La guerra non scoppia mai in modo del tutto improvviso, la sua propagazione non è l’opera di un istante.
Carl von Clausewitz
Ero stato cieco. I segni erano tutti lì, nell’aria calda che spirava da Sud e solo un babbeo offuscato dal pacifismo non avrebbe notato la realtà che si preparava a esplodere.
Per primi notai gli esploratori, si aggiravano attorno al sacchetto degli scarti e i più coraggiosi già intrufolatisi al suo interno, si accertavano della presenza di scorte alimentari. Erano in pochi e li lasciai fare. Quando un’ora dopo notai un cospicuo numero, seguii i loro movimenti a ritroso: mi avrebbero portato alla loro base.
Sapevo di un clan che abitava sotto la balaustra che dà sul terrazzo. Mi aspettavo di vederli tornare lì. Mi sbagliavo. Con mia grande sorpresa, mi condussero presso il bagno.
Un altro clan aveva preso possesso dei territori tra lo stipite della porta che dà acceso al bagno e un angolo esterno della doccia. I piccoli esseri neri, comunemente definite formiche, erano entrati e proliferavano nella mia abitazione. Attivai i miei contatti.
Dai dati fornitimi dall’Intelligence il loro quartier generale, si trovava proprio sotto il piatto-doccia, il che rendeva impossibile un attacco diretto a meno di non smantellare la doccia.
Riunii in tutta fretta il Gran Consiglio.
Naturalmente cercammo una soluzione non violenta, facemmo persino ricorso, spinti dalle forze pacifiste, a dei rituali sciamanici per entrare in contatto con l’alterità rappresentata dai minuscoli esserini, tutto invano: il sogno di una pacifica convivenza inter-specista s’infranse di fronte la realtà dei trentotto gradi Celsius.
Non appena intuii un possibile fallimento nelle trattative, diramai un ordine d’acquisto per del Baygon. Volevo avere un’arma segreta, quella che ci avrebbe dato il vantaggio sul nemico. Purtroppo, all’esplodere della temperatura, anche le trattative saltarono, e decisi di fare ricorso alla più brutale delle soluzioni: la guerra.
II
Se conosci il nemico e te stesso, la tua vittoria è sicura. Se conosci te stesso ma non il nemico, le tue probabilità di vincere e perdere sono uguali. Se non conosci il nemico e nemmeno te stesso, soccomberai in ogni battaglia.
Sun Tzu
I miei consiglieri ben consapevoli che la guerra è un’arte, fecero pressione affinché consultassimo gli antichi tomi. Magnanimo quale sono, acconsentii alla loro richiesta. E poiché il consiglio era composto per metà da uomini dell’Occidente (per lo più, americani, inglesi, tedeschi, francesi, italiani, greci, alcuni brasiliani, per lo più musicisti, e vecchi gufi dell’impero austro-ungarico) e per l’altra da saggi del lontano Oriente (indiani, cinesi, giapponesi e qualche arabo di chiara estrazione sufi) la nostra scelta cadde infine, su due autorevoli fonti: il Maggiore Generale dell’ormai defunto esercito prussiano Carl von Clausewitz e il sommo stratega militare e grande filosofo Sun tzu.
Studiammo le profonde parole dei Maestri e alla fine di quella che sembrò un’interminabile giornata, decidemmo che avremmo operato seguendo due capisaldi della tattica militare: “Studia il campo” e “ Conosci il tuo nemico”.
E così, nella quiete della sera, munito di torcia elettrica, studiai il campo da guerra.
Passai in rassegna le piastrelle, gli stipiti e i vari interstizi presenti lungo il percorso preferito dal nemico: una disamina minuziosa che mi rese conscio dei nostri punti deboli e di come il nemico ne traeva vantaggio.
Dall’alto della nostra specie, le piastrelle e le fughe sembrano tutte uguali ma quando ci si china a osservare più attentamente, la prospettiva cambia e questo, credetemi, in una guerra, può fare la differenza.
Piccoli sberci nel muro, fughe sigillate male, telai non del tutto aderenti costituiscono luoghi ideali per il nemico.
