Riduzionismi e cripto-negazionismi Cis e Trans Alpini

“Chiamala come vuoi… sempre cucuzza è”.
(Proverbio siciliano)
La fine del mondo non è più quella di una volta. Non è più lecito aspettarsi un esplosivo finale di fiamme e distruzione. Sia esso di matrice biblica o hollywoodiana. Ma non sarà neanche il flebile lamento di Eliot a congedarci. Il mondo è già finito nel momento in cui abbiamo permesso ai nostri schemi concettuali di distruggerlo.
L’Italia bis-pandemica ha fatto del negazionista il suo bersaglio preferito. Che sia il sottoprodotto dell’emarginazione, cannibalizzato da qualche programma televisivo di infimo gusto, oppure qualche demente che non ha niente di meglio da fare che seguire ambulanze, poco importa. Le epidemie tirano fuori il peggio o il meglio, e gli imbecilli ci sono sempre stati. L’indignazione stavolta serpeggia grazie alle nuove tecnologie che permettono di far pervenire ai diretti interessati valanghe di insulti. Ci si indigna un po’ troppo però. Soprattutto se si considera che questi sono tuttalpiù fenomeni da baraccone, meritevoli al massimo di un atteggiamento a metà fra il riso e la compassione.
Magari fossero loro il problema… una risata… e nei casi peggiori qualche denuncia per interruzione di pubblico servizio o qualche TSO. Il problema è altrove. I negazionisti duri e puri sono per lo più degli imbecilli e la loro manifesta imbecillità basta da sola a disinnescare le loro intenzioni. Molto più deprimenti sono quelli che chiamo riduzionisti, o cripto-negazionisti. Sono ovunque, sono molti di più, e a differenza dei balocchi del negazionismo da bar, essi sono istruiti, colti. Sono talvolta intellettuali affermati. Sono scrittori, saggisti, filosofi e firmano editoriali e tribune a ripetizione. Proprio per questo sono pericolosi. Anzi pericolosissimi. Sono la prova tangibile che anche la cultura più alta può diventare un perfido strumento per sublimare e rendere accettabili gli istinti più bassi dell’essere umano. Sono ovunque. Però questa pandemia ha rivelato che in Francia la loro diffusione e il loro seguito sono probabilmente più rilevanti che da noi.
Il primo esempio che mi viene in mente è Andre Comte-Sponville, filosofo, definito a torto (anzi a “tortissimo” come vedremo) materialista, umanista e razionalista e, fino al 2016, membro del Comitato Etico Transalpino. Era amico di Louis Althusser e ha avuto come insegnante Jacques Derrida. Il suo curriculum descrive un intellettuale completo e dal pensiero apparentemente accattivante. In un’intervista di maggio il “filosofo” conia l’ennesimo tragico e ridicolo neologismo dei nostri tempi: “pan-medicalismo” che egli definisce come “il tentativo di fare della salute (e non più della giustizia, dell’amore o della libertà) il valore supremo, il che equivale a conferire alla medicina, non soltanto la nostra salute, che è una cosa normale, ma la condotta delle nostre vite e delle nostre società”. Torniamo per un attimo ai puristi della negazione, facciamo finta di essere in mezzo ad una manifestazione in Texas, fra ciccioni armati e magliettine di Trump, oppure in mezzo a qualche più nostrano gilet arancione. In entrambi i casi sentiremo dire a minima che le mascherine non servono a nulla e che se ne ha abbastanza di queste dittature sanitarie che uccidono le nostre libertà individuali. E noi giù con le risate. Ora, un allievo di Derrida e un amico di Althusser parla, a maggio del 2020, durante una pandemia, di “pan-medicalismo”… Trovate le differenze. I primi ovviamente suscitano riso, compassione e talvolta disprezzo. Il secondo invece usa la sua erudizione e la sua intelligenza per sublimare e rendere intellettualmente accettabile la stessa identica cosa. E c’è di più. Egli non si limita a coniare una vera e propria stronzata, ma tira in ballo concetti come giustizia, amore e libertà, in modo intollerabilmente superficiale, approssimativo, astratto, creando dal nulla un’opposizione che non si capisce come e dove debba risiedere. Non c’è male per uno che si definisce materialista e razionalista. Che dire? In effetti non c’è niente di più materiale e razionale che tirare in ballo dei valori universali (in modo astratto e senza contesto) costruendo dal nulla un inesistente contrasto con la nostra assurda idea di voler combattere una pandemia che uccide le persone o ne pregiudica irrimediabilmente la salute.
