Grado zero. Zerocalcare e immaginario

Oltre che innegabile, il successo di Zerocalcare è fuori scala. Parlano chiaro le ore di coda per un disegno e un autografo sui suoi volumi alle fiere: in Italia si parla di fumetti, e poi si parla di Zerocalcare. In termini di vendite, due sport diversi. Non inferiore è il successo della serie animata, Strappare lungo i bordi, trasmessa da Netflix, anzi, non mi stupirei se superasse pure i numeri dei libri pubblicati da Bao Publishing. La serie è fedele alla controparte a fumetti: una medaglia olimpica in pippe mentali acrobatiche derivativa e scontata. Strappare lungo i bordi pesca a piene mani in quell’immaginario che ha formato i Gen-Xers e i Millennials, pescando soluzioni narrative dal calderone di serie animate che anni fa hanno raccontato la realtà quotidiana delle generazioni di cui sopra, da Daria ai primi Griffin. Senza dire un cazzo di nuovo. La classica carrellata che parte sotto il livello del manto stradale e ti mostra che sotto terra ci sono sepolte le peggio cose, le gag sulla differenza fra il bagno degli uomini e il bagno delle donne, cose mai viste, vero? Il punto è che Zerocalcare è tutto qui: rimesta nelle coordinate mentali di generazioni accartocciate su sé stesse, che si guardano l’ombelico senza vere e proprie coordinate, e senza costruirsene per conto proprio, offrendo loro una comfort zone in cui riconoscersi e identificarsi. Zerocalcare è la voce di una fetta della popolazione italiana rinchiusa nella propria cameretta psichica a sfondarsi di pippe mentali, che vive un’adolescenza prolungata riavvolgendo e riguardando di continuo la VHS con le puntate dei propri cartoni animati preferiti.

Uno può anche pensare: che c’è di male. Ora, chiariamo che Zerocalcare fa il suo. Vende il suo prodotto, porta il pane in tavola senza fottere nessuno. Quantomeno finché non si mette a far graphic journalism, lì quel suo modo di raccontare storie ostinatamente egoriferito riesce a farmi girare i coglioni ma è una parentesi a parte (che ho trattato qui: https://www.nocturno.it/fumetti/kobane-calling/ ). E ci mancherebbe, il problema non è Zerocalcare come persona. Il problema è Zerocalcare come icona. Due generazioni almeno che hanno eletto un artista che fonda la sua poetica sul guardarsi l’ombelico, sul non uscire da quella manciata di coordinate mentali ultraleggere ma confortanti su cui si è costruito il proprio pensiero e su quello pseudo cinismo smartass in salsa romanaccia, sono due generazioni che hanno un problema. Poi, certo, da un certo punto di vista scegliersi come referente culturale Zerocalcare è semplice, perché comunque se lo leggi non ti fa sentire ignorante ma al tempo stesso ti dispensa dal misurarti con ragionamenti complessi, è sdoganato dal pubblico “pensante” ma non ti costringe ad alzare l’asticella. E, per inciso, sta dalla parte giusta. Lo dico da persona di estrema sinistra: se Zerocalcare fosse stato non dico leghista, ma anche solo un liberale apertamente di destra, tutte quelle copie le avrebbe vendute col cazzo, meno che mai avrebbe fatto il botto con una serie animata.

Per quello il successo fuori scala di Zerocalcare mi dice che abbiamo un problema. Perché oramai pensare non serve, basta definirsi pensanti e per farlo basta avere i referenti culturali giusti, quelli che t’identificano come persona di un certo genere, ma che se poi vai a guardarci dentro alla fine parlano alla pancia, non hanno alla base un pensiero strutturato e ben si guardano dal costruirlo. Sono un comfort food psichico tanto comodo quanto sterile in termini di strumenti, immagini e narrazioni magari impegnative ma pensate per ficcare le mani nella complessità del reale e fare uno sforzo interpretativo. E se è questo che cerchi, se per te il massimo della vita è questo, se per questo ti fai le ore di coda per un autografo e lo aspetti con la salivazione aumentata a pochi giorni dall’uscita del nuovo libro o della serie animata, abbiamo un problema. Vuol dire che quella cameretta psichica è diventata la stanza di un metaforico hikikomori, che a forza di pippe è diventato cieco.

Stefano Tevini

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