Presi nota, così, dell’esistenza di un mondo parallelo che silenziosamente coabita con il nostro, un luogo liminale dove la fantascienza è realtà; esseri che, osservati da vicino, ricordano gli abitatori di mondi alieni immaginati dalla fantasia umana.
Io ne ho viste cose che voi umani non potreste immaginare: scolopendre da combattimento in anfratti invisibili a largo del grande divano, ragni Pholcidae balenare nel buio vicino alle porte della stanza da letto, onischi incauti tramare in luoghi bui.
E tutti questi esseri convivono e lottano per la sopravvivenza, in un equilibrio sempre precario, minacciati dal più letale dei predatori: l’uomo.
La guerra si sa, non è per i deboli di cuore e neanche la visione di ciò che abita nelle nostre case, il rischio è di essere perseguitati, nel sonno, da orrori innominabili.
Al secondo caposaldo, “Conosci il tuo nemico”, dedicai la mattina seguente.
Dai saggi dell’Oriente ero stato duramente allenato a sedere immobile per ore, vigile, con la mente tesa a percepire ogni movimento interno ed esterno.
Seduto sul pavimento, scrutavo la base nemica ai piedi della porta del bagno. Nello stato di trance meditativa, richiamai alla mente l’idea di roccia, e presto l’intero mio corpo divenne immoto, le funzioni vitali al minimo.
Ora potevo ingannare il nemico e osservarlo, non visto, dall’alto della mia posizione. Guardavo gli esploratori dirigersi verso la cucina e lasciare tracce olfattive ai genieri, pacchetti informativi costituiti da ormoni, che depositati agli angoli del percorso, confermavano la giusta direzione e i possibili pericoli.
Ci furono dei momenti di tensione, quando alcune delle guardie all’ingresso si spinsero fin verso me; fortunatamente gli anni passati sul cuscino di meditazione, evitarono che il peggio accadesse.
Con il trascorrere delle ore entrai sempre più addentro al loro modo di pensare, finché, dopo diverse ore, sentii come sente una formica.
Scoprii che il nemico era retto da un matriarcato incredibilmente coeso, il che spiegava la profonda insistenza e resistenza. Feci un ultimo sforzo, annullando ciò che restava del mio ego di umano, ed entrai ancor più in sintonia con il respiro del mondo. La mente alveare del nemico non ebbe più segreti: sentii l’abnegazione e l’assoluta fedeltà delle guerriere, l’affetto e la dedizione al lavoro delle operaie, la lussuria e la paura dei pochi maschi che sarebbero morti dopo avere assolto la loro funzione riproduttiva e infine la soddisfazione e la pazienza della Regina Madre, votata alla generazione ininterrotta di nuove larve, al sicuro, nei recessi del suo regno. Adesso conoscevo il nemico: potevamo dare inizio alla guerra vera e propria.
III
La guerra è l’impiego illimitato della forza bruta.
Carl von Clausewitz
Interno, Giorno.
Cucina.
Dopo aver distribuito ai miei luogotenenti del buon caffè e un giro di gallette, sedetti al tavolo e mostrai loro le armi, che il pomeriggio prima, ci erano state inviate dal dipartimento della Difesa. Congegni subdoli e molto letali.
Decantai ai miei uomini l’efficienza di quei mortiferi strumenti, meravigliandomi nel mio intimo di come la nostra intelligenza di specie ci avesse condotto lì dove eravamo. Sul pinnacolo della scala evolutiva. Dominatori incontrastati di tutto quello che abitava il nostro globo terracqueo. Secondo il Libro Sacro, eravamo stati messi alla catena di comando da Dio in persona. Sentii un brivido di orgoglio risalirmi lungo la schiena e terminare in un sorriso di compiacimento: quella non sarebbe stata una sporca guerra, no signori, quella sarebbe stata la conseguente applicazione del mandato divino.
Nel rispetto delle sacre leggi, invocai i vari Dei, il gran Consiglio abbracciava le più disparate religioni e i più variegati sentieri spirituali, e per finire, officiai un rito compensatorio, che consisteva nello spargere gli avanzi della sera prima sul terreno fuori di casa. Avrei nutrito altri esseri mentre ne sterminavo altri. Il ciclo della vita e della morte. La Vita che sacrifica alla Vita.