Ma le differenze non finiscono qui. Gli attori del circo negazionista sono quasi sempre in buona fede. Alcuni dicono siano dementi, altri che siano pazzi, altri ancora invece parlano di una patologica forma di paura che si manifesta giustappunto in una sistematica negazione della realtà. Ad ogni modo si evince che nella maggior parte dei caso abbiamo a che fare con persone in buona fede le cui parole sono spesso dettate da un disagio sociale o economico (spesso entrambi). Il signor Sponville invece non è, e non può essere in buona fede. Se così fosse, allora dovremmo ammettere che anche gli imbecilli possono essere degli stimati e pluripremiati “filosofi”. Il che può anche essere. Però… certo… il dubbio resta. Anche perché il signor Sponville, nella stessa intervista, rincara la dose con un capolavoro che, ahimè, testimonierà ai posteri l’imbecillità dilagante della nostra epoca: “preferisco prendermi il Covid in una democrazia che non prenderlo affatto in una dittatura”. Ecco ancora che dal nulla si rinforza un’opposizione che dovrebbe farci ridere e che invece raccoglie adepti su adepti. Quella della dittatura sanitaria – ovvero la gratuita ed insensata associazione fra le misure di profilassi ed una forma di governo totalitaria – è uno dei temi forti del riduzionismo cripto-negazionista. Non occorrono sforzi particolari per smontare questo ragionamento eufemisticamente pindarico. Basta aprire un libro di storia. E a me viene difficile che uno del calibro di Sponville non lo abbia mai fatto.
Una qualsivoglia reazione istintuale ai propositi del “filosofo” è lecita. Anche perché in questi giorni non stiamo facendo agoni di pensiero. Stiamo contando i morti. E allora il solo dilemma sarebbe quello di capire cosa far provare per primo: le gioie della terapia intensiva o quelle di una vera dittatura? Non è semplice, poiché in entrambi i casi c’è il rischio che ci si rimetta le penne prima di aver completato il tour. È una reazione istintuale ed eccessiva. Siamo daccordo. Ma a novembre del 2020 ne dovremmo avere abbastanza di chi banalizza con tanta facilità e con tanta impunità la morte, la sofferenza, il dolore ed il sacrificio. Forse è meglio rispondere con l’ironia. Con una storia di fantascienza che racconta di come il mondo nel 2020 sia stato vittima di un gigantesco complotto, messo in atto da una categoria alla quale mai e poi mai avresti pensato: i medici. Noi poveri stupidi pensavamo al capitalismo, ai mali strutturali di un sistema basato sullo sfruttamento dell’uomo sull’uomo e dell’uomo sulla natura. Altri, senz’altro più illuminati, pensavano a sette, ad intrighi e a cose così. E invece no. Erano i medici. Per decenni tramarono alle nostre spalle preparando il complotto dei complotti. E finalmente, quando uno stupido virus para-influenzale fece la sua comparsa, essi colsero l’occasione per imporci il loro regime fatto di salute per tutti. Anzi, furono proprio loro a creare il virus per farne la via verso il potere assoluto. E allora guai ad avere la pressione alta o la gastrite… Ci voleva ben altro che una mela per toglierti di dosso questi piccoli Mengele senza pietà… Ben presto i poliziotti, oltre alle pistole ed i manganelli, furono dotati di termometri e sfigmomanometri… e chi non rispettava gli elevati standard di benessere veniva spedito in agghiaccianti campi di concentramento noti come “nosocomi” o peggio “case di cura”. Sui cancelli campeggiava una sola e terribile scritta: “la salute rende liberi”… Lo potremmo chiamare “il complotto dei camici bianchi”, e finirebbe con pene collettive a base di clisteri e lavande gastriche.
