle alla porta d’ingresso. Aveva il proprio fucile in spalla, e ne teneva un altro al fianco: questo mi sembrava di precisione.
Mi venne incontro, si sfilò l’arma e me la spinse a forza nelle mani: “Ecco il tuo nuovo migliore amico. Trattalo come si deve…”
“G-Grazie!” Avevo già usato armi, durante l’addestramento e me la cavavo bene… ma sapevo che questa volta non avrei sparato contro bersagli di cartone.
“ Non dovresti averne bisogno in quest’occasione” si premurò di dirmi il Capitano, “Se proprio dovranno cantare le armi, ci penseremo io e il nostro cecchino qua.”
Studiai il fucile: qualcuno doveva averlo modificato, aggiungendovi un mirino telescopico; chissà se era stato Secca o qualcun altro ?
Tornammo per un momento nello stanzino interno, per recuperare l’essenziale dai nostri equipaggiamenti.
Tornati nell’ingresso, Malo si chinò per illustrarci la strategia da seguire:
“Ricordate di tenere aperti il canale, ma riducete le comunicazioni all’essenziale.” concluse Malo indicandoci la frequenza da utilizzare con le ricetrasmittenti.
Saremmo usciti dalla porta principale, abbandonandola vacillante alle nostre spalle: ricordavo la lezione dall’accademia; chiunque sarebbe venuto dal ponte avrebbe visto la porta incustodita e si sarebbe convinto che l’edificio potesse essere abbandonato… il falso senso di sicurezza avrebbe fatto il resto.
Il primo a uscire fu Secca: il suo appostamento era nascosto alla biforcazione di due rami di un vecchio pioppo a lato della strada. Sbirciando da un foro, lo seguì attraversare il vialetto, saltare di là dal muretto e correre su per il tronco con un’agilità che non aveva niente da invidiare a quella di una scimmia.
Poi toccò al Capitano: “In campana, ragazzo… Niente cazzate, intesi?”. Lui invece corse in un solo scatto tutto il cortile e sparì dietro un alto cespuglio.
Era infine arrivato il mio turno: credo di aver esitato per un momento, prima di lanciarmi verso il fianco alla mia sinistra, ma come ogni vero soldato, m’imposi di non pensare a nient’altro che eseguire gli ordini che avevo ricevuto.
Strisciai lungo la superficie del muretto fino al punto del crollo: la postazione era camuffata dal cumulo di pietre, invisibile a chi guardava dalla casa e, ancor più importante, da chi arrivava dalla direzione del ponte…
Mi lasciai scivolare dentro: fortunatamente, la mia altezza mi permetteva di occupare l’angusto spazio in cemento senza difficoltà e anche se rannicchiato, mi permetteva di mantenere una certa libertà di movimento. Poco sopra la mia testa, qualcuno aveva aperto una piccola feritoia, da cui si manteneva una buona visuale della nostra parte del ponte e una linea di tiro pulita.
Dalla mia ricetrasmittente arrivò uno squittio improvviso che mi fece sobbalzare, facendomi colpire la parete sopra le mie spalle: mentre tentavo di recuperala, l’apparecchio mi scivolò dalle mani: più che per il dolore della botta, credo sia stata la vergogna per una reazione così poco appropriata per il mio ruolo…
Recuperata, premetti il pulsante e la forte inflessione dialettale di Secca mi esplose nell’orecchio: “Ehi, piccolo Nozzi. Sei arrivato?”
“In posizione, passo.”
“ ‘IN POSIZIONE, PASSO’… Madonna, sei identico a tuo padre. Non vi divertite mai.”
Mai nessuno mi aveva paragonato a mio padre e la cosa, non saprei dire perché, non mi fece piacere come mi aspettavo.
“ Guarda fuori. Ti faccio ciao-ciao dal mio bel trespolo.”
Mi affacciai alla feritoia: dopo un attimo, tra le fronde del pioppo germogliarono brevi flash di luce intermittenti. Alla radio tuonò la voce severa del Capitano Malo: “Che cazzo fai? Vuoi farci scoprire?”
“ Calmo, Capitano… se quelle merde fossero nei paraggi, le avrei già individuati. Tranquillizzavo solo il pischello.”
“Non è una scusa: resta concentrato… e tu” mi irrigidì a sentire quella inflessibile voce incorporea “Ti conviene non fare caso alle idiozie di quella testa bacata!”
“ Signorsì, signore.”
Il resto della conversazione si svolse esclusivamente tra il Capitano e Secca, perciò preferì tirarmene fuori, riducendo al minimo il volume; il loro battibecco si ridusse a basso chiacchiericcio uniforme.
