ESSERE BUONI ANTENATI

Nell’Australia di oggi esiste una forma di rispetto verso i popoli indigeni, o Prime Nazioni, chiamata Acknowledgement of Country. Tradurre questa espressione è controverso, ma utile a comprendere. Il ‘riconoscimento del luogo,’ direi in italiano. La parola ‘Country’ ha un significato particolare per gli aborigeni australiani e riguarda l’intreccio di relazioni tra le persone ed il luogo in cui abitano. Ciò che il luogo dona all’individuo, alla comunità; ciò che questi donano al luogo. Un Acknowledgement of Country può essere spiegato come una dichiarazione di riconoscimento del luogo in cui ci si trova a vivere. Della terra, dell’acqua e degli esseri nonumani che contribuiscono a dare identità, senso e scopo alla vita di chi parla. Lo può pronunciare chiunque, indigeni e non, all’apertura di eventi ed incontri pubblici di vario genere – diversamente dal Welcome to Country, riservato esclusivamente a un Elder del luogo in cui si tiene la cerimonia.

L’Acknowledgement, come tutto, è sia pregiato sia criticato. Troppo spesso affermato con poco sentimento e in maniera distratta, se incorporato come sincera pratica di reconciliation (nel contesto australiano, la parola significa la facilitazione di relazioni tra persone indigene ed il resto degli australiani o aspiranti ad esserlo) diventa momento di riflessione ed empatia. La Reconciliation non è, o non dovrebbe essere, solo affare pubblico e istituzionale, ma pratica di connessione intima da sentire come meglio si crede o si può. Un viaggio di riappacificazione con i popoli indigeni, sovrani dei molti luoghi co-creati in quello che oggi chiamiamo Australia. Da straniera con un visto temporaneo potrei quasi lasciar correre. Non è mica obbligatorio, riconciliarsi. Non è che ci sia un obiettivo da raggiungere. Si tratta di un processo dinamico che sicuramente non finisce all’interno della mia vita. Eppure c’è qualcosa di ineludibile che sento dentro da quando cerco di comprendere la parola ‘collettività’ in maniera più ampia. La sensazione che se io esisto qui adesso a Brisbane / Meanjin (nella lingua Turrbal) lo devo a migliaia di sovrapposizioni spazio temporali, a migliaia di vite che hanno dato la morte che ha dato la vita. Vite che non so, non conosco e non conoscerò, non saprò. Oppure sì, magari le posso percepire.