Fantasie letterarie a parte, sarebbe ingiusto attribuire al solo Sponville il peso di questo dilagante istinto anti-umano alla base della fine del mondo. Un altro argomento chiave del cripto-negazionismo francese è quello dell’ “infantilizzazione”. In Italia, per fortuna, non sembra che se ne sia parlato. In Francia, invece, è diventato un altro degli argomenti chiave, proprio a partire da mggio 2020. Ne hanno parlato attori, cineasti, opinionisti, intellettuali ed anche un signore chiamato Pierre Yves Geoffard che di mestiere fa l’economista nella prestigiosa École des Hautes Études en Sciences Sociales e che regolarmente scrive su Libération. L’11 maggio Geoffard sostiene che gli inviti istituzionali alla prudenza e al rispetto delle norme sanitarie siano degradanti poiché sottintendono che il popolo, nella sua grande saggezza, non ne abbia bisogno. Il motto dell’economista (e non solo) era questo: “occorre responsabilizzare e non infantilizzare”. Per Geoffard, dunque, dire “attenzione al deconfinamento perché se sbagliamo e ci lasciamo andare troppo il virus potrebbe tornare e allora saremo costretti a riconfinare” non sarebbe altro che il gioco del bastone della carota. Io stupidamente avrei pensato ad una semplice relazione di causa-effetto, ad una normalissima dinamica epidemica che è bene ricordare. Ma io non insegno all’EHESS. E così, invitare alla prudenza non è più una banale pratica di buonsenso, ma un modo per dirvi che siete tutti dei pargoli irresponsabili. Il paradosso non finisce qui. Se nella prima fase epidemica l’opinione pubblica transalpina accusava, a ragione, le istituzioni di aver fatto poco o nulla, adesso le si accusa di fare troppo. E quando a fine ottobre si arriva a 61.000 casi quotidiani, la colpa è solo ed esclusivamente di un governo che ancora una volta non ha saputo proteggere i propri cittadini.
Ammetto di essere spiazzato. Come direbbe qualcuno, “c’è qual quadra che non cosa”. A marzo il governo non fa nulla. Poi fa troppo e ci tratta da bambini. Poi le cose vanno di nuovo a puttane e allora tocca al governo e solo al governo fare uno sforzo affinché le mie libertà personali siano sempre e comunque preservate e affinché il mio amor proprio non venga offeso da insulti quali “evitate di assembrarvi”, “rinunciate alle orge e allo scambismo per qualche tempo”. Insomma, se non vengo responsabilizzato a dovere mi incazzo, se poi fallisco miseramente allora la colpa è tua che mi hai responsabilizzato. Se non è schizofrenia questa, poco ci manca. Ovviamente le cose sono assai più complicate. Nessun sano di mente assolverebbe le nostre istituzioni. La prima ondata ha messo in luce errori, sviste, improvvisazioni, ritardi ed omissioni anche criminali. Adesso sono passati nove mesi. Gli errori dei governi e delle istituzioni si sono riprodotti con le dovute aggravanti. Questo però è un argomento che merita un capitolo a parte. L’unica cosa che mi sembra sensato dire adesso è che i bilanci ed i processi saranno indispensabili. Ma quel tempo, purtroppo, deve ancora arrivare. La nave sta ancora affondando e prendersela, adesso, con l’armatore o con il capitano non tapperà le falle.
In Italia, come ho detto, non si è parlato propriamente di infantilizzazione. Tuttavia, persiste un’ambiguità per certi versi comparabile. Fare fronte ad un’epidemia implica necessariamente e senza compromessi un impegno che sia il più possibile collettivo. Esso parte dai vertici dei processi decisionali delle istituzioni per arrivare ai comportamenti più banali del singolo cittadino. Non è un’analisi né politica, né sociologica, né filosofica. È il frutto di una semplice constatazione materiale a proposito della natura biologica e non negoziabile di un virus e delle sue modalità di trasmissione e riproduzione. Abbiamo letto più e più volte frasi del tipo “non si possono incolpare le persone per essersi assembrate durante un aperitivo o per aver fatto delle feste senza nessuna precauzione”. Invece purtroppo si. E non è moralismo da bacchettoni. Si chiama biologia molecolare, virologia, epidemiologia. La colpa è anche di chi individualmente mette in atto comportamenti che sappiamo essere, oltre ogni dubbio, particolarmente favorevoli alla diffusione epidemica. Che poi questi non siano gli unici responsabili né i principali, è un’ovvietà. Occorre pero’ mettere un termine a questo inutile giochino che scarica responsabilità a destra e a sinistra. Se sei positivo e te ne vai in giro non c’è governo che tenga. A causa della sua natura biologica e dei suoi comportamenti, la lotta al virus si regge sulla complementarità fra azioni di governo e pratiche individuali. Nessuno dei due elementi, da solo, sarà mai sufficiente.
Per chiudere con Geoffard e l’infantilizzazione, segnalo un tragicomico scherzo del tempo. L’articolo, come ho detto, è di maggio e ci ha pensato dunque il tempo a sferzare efficacemente i propositi dell’economista, il quale aveva tirato in ballo a guisa di sommo esempio di civiltà e virtuosità pandemica il modello svedese. Sappiamo bene com’è andata a finire. Eccole le piccole gioie della realtà, la quale, come si vede, se ne infischia altamente dei nostri schemi concettuali e delle nostre buone maniere.