Il tempo che seguì prese a scorrere in modo lento e placido: in lontananza, udivo lo scorrere vivace del fiume; in un primo momento, provai a concentrare la mia attenzione sulla strada, ma persi interesse dopo poco.
In un attimo di curiosità, pensai di origliare la conversazione tra i miei due commilitoni, ma quando ripristinai l’audio, si sentivano solo le solite scariche d’interferenza; tornai perciò a concentrarmi sul lento suono del fiume e iniziai a farmi cullare da esso.
In quel momento, mi tornò alla memoria una cosa che mio padre diceva di solito: quando non la tieni al guinzaglio con qualcosa di pratico, la mente va sempre a spasso…
Non mentirò dicendo che ricordo con assoluta chiarezza quello che pensai in quei momenti, ma posso tentare di riassumerlo in maniera abbastanza fedele:
voglio dire, ero arrivato… dopo anni di addestramento, ero finalmente nella Milizia, come mio padre… no, mai come lui: aveva approfittato di ogni occasione e cavillo per scalare la gerarchia e arrivare alla sua oasi: la nomina ad ufficiale, dietro ad una comoda scrivania, al sicuro giù alla Cittadella… mentre mia madre e i miei fratelli si rompevano la schiena nei campi e sulle macchine del Sito Industriale.
Io non avrei mai potuto essere così, ma in fondo anch’io ero arrivato dove volevo essere: sulla breccia, in prima linea.
Davanti a noi, le terre che il Nemico ci aveva sottratto; dietro di noi, la Cittadella, la civiltà, tutto ciò che rimaneva di chi eravamo…
e di lì a poco, avrei visto a viso aperto cosa combattevamo: io, come chiunque era nato dopo l’Invasione, conoscevo il Nemico solo attraverso i racconti e le ricostruzioni dell’ Addestramento, ma sapevo che un conto erano le storie, un’altra era vedere con i propri occhi.
Zio Alfredo non avrebbe approvato: aveva sempre avuto idee pericolose, i miei lo dicevano sempre. Mamma diceva che che era perché gli mancava la sua vita di prima e che le lezioni erano un tentativo di sentirsi come allora. Credo di essere stato uno dei suoi più assidui discepoli: non eravamo mai più di una decina, con giornate dove si raggiungeva anche la folla di venti ragazzi. Certe volte, quando avevo un pomeriggio libero dall’Accademia, correvo al pascolo dove eravamo soliti riunirci, e mi divertivo a ripescare dalla memoria i discorsi di mio zio, quando ci parlava della vita prima dell’Invasione, o ci leggeva qualcosa che aveva estrapolato dalla sua biblioteca personale. Onestamente, me ne importava poco di tutte le sue storielle: le trovavo inutili distrazioni; ciò che amavo di più era il piacere di ascoltare il modo che lui aveva di plasmare le parole, posizionandole e rimescolandole fino a creare infinite sfumature di significato. Papà in particolar non lo sopportava: ricordo di averlo sentito più di una volta dire che i perdigiorno come lui erano un peso per l’economia della Cittadella. Non capii cosa voleva dire fino ai tredici anni, quando finalmente realizzai la colpa di mio zio: vederlo passeggiare con aria distratta mentre sempre giovani tentavano la sorte nelle spedizioni fuori dalle Mura, fissato con la pulizia mentre famiglie vivevano in condizioni pietose pregne dei fumi del Sito Industriale, mi dava il voltastomaco. Di lì a poco, anch’io smisi di frequentare le sue “lezioni” e mi decisi finalmente a entrare nell’Accademia. Se fino ad allora mi ero convinto che zio Alfredo fosse un uomo intelligente, lui dimostrò l’esatto contrario quando cominciò a tirare fuori le sue assurde idee nelle assemblee della comunità: parlare di studiare la cultura del Nemico davanti a un centinaio di persone che non aspettavano altro che distruggerla. Nessuno si stupì quando appena tre giorni dopo quella famosa assemblea, Alfredo scomparve: il pensiero di tutti noi andava alla fossa dietro la centrale…
Un rumore improvviso interruppe il monotono gorgheggiare del fiume, facendomi trasalire.
La procedura richiedeva che puntassi senza esitazione la mia arma, ma la sorpresa fu tale che per un momento dimenticai il fucile accanto a me e mi gettai invece sopra la ricetrasmittente; fui sollevato nell’udire la voce del Capitano che copriva il solito mormorio statico: “Vedi niente?”
Lanciai un’occhiata verso la postazione di Secca, ma non riuscì a scorgere il minimo movimento.