Infine ci apprestammo all’opera, erano le 9 a.m. ora locale.
Si era deciso di iniziare utilizzando l’inganno. Collocai alcune scatolette bianche nei punti più frequentati dal nemico.
I miei piccoli cavalli di Troia avrebbero attirato l’attenzione degli esploratori nemici, i quali avrebbero assaggiato la melassa all’interno, e chiamati i rinforzi, avrebbero banchettato in allegria portando il veleno fin dentro la colonia. La Difesa mi aveva garantito che in capo a sei giorni avremmo eliminato tutti.
E così attesi, li guardavo rimpinzarsi e tornare all’interno. Il secondo giorno accadde qualcosa di strano: fuori dalla tana, abbandonati sul pavimento, stavano i corpi dei nemici, ma il via vai proseguiva come sempre. Attesi alcuni giorni, notando con timore crescente, che gli insettini evitavano le scatolette. Quei pochi incauti che vi andavano, si ritrovavano il giorno successivo, di fronte l’ingresso della tana, morti: troppo pochi per un corretto sterminio. Consultai i luogotenenti: il nemico ci stava chiaramente sfidando, si faceva beffe di noi e non ci percepiva come una minaccia.
La mia natura scrupolosa m’imponeva di attendere il settimo giorno e così feci. Niente di rilevante accadde. La Regina, arrogante, continuava a mandare fuori le sue truppe.
L’ottavo giorno, selezionai dal nostro arsenale, il tubetto di mangime-veleno che assolveva la stessa funzione delle esche in scatola, con l’unica differenza che mi era stato venduto con la garanzia di una maggiore efficacia.
Sterminio assicurato. Soddisfatti o rimborsati.
Distribuii lungo il perimetro tante piccole gocce e attesi la mossa del nemico, acquattato sopra il divano. Le gocce di veleno, come manna venuta giù dal cielo, stimolarono la curiosità e l’avidità degli esploratori. Una mezz’ora dopo, tutte le gocce avevano alla loro circonferenza un soldato che si abbeverava. Tutti in cerchio a nutrirsi allegramente, io, nell’ombra, gongolavo.
—Nutritevi, piccoli amici, nutritevi.
Ritornai ai miei affari, fiducioso nella forza del composto chimico e per due ore buone dimenticai la guerra in corso. Quando andai alla latrina per svuotare la vescica, notai molte formiche ancora lì a nutrirsi, altre sembravano voler fare ritorno alla base. Tutte in uno stato di evidente stupore: si muovevano con difficoltà e impiegavano del tempo a ritrovare la strada di casa.
—Ottimo—pensai.
Il giorno dopo, di buona lena mi alzai e andai, per prima cosa, a controllare il campo. Rimasi colpito da quello che vidi: le gocce erano state arginate con dei minuscoli granelli di terriccio, tirato fuori dalla loro tana, e i corpi dei morti, giacevano anch’essi fuori, sparpagliati.
Fu in quel momento che il nostro morale vacillò. La guerra sarebbe stata più complessa del previsto. Tentai nuovamente di trarle in inganno con il mangime venefico ma con scarsi risultati: sembrava che apprendessero dai loro errori. Affascinante.
La rabbia montava, lentamente, dal fondo del mio stomaco. O noi, o loro.
Sentivo la mia impotenza di fronte all’enormità dell’impresa e presi la decisione di attendere ancora qualche giorno, sperando in un intervento divino. Nessuno apparve e i miei luogotenenti m’implorarono di prendere rapidamente una decisione e porre fine a tutto. Temporeggiai: un vero leader sa quando è il momento di ritirarsi e attendere che una buona idea venga in soccorso.
E così, solennemente, mi ritirai nel silenzio del mio tempio zen.
Chiusi gli occhi e attesi che la dea Intuizione venisse a farmi visita. Quel giorno la dea era sicuramente occupata altrove. Con mente zen, accolsi la frustrazione, non prima di avere bevuto una birra per accertarmi che non vi fosse una qualche verità nel fondo della bottiglia. Non era la giornata fortunata.
Avevamo perso la battaglia ma non la guerra.