Si potrebbe andare avanti a lungo, ma preferisco fare una sintesi rapida prima di arrivare al nocciolo della questione. Ecco dunque i principali argomenti che tanto in Italia che in Francia ho riscontrato nella galassia del riduzionismo cripto-negazionista:
- Libertà di scelta: “voglio essere libero di decidere quali rischi correre”. Peccato che i medici non possano disporre di questa stessa libertà, né tantomeno di quella che gli consentirebbe di scegliere chi curare e chi no. E peccato che con un coronavirus questa pseudo-libertà comporti implicitamente la libertà di uccidere un indefinito numero di persone che hanno avuto la sfortuna di starti vicino.
- Libertà individuale “suprema lex”: “fanculo la pandemia, giustizia, amore e libertà valgono bene un’epidemia incontrollata”. No comment.
- Fatalismo: “tanto dobbiamo morire tutti”. Certamente, ma essendo ateo mi piacerebbe crepare il più tardi possibile e preferibilmente non da solo con un tubo in gola. Ma forse è chiedere troppo…
- Economia: “i danni economici del confinamento e delle restrizioni sono peggiori della malattia”. Falso. I danni ci sono e ci saranno ed occorre fare in modo di sostenere il più possibile le vittime economiche. Occorrono interventi pubblici importanti e radicali. Occorre rimettere in discussione alcuni (se non tutti) dei dogmi del capitalismo neo-liberale. Non occorrono invece dottorati in macro-economia per capire che lasciar correre un virus del genere produrrebbe a medio termine effetti incommensurabilmente nefasti e anche, forse, un vero e proprio collasso delle strutture sociali, economiche e politiche.
- Resilienza e adattamento: “Dobbiamo imparare a convivere con il virus. Non passerà così presto”. Giustissimo. Peccato che nell’attuale fine del mondo filosofica questa frase sia stata leggermente equivocata. Ecco che allora è il virus a doversi adattare a noi e a dovere scendere a patti con la nostra socialità. Come se una particella sub-cellulare potesse essere decostruita alla stregua di un testo letterario o filosofico.
In questa tragica apocalisse del pensiero, in questa palude fatta di nonsense e di sociopatia latente, sono ancora tanti i punti di interesse. Prima di concludere, occorre rivelare quella che indiscutibilmente mi pare essere una delle causa del disastro: il relativismo radicale decostruttivista che, da posizione esclusivamente filosofica, è divenuta parte integrante del nostro Zeitgeist, dello spirito intellettuale, cognitivo e sensibile del nostro tempo. Questo passaggio testimonia la vittoria assoluta, incontestabile e totale di quel fumoso progetto anti-umano e anti-filosofico chiamato “postmoderno”. Di postmoderno ormai non ne parla quasi più nessuno. Si direbbe che sia sparito nel nulla, svanito, evaporato, al di fuori delle attuali mode accademiche. Errore. Non è che non se ne parla più perché non esiste, ma al contrario, proprio perché quello che fu al tempo stesso un progetto di emancipazione, una moda accademico-culturale, o la “logica culturale del tardo capitalismo” (per dirla come Fredric Jameson), è diventato ormai talmente dominante e talmente diffuso da essere considerato il normale funzionamento del nostro ragionare. Il postmoderno predicava un’emancipazione attraverso la fine delle grandi narrazioni. Siamo arrivati al contrario alla fine del mondo.
Al di là dei paroloni e delle querelle squisitamente filosofiche (sulle quali non metto bocca), la questione non è così difficile da capire. Meglio di me, il passaggio che ha portato un dibattito filosofico a divenire una struttura del sentire e del pensare comune, l’aveva spiegato il filosofo Maurizio Ferraris nel suo Manifesto del Nuovo Realismo. “Il postmoderno ha trovato la sua piena realizzazione politica. Gli ultimi anni hanno infatti insegnato un’amara verità. E cioè che il primato delle interpretazioni sopra i fatti, il superamento del mito dell’oggettività si è compiuto, ma non ha avuto gli esiti emancipativi profetizzati dai professori”. Direi proprio di no. Era solo il 2012. Un remoto tempo, in cui gli imbecilli si limitavano a scrutare il cielo interrogandosi sulle scie di condensazione che controllano la nostra mente, piuttosto che inseguire ambulanze o aggredire infermieri. Erano bei tempi a pensarci bene. Ad ogni modo, non furono in pochi a ridire sulle parole di Ferraris. Si toccava un punto sensibile. Se il senso comune irrimediabilmente postmoderno poteva, al massimo, limitarsi a mettere sullo stesso piano Ferraris e Platinette, i pares delle accademie e dei milieu intellettuali “radicali”, da bravi sacerdoti della decostruzione e del relativismo, non la presero bene. Ma ecco un’altra gioia del tempo di cui avremmo fatto a meno. A distanza di otto anni non abbiamo bisogno di prove. Ancora una volta è bastata la realtà.