“Non sono sicuro. Comincia a farsi difficile…”
Realizzai solo in quel momento il cambiamento nel paesaggio: eravamo ormai arrivati al crepuscolo, con le ultimi luci che affondavano verso Occidente, ma la sorpresa più grande fu vedere come l’intera altra sponda del fiume paresse sparita in un muro fumoso.
“ D’accordo, ragazzi, in campana!”
Un dubbio atroce m’invase: “Capitano, e se il banco arrivasse fino a noi?”
“Tranquillo, gnaro… L’ho già visto capitare: siamo fortunati, non tira vento e stasera non c’è molta umidità. Rimarrà sull’altra riva.”
Annuii poco convinto: l’idea di essere circondato da quella muraglia lattiginosa, ancor più di qualunque cosa potesse nascondersi al suo interno, m’inquietava terribilmente; poi realizzai cosa questo significava davvero, mentre le ultime cime degl’alberi venivano fagocitate dalla nebbia: loro erano là, probabilmente ci stavano guardando, valutando, calcolando la strategia migliore, mentre intorno a loro la foschia assorbiva come una spugna l’oscurità che stava iniziando a calare… e a separarci, quel sottile filamento di pietra e malta sbrecciata: dovetti sforzarmi per non immaginarli come ragni nascosti nelle loro tele, che attendevano pazienti il loro pasto…
Provai ad affrontare il panico con la logica: dalla nostra avevamo l’effetto sorpresa, le nostre postazioni erano camuffate a dovere… probabilmente tutto quello che vedevano non era altro che un vecchio rudere abbandonato e una strada in parte ingombrata dai detriti…
Eppure, la paura non se ne andava; afferrai la ricetrasmittente: “Seccapassero… mi senti, passo?”
Mi risposero solamente altri rumori di statica; stavo per ripetere la domanda, quando la voce di Miché si sovrappose: “…’azzo vò?” Le parole si distinguevano a malapena; senza bisogno di spiegazioni, ridussi anch’io la mia voce a poco più che un basso mormorio. Non arrivò nessuna risposta, eppure sentivo arrivare rumori dall’altro capo che dimostravano che Miché aveva tenuto il canale aperto; qualcosa mi diceva che anche il Capitano era all’ascolto.
“ Mio…”
“Attenzione! Ho visto qualcosa! Muti adesso!”
Questa volta, riuscii a dispormi secondo la procedura: posizionai il fucile, usando il piano della feritoia come cavalletto e puntai il reticolo parallelo alla cima dell’arco ascendente.
Ai miei piedi, la radio continuava ad emettere il suo brusìo statico: mentre cercavo di spegnerla, mi trovai a pensare a quanto mi ricordava il rumore di uno sciame di vespe infuriate…
Quando udii quel suono, sentì i miei muscoli contrarsi: ciaff-ciaff. Continuavo a guardare attraverso il mirino, tutta la mia visuale si riduceva a quel piccolo spazio circolare e a essere onesto, avevo paura di quello che poteva trovarsi appena al di là di quella porzione di realtà ben delimitata.
Udii di nuovo quel suono: questa volta pareva essersi avvicinato. Ascoltavo con le orecchie tese, immaginando una cosa indefinibile che si aggirava circospetta sulla riva, valutando con intelligenza predatoria se la strada fosse libera o meno. Ciaff-ciaff.
Si ripeté una terza volta, e realizzai che c’era qualcos’altro di diverso in quel suono liquido: sembrava che adesso calpestasse un terreno umido diverso , meno compatto… Poi di nuovo il silenzio: appena sotto la mia soglia di coscienza, percepivo la totale tensione del mio corpo.
Poi il rumore riprese a risuonare su un terreno ancora diverso, diventando sempre più rapido e ritmato: Ciaff-ciaff-ciaff-ciaff.
Il resto accadde in un lampo: il mio primo contatto visivo con il Nemico si era ridotto a un’ombra scura nella parte alta del mirino.
Fu quando esplose il colpo di Secca che mi resi conto di cosa stava accadendo. Ma ricordo il verso che seguì, quando la cosa cadde a terra: un grido disarticolato che si spense in un attimo dopo che la figura smise di contorcersi.
E poi dalla nebbia si levò un concerto di versi simili: spero di non dover sentire mai più un simile coro animalesco, ma niente come sentire Secca che lanciava un ululato di trionfo che mi arrivava sia dalla radio che dal suo trespolo: “Uno in un colpo!”
Dalla radio arrivò anche la voce di Malo: “Miché! Che cristo…”
Prima che finisse di parlare, udii qualcosa di simile a un sonoro tump e qualcosa fende-va il barriera della bruma e tagliava sibilando l’aria appena sopra la mia postazione.