I giorni seguenti, rinfocolai il mio odio e praticai l’omicidio sistematico di ogni esserino nero che incontravo. Mensola. Sbam! Morta. Fornello. Incursore malefico. Sbam! Morto. Pavimento. Gruppo di quattro. Raduno sedizioso. Stump, stump, stump. Morte, eheheh…
Mi dava una certa gioia, l’uso fisico del corpo per sopprimere l’altro; non quei mezzi ricercati e intellettuali, ma la buona e cara vecchia forza bruta.
Questo mezzo, però, aveva le sue controindicazioni: la mia attenzione era fagocitata dal nemico. Le giornate trascorrevano nella costante ricerca e nell’annullamento di singoli membri, o, quando ero più fortunato, di piccole unità, e sebbene questo mi desse un’immediata soddisfazione, quel lento stillicidio rischiava di turbare la mia già precaria salute mentale.
Fu questo a spingermi definitivamente a utilizzare l’arma segreta. Fino a quel momento mi ero rifiutato d’inondare di veleno casa, i tempi però erano cambiati e gli ultimi buoni propositi andati via, giù per la latrina.
Era ora di utilizzare il Baygon.
Ringraziai mentalmente i nuovi profeti della nostra era, gli scienziati, che si erano riuniti, in qualche laboratorio sconosciuto, per reinterpretare sacre formule chimiche e realizzare il composto foriero di morte, il gas che nell’eterna lotta contro le specie inferiori, faceva pendere la bilancia a nostro favore.
Andai nel ripostiglio e tirai fuori l’arma. Era la sacra reliquia tirata fuori dal tabernacolo, per dare forza alle truppe nella battaglia finale. Sentii un brivido risalire lungo la schiena. Tutt’intorno caldo e silenzio, come se il mondo presagisse ciò che stava per accadere.
Agitai la bomboletta e tolsi il tappo. Testai l’arma su un piccolo drappello intento a riportare una briciola di cibo, così, per gioco. Il sibilo riempì il silenzio. I fumi risalirono fino alle mie narici e più su fino al cervello. Odore acre. Odore di Bay…gon… nebbia, respiro ansimante, caldo. Bay…gon…
Sai…gon…
Amo l’odore del Baygon alla mattina. Ha il profumo della vittoria.
Morte. Distruzione. Tra i fumi, vedo i corpicini che rantolano sul pavimento prima di finire immobili.
Le Furie guidano i miei gesti mentre inserisco il beccuccio, da me modificato, nella fenditura, l’ingresso della loro tana.
—Casa, dolce casa, ahah…
Rido di un riso folle, disperato, esaltato dal gesto definitivo. Le gaso tutte. Mi sembra di sentirle urlare mentre il veleno inonda la tana e le assale, le rende furiose e spaventate e poi lentamente le priva della vita. Mors tua, vita mea.
Poi è tutto finito.
Abbiamo vinto.
IV
Il fatto che un massacro sia uno spettacolo orrendo deve farci prendere con maggior serietà la guerra, ma questo non fornisce una scusa per lasciar arrugginire le nostre spade nel nome dell’umanità. Presto o tardi qualcuno verrà con una spada affilata e ci staccherà le braccia.
Carl von Clausewitz
La mattina seguente mi svegliai, sentendomi leggero. Una volta in bagno, guardai in direzione della porta, nessun segno del nemico. Tutto taceva. La pace era tornata e con essa la serenità. Evacuare gli intestini non era stato mai così piacevole.
La sensazione, purtroppo, non durò molto.
Mentre in cucina bevevo un bicchiere d’acqua, sentii lo stomaco contrarsi. Un piccolo spasmo nel basso ventre, a sinistra. Guardai il sole pallido fuori e ascoltai il silenzio attorno, straniante. Il cuore batteva più velocemente. Tum, tum, tum. Mi sedetti sul divano e feci un paio di respiri. Poi, la consapevolezza del gesto compiuto il giorno prima risalì rapida dalle viscere e si palesò come un lampo nella notte.
L’orrore gridava Kurtz. L’orrore.
Avevo vinto, ma a che prezzo. Avevo imposto il mio volere e spalancato un abisso. E vi avevo scrutato dentro. L’orrore, ecco cos’era. Ero di nuovo solo ora, non avevo nessuno che mi facesse compagnia, nessuno contro cui inveire e a cui dare la colpa del mio astio e della mia frustrazione. I piccoli esseri erano stati sterminati, mandati nell’inferno delle formiche, dall’ira che avevano scatenato.