Le assurde macchinazioni intellettuali che nutrono il riduzionismo cripto-negazionista non sarebbero state né possibili, né tollerabili, senza il compimento di quel processo di distruzione della realtà, senza l’annullamento dei fatti a scapito di un insensato trionfo di opinioni ed interpretazioni. Come ricorda Ferraris, giusto per fare qualche altro esempio, l’esimio Baudrillard aveva detto che la prima guerra del Golfo si era svolta in uno spazio “non-euclideo”, mentre un altro filosofo come Bruno Latour, oggi in cerca di riscatto con l’Antropocene, aveva affermato che il faraone Ramsete II non poteva essere morto di tubercolosi poiché a quell’epoca non avevamo ancora scoperto questa malattia. Stando così le cose, ne deduco che se il povero medico cinese si fosse fatto gli affari suoi piuttosto che curiosare al microscopio, noi oggi saremmo freschi e pettinati contando i giorni che mancano al cenone e non i cadaveri. Si tratta ovviamente di una semplificazione in termini filosofici. Ed io non sono un filosofo, né ho tanto meno la pretesa di esserlo. Il problema è che la filosofia non è solo e soltanto quella delle accademie. Essa sta anche alla base di pratiche cognitive banali e quotidiane, essa influenza il comune buon senso, quello che ci permette di sviluppare opinioni e ragionamenti e dunque di mettere in atto pratiche e comportamenti oggi come non mai di importanza cruciale. E su questo mi sento più che titolato a parlare, con buona pace dei filologi del pensiero e delle “theory”.
Ma nel postmoderno c’è ben altro. Il primato delle opinioni sui fatti è solo uno degli strumenti che ha permesso ad alcuni soggetti di poter non soltanto formulare idee ai limiti dell’assurdo e talvolta del criminale, ma anche e soprattutto, di sublimarle intellettualmente e di farle passare per un’avanguardistica forma di emancipazione. Se un troglodita ignorante dice che le mascherine sono uno strumento di oppressione ci mettiamo a ridere. Se invece lo dice un signore che si chiama Giorgio Agamben… beh allora… Anche perché lui non lo dice in questi termini… lui parla di uno “strumento di controllo biopolitico” volto ad opprimere le masse, tirando in ballo un altro di quegli inconsapevoli padri del disastro contemporaneo: Michel Foucault (che probabilmente avrebbe cambiato mestiere se soltanto avesse immaginato lontanamente l’infausto destino intellettuale del suo pensiero). In sostanza lo sdoganamento su un piano collettivo ed inconsapevole del primato delle opinioni sui fatti fa si’ che si possa accettare serenamente l’idea secondo la quale i nostri schemi concettuali precedono la realtà. Non stupisce allora che anche la scienza venga ridotta ad una pura e semplice costruzione sociale e che dunque ci si possa permettere di “decostruire” un virus come se fosse un testo letterario. Ecco dunque che un parte non proprio trascurabile dell’opinione pubblica (soprattutto francese ma ovviamente non solo), spesso e volentieri istruita, accetta, e talvolta sposa con fervore, assurdità che sfidano il più elementare buon senso. Lo stesso Agamben, che fino a poco tempo fa si poteva definire filosofo, oltre ad aver “trasformato” un presidio medico in una “museruola biopolitica”, ha anche comparato le pratiche didattiche a distanza al fascismo, alla “barbarie tecnologica”. Come se ci facesse piacere… come se davvero ci fosse qualcuno che pensa di far ricorso a queste pratiche al di fuori di un’urgenza pandemica. Il frammento merita di essere trascritto per intero. Va letto e riletto senza mai perdere di vista un istante che è stato scritto da Agamben.
“I professori che accettano – come stanno facendo in massa – di sottoporsi alla nuova dittatura telematica e di tenere i loro corsi solamente on line sono il perfetto equivalente dei docenti universitari che nel 1931 giurarono fedeltà al regime fascista. Come avvenne allora, è probabile che solo quindici su mille rifiuteranno, ma certamente i loro nomi saranno ricordati accanto a quelli dei quindici docenti che non giurarono”.