Altri due colpi esplosero dalla cima del pioppo per sparire tra la nebbia: un attimo dopo, un’altra coppia di spari venne verso di noi: dai rumori che sentii, credo che uno dei proiettili abbia colpito l’albero. Non potevo muovermi: sentivo l’intero mio corpo teso come uno spago sul punto di spezzarsi.
Mentre l’eco degli spari si diradava, da dentro il banco i rumori ripresero più forti; un senso di euforia m’invase quando realizzai quello che stava accadendo: terreno calpestato, rami spezzati, strepitare confuso… si stavano ritirando.
Avevamo vinto: sentii la tensione sciogliersi tutta in una volta. I rumori si fecero sempre più lontani, finché non ritornò che il consueto scorrere placido del fiume.
Eppure non mi mossi fino a quando non sentì la voce del Capitano che arrivava dalla radio: “Okay, ragazzi… sembra che si finita. Miché, vai avanti a dare un’occhiata.”
Sola allora riuscì a staccare l’occhio dal mirino e il mondo tornò a esistere in tutta la sua oscura immensità.
Secca saltò giù dal suo trespolo e prese ad avanzare verso l’alzata: sembrava ancora non fidarsi molto, poiché percorse l’intero tratto strisciando carponi sul terreno fino ad arrivare in prossimità della massa inerte sulla cima dell’arcata. Si tirò in piedi e ci fece cenno agitando in aria la sua arma: vidi il Capitano riemergere dal cespuglio dove era sparito ore prima direttamente sulla strada e avviarsi per raggiungere Secca.
Quando riemersi dal mio nascondiglio, una folata di vento gelido m’investì la faccia, che mi fece tremare: anche se non credo che quei brividi fossero solo una questione di temperatura…
Mi avviai incespicando verso il ponte: quando li raggiunsi, i miei commilitoni stavano discutendo appena oltre il corpo, passandosi un moncherino di sigaretta fatta in casa mentre scrutavano la nebbia ondeggiante.
“… una mossa cretina.”
“Lo sai che loro non si muovono mai armati se non sono in grosso numero. Devono fare economia: con le armi sono messi quasi peggio di noialtri. Poi guarda: mandano persino avanti i loro scarti per primi.”
“E se ti fossi sbagliato?”
“Invece c’ho preso. Così imparano che con noi non si passa… Ehi, giovane Nozzi: che te ne pare come prima volta?”
Non gli risposi: anzi gli prestavo a malapena attenzione, mentre osservavo affascinato e intimorito la figura stesa ai miei piedi; per una sorta di curiosità morbosa, mi chinai ad osservarlo da vicino.
“ Cavolo… Sembrano così simili a noi.”
“Già. È proprio così che ti fregano.” sibilò Miché, e si chinò a sollevargli la testa per mostrarmela alla piena luce della torcia.
Guardai con attenzione il corpo: aveva pochi stracci incolori che iniziavano a tingersi di sangue, un tempo dovevano essere stati dei vestiti; aveva gambe e braccia magre con i piedi ancora accartocciati nello spasimo della corsa; le mani erano stese davanti a lui, parevano tese verso la nostra sponda, ma fu il viso fu la cosa che mi rimase più impressa: come il resto del corpo, era solcato da profonde rughe e circondato da una folta barba crespa color del ferro che risaltava sull’inchiostro della pelle.
“Forza” intervenne il Capitano “Non perdiamo tempo. Domani dovrebbe rientrare la spedizione di recupero. Liberiamo la strada.”
A me toccò afferrarlo per i piedi: all’inizio, credevo di star per vomitare, ma poi riuscì a mandar giù il conato e a sollevarlo insieme a Secca. Per un attimo, temetti di incrociare i suoi occhi morti. Per fortuna era morto con gli occhi chiusi.
Vomitai più tardi, quando realizzai di aver camminato dentro al suo sangue.
Lo trascinammo sul bordo e con un solo movimento deciso lo spingemmo oltre il parapetto: il suono che fece quando colpì l’acqua tormenta ancora certi miei incubi.
Ricordo di aver pensato qualcosa in quel momento: una vera assurdità, per carità, e ne parlo qui solo perché confido che nessuno leggerà mai queste pagine.
Eppure una parte di me sperò che i suoi simili trovassero il corpo, lo recuperassero per dargli sepoltura, salutarlo come si deve, o cose di di questo genere: per un attimo ricordo di aver ripensato alle storie di Zio Alfredo.
Fu la follia di un momento, prima di rinnegare con decisione un tale pensiero e affiancarmi ai miei commilitoni, per godere dello spettacolo del corpo che riemergeva e iniziava a scendere verso il fondovalle trascinato dalla corrente.
Roland A. Baschenis
Autunno 2018