Allora capii che avevo sbagliato. Chinai il capo e piansi.
Avevo sfidato madre Natura. Lei, madre amorevole, non ha pietà di chi non rispetta le sue creature ed io ero stato irrispettoso e tracotante.
Madre, perdonami. Madre, sono stato cieco, ora vedo. Madre, non avevo capito, non avevo sentito il dolore e i tormenti che infliggevo ai tuoi figli.
Solamente ora, l’orrore del mio gesto è chiaro. Ogni anima di formica che ho mandato all’Ade era un pezzo della mia anima, della tua anima, o Madre. Il loro dolore era il mio dolore. La loro disperazione era anche la mia disperazione e con tutto questo sarò costretto a convivere.
Trascorsero i giorni.
Spesso la notte, il ricordo del mio vile atto mi artigliava lo stomaco, si palesava sotto forma d’incubi, terribili immagini di mostri simili a immense formiche, che mi perseguitavano. La pancia si contraeva appena sveglio.
Mi ripetevo che il tempo avrebbe guarito tutto, anche il ricordo degli orrori compiuti. E in effetti, col trascorrere del tempo, tutto si attutì e divenne ricordo sbiadito.
La pandemia, che si era abbattuta sul mondo esterno, sembrava ora sotto controllo. Si ricominciò a uscire, a passeggiare e potere vedere le persone per strada. Poi ci furono le birrette in compagnia e persino una cena con un po’ di amici. Eppure qualcosa non andava. Qualcosa continuava a mancare. Qualcuno.
I miei cari, piccoli nemici.
Mancavano a tal punto, che lasciai lì, a terra, vicino l’ingresso del bagno, alcune briciole di patatine, nella flebile speranza che qualcuno di loro fosse vivo e che venisse a prenderle. A lungo, guardai quei resti di patatine. Tutti i giorni saltavo già dal letto e grande era il mio sconforto ogni volta che le rivedevo lì, intonse.
Poi una mattina avvenne il miracolo.
Quale fu la mia gioia, quando una mattina, vidi un timido drappello di formichine intente a fare a pezzi i resti delle patatine e trasportarle dentro la tana!
Ballai lì, sulla soglia, mosso dalla gioia di essere forse scampato all’orrore e corsi in cucina a prendere un biscottino. Lo frantumai di fronte l’ingresso della tana. Mi fermai a guardare le operazioni di carico con l’animo rinfrancato e colmo di gratitudine. Avevo ancora qualcuno. Avevo ancora un fine. Non tutto era perduto.
Epilogo
Signore da’ forza al mio nemico e fallo vivere a lungo, affinché possa assistere al mio trionfo.
Napoleone Bonaparte
— Hey Zedy!
— Dimmi Fay.
— Hai visto quell’umano? Che tipo strambo…Prima ci vuole sterminare poi balla quando ci vede…
— Non dovresti meravigliarti tanto, Fay, sono una specie giovane, ancora in via di formazione… sempre che riescano a sopravvivere.
— Che vuoi dire Zedy?
— Beh, si vocifera che non ne abbiano per molto. Sono disorganizzati, non hanno coscienza collettiva, sempre concentrati su se stessi, non riescono a vedersi parte di un tutto. Guarda il tipo! Solo, parla con se stesso e sta sempre chiuso in casa a leggere libri! E poi, sono così avidi che normalmente non vogliono darci neanche le briciole. Anche mia zia e le cugine, quelle del vecchio casale, mi dicono la stessa cosa; deve essere proprio un difetto della loro specie. Dove vuoi che vadano?
— Zedy hai proprio ragione. Sai una cosa?
— Dimmi Fay.
— Spero tanto che quando saranno spacciati, qualcuno di loro ci vedrà marciare, trionfanti, sulle loro rovine, sarebbe una bella scena…
— Ahah ben detto Fay! Speriamo! Intanto andiamo a farci un po’ di zucchero! Alla nostra futura vittoria!
— Sì, alla nostra futura vittoria!
Luca di Quarto