Verrebbe voglia di credere ad un caso di demenza senile, la sola cosa che potrebbe spiegare questo inaccettabile stupro della storia e della realtà. Tutto questo per dire che anche in Italia siamo capaci di produrre inenarrabili stronzate e di spacciarle per “filosofia”. Un po’ come fece Pietro Manzoni con le sue deiezioni, inscatolate e rivendute al prezzo dell’oro con l’etichetta di “merda d’artista”. Dopo sessant’anni questi capolavori si vendono ancora. L’ultima pare sia stata acquistata per 275.000 euro. A me personalmente la merce non interessa.
Torniamo al nocciolo duro del cripto-negazionismo. Un altro pilastro degli argomenti atti a giustificare questa romantica brama di libertà e autodeterminazione si fonda su un uso capzioso e spesso anche fazioso di argomenti scientifici complessi ed in particolare delle statistiche e dei numeri che ci permettono di valutare la portata del virus. Proprio questi argomenti mi hanno spinto a parlare di riduzionismo. Si è creata dal nulla una vulgata che mette l’accento sul fatto che la mortalità sia bassa e che le forme gravi o letali siano un privilegio riservato agli anziani e/o a coloro i quali soffrono di patologie pregresse. “Perché dover distruggere la nostra economia, la nostra socialità, il nostro mondo per proteggere individui che tanto sono destinati a morire in breve tempo?”. Tralascio solo momentaneamente il problema etico-morale, poiché, prima ancora di arrivarci, questa è appunto una vulgata fondata su un uso strumentale e quanto meno miope delle conoscenze di cui disponiamo. Certamente la mortalità non è quella di malattie come ebola, peste o vaiolo. Tuttavia, a differenza di questi agenti patogeni, il Coronavirus è un virus nuovo di zecca e del quale disponiamo di appena dieci mesi di osservazione. Sappiamo poco. E quel poco che sappiamo non è incoraggiante. Oltretutto in questi dieci mesi la mortalità è stata osservata in un contesto di importanti restrizioni, di confinamenti e di enormi sforzi sanitari. Dovrebbe essere ovvio che la mortalità non è una caratteristica ontologica del virus, ma il risultato di una serie di fattori legati alla risposta sanitaria, alle cure e non in ultimo ai tentativi, maldestri o no, di contenere la sua diffusione. Per quanto riguarda invece le fasce più colpite, si ha la tendenza a qualificare come “trascurabile eccezione” ogni paziente che non rientri nello schema del vecchio e del malato. Peccato che queste eccezioni siano sempre più diffuse, al punto, forse di non essere più eccezioni. Mi pare ovvio che la parte maggioritaria dei decessi e delle forme più gravi colpisca i deboli e gli anziani. Ma le minoranze non sono “eccezioni”. Resta il fatto che le nostre conoscenze sul virus, seppur ancora in fieri, cominciano a dirci delle cose di cui dovremmo e dobbiamo avere paura. Si tratta della condizione di coloro i quali guariscono. E non si tratta solo di quelli che hanno avuto la sfortuna di visitare una terapia intensiva, ma anche e soprattutto di fenomenologie pauci-sintomatiche che non hanno bisogno di ricovero. Ecco che allora a poco a poco vengono fuori danni che influiscono anche pesantemente sulla qualità dei vita e sulla cui persistenza nel tempo sappiamo poco: difficoltà respiratorie, astenia, miocarditi, emicranie, problemi neurologici, ecc. Insomma, con tutti i condizionali del caso, esiste un rischio serio, concreto e documentato, che questa malattia possa pregiudicare la salute di milioni e milioni di individui.
Tornando in Francia, non sono pochi gli editoriali e le tribune che hanno di fatto ignorato tutti questi elementi oggettivi, ribadendo la favola di un virus che se la prende solo con i più deboli e che dunque sarebbe oggetto di un’insensata sopravvalutazione isterico-paranoica (sono termini che ho letto). Ma il meglio deve venire (me lo sono gelosamente conservato per il finale). Il 20 novembre, il sito internet del giornale Le Figaro propone un’intervista ad Alexandra Lavaignel-Lavastine a proposito del suo nuovo libro fresco fresco di stampa: La Déraison Sanitaire che potremmo tradurre in La Sragione sanitaria. Sottotitolo: Il Covid e il culto della vita sopra ogni cosa. L’articolo è riservato agli abbonati e così cerco di sapere di che si tratta altrove. Non è difficile. L’autrice è filosofia, storica delle idee, saggista, specialista dei totalitarismi e della storia intellettuale dell’Europa dell’Est. Si parte con la solita solfa cripto-negazionista che esclude ogni riferimento alla natura pandemica per concentrarsi sulla “paura della morte che ha ucciso tutto ciò cbe costituiva la vita collettiva: il lavoro, la famiglia, la cultura, la libertà”. Da qui in poi si apre un baratro fatto di sociopatia e disumanità elevate a posizione intellettuale. Che si tratti di un qualcosa che va oltre le semplici stronzate si capisce subito. L’autrice inventa una lettera che dal futuro lancia un impietoso j’accuse a noi pecore, a noi stolti che vivevamo nella stupida convinzione millenaria che un’epidemia va fermata.