Uno dei miei modi preferiti per coltivare la connessione con il luogo che mi sta ospitando è scoprire le storie di aborigeni australiani impegnati a trasmettere le loro culture alle generazioni presenti e future. Dentro questo tentativo relazionale, ieri ho visto il documentario Wash my Soul in the River’s Flow (diretto da Philippa Bateman, 2021). Un film concerto che documenta la collaborazione dei cantautori aborigeni Ruby Hunter e Archie Roach con l’Australian Art Orchestra, per creare Kura Tungar – Songs from the River: A musical journey through love and country. Il documentario ha una grossa componente dietro le scene, alternando la performance dal vivo con le prove in studio. Ad intercalare ulteriormente, spezzoni di interviste ai due artisti; vecchie fotografie; ed un’altrettanto grande componente meditativa espressa dai filmati contenenti fiumi, alberi, cieli, pellicani, albe e tramonti, lune, e ancora acqua. Il tutto sincronizzato coi ritmi della musica, delle voci. Il tutto legato come i nodi di una rete da alcune frasi di Hunter e Roach, che ogni tanto aggiungono spazio, apparendo sovrascritte su immagini liquide d’acqua macchiata di colore in diluizione. La composizione delle immagini in movimento con le scritte trasmette un collage audiovisivo della vita condivisa dei due cantautori, dal personale al pubblico e viceversa. Dalla loro storia d’amore che li salvò dall’esistenza senzatetto, alla casa che il loro amore per la musica ha donato a tanti, indigeni e non, mentre i due lo donavano a sé stessi. Alleviare il dolore, il trauma degli altri per mitigare il proprio. L’esperienza personale che si estende oltre i confini della propria persona per infiltrarsi nei territori altrui, in segno di continuità, come farebbe l’acqua. La personale connessione con un fiume in particolare, il Murray / Millewa (nella lingua Ngarrindjeri) – il più lungo d’Australia, o “una metafora della nostra relazione con gli aborigeni australiani” a detta del compositore Paul Grabowsky –, per invitare a nutrire la relazione con l’acqua. Dice Roach, ad un certo punto nella sua canzone Into the Bloodstream, “il fiume è come le mie vene.” Lo scorrere del sangue come quello dell’acqua. Se le pulsazioni dovessero tramontare, canta lui, è meglio pregare che venga la pioggia. Il linguaggio per esprimere il continuo, ché se c’è speranza per il fiume, c’è speranza per gli umani. Il Murray River, quello da cui Ruby Hunter fu sottratta all’età di otto anni, rubata alla sua famiglia che viveva alla bocca del fiume nella regione del Coorong per essere data in affidamento ad una famiglia bianca, sta essendo progressivamente svuotato soprattutto per soddisfare pratiche massicce d’irrigazione. Specie minacciate d’estinzione, acqua che non scorre, che non piove, branchi d’alghe tossiche, massacri di pesci. Ripple effect lo chiamano qui. Reazione a catena, ma ‘ripple’ vuol dire ‘increspatura’ e mi sa che per adesso scelgo quest’espressione. La catena mi fa pensare a qualcosa di legato, e sì lo è, tutto interconnesso, ma io vorrei mettere in evidenza la rottura. L’increspatura di un’onda. Un’onda che si rompe su uno scoglio, che si rompe in uno scontro. Non so cosa sia meglio. C’è una rottura nelle relazioni che continuano rotte. Vite che hanno dato la morte che ha dato la vita. Ma arriva il limite. C’è solo una data quantità di spazio che si può penetrare, sovrapporre, infiltrare, trattenere, sotterrare. Dice Hunter, ad un certo punto della sua canzone Ngarrindjeri Woman, “quando ci hanno portati tutti via, pregarono che non vagassimo.” Il vagare delle persone come quello dell’acqua. Pregarono sulla nostra terra madre, canta lei, mentre eravamo rinchiusi.

Seduta sulla poltrona del cinema, sulla loro terra madre, ho pensato anche al documentario visto un paio di giorni prima, RIVER (diretto da Jennifer Peedom, 2021). Come il precedente Mountain (2017), è stato scritto assieme allo scrittore Robert Macfarlane e narrato dall’attore Willem Defoe in collaborazione con l’Australian Chamber Orchestra. Un documentario ambientale, ed un’immersione musico sensoriale, per riflettere sulla relazione degli umani con le arterie del pianeta. Al momento della scelta dei film per il mio multipass al Brisbane International Film Festival, non avevo notato le corrispondenze. Poi ieri, un paio d’ore dopo la visione di Wash my Soul in the River’s Flow, ho visto Atlantide (diretto da Yuri Ancarani, 2021). Lì, tra le diramazioni della laguna veneziana ho percepito che l’acqua è una delle relazioni attraverso cui cerco riconciliazione. L’acqua da cui vengo che si versa nell’acqua che mi accoglie, cambiando. L’acqua da preservare, ché se c’è speranza per lei, c’è speranza per noi. Io, te, gli altri, quelli che verranno, quelli che son già passati. Ovunque. Né la laguna, né i fiumi sono i paesaggi del mio cuore, ma la collettività è ben altro.

Copio la domanda finale che pone RIVER, “Are we being good ancestors?” e la incollo vicino all’Acknowledgement of Country, per trovare altre connessioni.

Giulia Lepori

1 Riferimento a una domanda tratta dal documentario RIVER (2021).

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