“La volontà di proteggere la salute dei più anziani e dei più fragili (ecco nuovamente la grossolana e faziosa riduzione dell’epidemia a male dell’età) giustifica la compromissione dell’avvenire dei più giovani – ovvero il nostro – noi le prime vittime del cataclisma dovuto al vostro Grande confinamento, per non dire al vostro Grande Panico?”.
E giù, sempre più giù nell’abisso di quel sonno della ragione che mai come oggi genera mostri: “Questo strano rifiuto del tragico, come un umore metafisico fondamentale al lavoro di ogni tappa di questa pandemia, malgrado sia ben al di qua della riflessione cosciente, spiega più di ogni altro fattore il nostro fallimento iniziale di fronte alla catastrofe”.
Infine, una frase che da sola la dice lunga: “Non è che il motto “salviamo delle vite” ci ha collettivamente inebetito?”.
Non stupisce allora che in più occasioni la stampa transalpina abbia dedicato spazio – e la cosa è già di per sé grave – a coloro i quali hanno proposto di confinare solo i più deboli e i più anziani per permettere al resto di noi di vivere allegramente in compagnia di un nuovo virus. Il che, prima ancora che da un punto di vista etico, è un’assurdità scientifica. Sarebbe inutile e poi soprattutto quali sarebbero i criteri volti a stabilire chi internare e chi no? Come interpretare dunque questo “rifiuto del tragico”, questo “culto della vita sopra ogni cosa”? Sostanzialmente bisogna morire, bisogna arrendersi e lasciare che il virus faccia la sua strage. E poco importa che si muoia male, da soli, con un tubo in gola o nel cesso di un ospedale. Curare una malattia sconosciuta e misteriosa, contrastare un’epidemia dall’esito quanto mai incerto, diviene dunque una forma di accanimento terapeutico, un rifiuto del tragico o peggio un insensato desiderio di eternità che nasconde la non-accettazione della finitudine della condizione umana. Morire è dunque un diritto, anzi, un dovere. A confronto di questo il famoso tweet del presidente della Liguria Toti a proposito del ruolo degli anziani nello sforzo produttivo appare come una poco riuscita boutade. Se l’avesse fatto da queste parti gli avrebbero conferito probabilmente una laurea honoris causa.
Abbiamo sufficientemente spolpato l’osso del cripto-negazionismo intellettuale e negazionista. Quel che viene fuori è un ritratto agghiacciante che getta seri dubbi su una cospicua parte del mondo della cultura e del pensiero contemporanei. Siamo di fronte ad un nemico subdolo e infido tanto quanto il virus, e assai più diffuso di quel che si pensi. Siamo di fronte ad una gigantesca impostura intellettuale che attraverso capziose e faziose macchinazioni dialettiche riesce a sublimare e a nascondere il nichilismo, il disprezzo della vita umana, l’egoismo, l’individualismo, l’edonismo e non ultimo, l’anti-umanismo genocida che si cela inevitabilmente nello spirito neo-liberale e capitalista.
Ancor di più sconvolge la nonchalance con la quale si accetta che sia lecito affermare che i più deboli devono crepare e possibilmente in silenzio, ma soprattutto lontani dalle telecamere perché altrimenti si “terrorizza” il pubblico e si diffonde inutile panico. Quanto è curioso allora il ricorso all’espressione “dittatura sanitaria”… A me, personalmente, i propositi malsani del cripto-negazionismo riduzionista ricordano un altro tipo di dittatura, storicamente ben documentata, nella quale gli improduttivi venivano eliminati in silenzio e nella quale la cura degli altri era considerata un accanimento terapeutico contro natura. Le chiamavano “vite indegne di essere vissute”. E cosi’ qualcuno in Francia si meraviglia dell’accanimento terapeutico nelle residenze per anziani perché tanto sono già dei posti orribili a prescindere. Anziani alla fine dei loro giorni indegni di essere curati. Malati di cancro che hanno scelto il momento sbagliato per ammalarsi. Diabetici. Asmatici. Deboli di cuore. E anche quelli che stavano benissimo ma per i quali il destino aveva deciso così. Occorre che muoiano affinché si possano preservare la socialità e la libertà. Mi chiedo solo che tipo di socialità sia quella qui proposta. Così flebile e svilita da non poter sopravvivere a qualche mese di distanza materiale? E che dire poi di una libertà umiliata e ridotta ad un pura pratica di edonismo radicale e nichilista al punto da non potervi temporaneamente rinunciare? Nemmeno in nome di un’altra (e più alta forma) di libertà? Quella di vivere senza il timore di morire, di ammalarsi gravemente o di uccidere qualcuno. Il sacrificio, la rinuncia, lo sforzo collettivo, sono diventati un tabu, un arcaismo buonista e sconnesso che testimonia il buio dei nostri tempi malati.
Mi chiedo che fine abbia fatto un romanzo come La Peste. Lettura banale, scontata, quasi un obbligo per una persona mediamente istruita che pratica la lettura. Tutt’altra storia è comprenderne a fondo il significato che si trova proprio nell’esaltazione del sacrificio e dello sforzo collettivo. Difficile pensare che la stessa Francia di Camus sia la stessa che oggi presta il fianco a quello che abbiamo visto. Anche perché lo scrittore di Orano ci aveva visto giusto. C’era il sacrificio opposto all’egoismo, c’era la realtà opposta alla negazione. C’era la sintesi di una condizione umana messa alla prova da un evento che testimonia che la storia è fuor di dubbio un processo collettivo. “Nessuno aveva ancora accettato realmente la malattia. La maggior parte era sensibile soprattutto a ciò che infastidiva le loro abitudini o intaccava i loro interessi. Erano infastiditi o irritati e questi qui non sono sentimenti che si possano opporre alla peste”. Pensare di potersi opporre ad un disastro globale con un ostinato e sublimato diniego o peggio esaltando l’individualismo menefreghista è un importante passo verso la tragedia totale, verso l’estinzione.
Tutti questi sono anche gli effetti del relativismo estremista e radicale, di un decostruzionismo demente che, al di là delle sue buone intenzioni di partenza, ha fornito gli strumenti intellettuali per sublimare le più basse pulsioni istintuali dell’essere umano. Ecco che succede quando vengono meno le basi del materialismo e del realismo, anche nelle loro forme più deboli e primordiali, quelle che stanno alla base del semplice buon senso e della logica. Ma, per riferirmi ad una discussione avuta con Matteo Meschiari, il paradosso sta nel fatto che il venir meno della realtà conduce alla morte dell’immaginazione, strumento indispensabile per apprendere la realtà non come una situazione fissa ed immutabile, come un eterno presente, ma come un tempo gravido di scenari e situazioni che fino a poco tempo fa reputavamo essere un’esclusività della fiction. Sono venute meno dunque quelle categorie cognitive che ci permettono di pensare l’urgenza della catastrofe, la sua eccezionalità, il suo carattere di rottura. E per capire cosa voglio dire, chiedetevi solo cosa succederebbe da qui a pochi mesi se, in nome di quanto portato avanti dai cripto-negazionisti, si lasciasse correre libero questo virus. Potrebbe essere un esercizio estremamente produttivo e pedagogicamente rilevante.
Per finire dunque, il mondo, quello di noi esseri umani, non finisce né con un’esplosione, né con un gemito. Finisce semplicemente con il silenzio provocato dall’incapacità di pensarlo. Oggi, a novembre 2020, un manipolo di intellettuali, scrittori, opinionisti, filosofi, ecc., professa con vigore idee e pratiche le quali, seppur in modo incommensurabile, trovano un seguito. E queste pratiche costano vite umane. Costano sofferenza e dolore. Temo che anche per essi arriverà il giorno in cui, nel loro dorato castello di Prospero, in quell’illusorio e festante rifugio, la realtà presenti loro il conto. E allora, per dirla come Edgar Allan Poe, “la vita dell’orologio d’ebano si spegnerà con quella dell’ultimo di quei personaggi festanti. Le fiamme dei treppiedi spireranno. E le tenebre, la rovina e la Morte rossa stenderanno su tutte le cose il loro dominio sconfinato”.
State attenti dunque, perché questo è l’avvenire che vogliono venderci.
Riferimenti:
https://www.liberation.fr/debats/2020/05/11/un-deconfinement-toujours-infantilisant_1788055
https://www.lefigaro.fr/actualite-france/philosopher-contre-le-confinement-20201104
Bibliografia:
Jameson, Fredric, Il postmoderno, o la logica culturale del tardo capitalismo, trad. Stefano Velotti, Garzanti, Milano 1989.
Ferraris, Maurizio, Manifesto del Nuovo Realismo, Bari, Laterza, 2012.
L’ha ripubblicato su Downtobaker.
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