Lo diciamo subito. Non si tratta di un pezzo su scienza e magia. Non nel senso più alto della vexata quaestio, perché scriverlo, come leggerlo, richiederebbe competenze che il 99% della bolla, noi inclusi, non ha. Ci vorrebbe insomma molta epistemologia e molta antropologia, e ahimè nel mondo del pensiero serio non basta sciorinare bibliografie competenti o postare foto di libri colti o citare De Martino o Tolkien per reimpostare la questione e mettere a tacere gli incolti. Gianni Scalia disse un giorno con sarcasmo che alcuni suoi studenti credevano di aver studiato un libro universitario nel momento stesso in cui ne avevano fatto la fotocopia, ed ecco, la bolla funziona esattamente così, si limita a mostrare i muscoli di una libreria (troppo spesso virtuale) senza fare l’unica cosa che serve, cioè offrire agli altri delle idee nuove, quelle che ci piace chiamare “paradigmi operativi”. Perché la bolla non abbia le competenze richieste per parlare di scienza vs magia, scienza e magia, scienza magica e magia scientifica, non può essere spiegato evocando banalmente lo spettro dell’ignoranza scientifica dell’italiano medio-colto o la tendenza davvero molto italiana alla superstizione più sempliciotta o l’esclusivismo culturale tutto italiano che fa i conti solo con la tradizione occidentale. Questa analisi vertiginosa la lasciamo ai brillanti sociologi laureati su Facebook. Quello che ci interessa fare qui è scrivere da una prospettiva antropologica calda di una sottocultura molto pop che si crede colta e che si perde in un presepe di fuffa. La nostra sottocultura, insomma, quella con cui dialoghiamo e che contribuiamo a nutrire quasi quotidianamente da almeno un lustro.
Questa sottocultura ha un nome, è L’Eterno Divulghismo Brillante, e consiste nell’illusione collettiva che i social, con tutti i loro limiti, siano comunque un luogo in cui stare comodamente o obtorto collo pur di far passare qualcosa di quella cultura alta di cui tutti, nessuno escluso, si sente depositario. Un grande inganno collettivo, o un patto sociale perverso, di cui ciascuno si lamenta almeno un po’ continuando a usare il medium e accettando un sistema di codici comunicativi che modificano inevitabilmente il messaggio. The ghost in the machine… Ma no, non stiamo parlando di quella cacata ecumenica e passivo-aggressiva che viene chiamata netiquette, e non parliamo nemmeno dei piagnistei noiosetti nel constatare che oh c’è tanta violenza qui tra noi e allora andate a casa e dite ai vostri bambini che il papa gli manda una Beretta. Non stiamo parlando neanche delle metafore della colpa, quelle della guerra accostate alla sana polemica alta pur di disinnescarla, al sarcasmo intelligente, a quello che a Palermo si chiama babbìo, cioè il prendere per i fondelli sfottendo un po’, come abbiamo appena fatto qui sopra e come facciamo sui social abbastanza spesso. Faida? Risatina? Vigliaccheria? Mah, se a qualcuno questa cosa sembra un fare guerresco, vigliacco e squallido come i risolini dall’ultimo banco, noi pensiamo invece che sia una non semplice ritualizzazione del conflitto, che è molto più dignitosa di tanta presunta franchezza un po’ macho (“allora taggami se hai fegato”) e che a nostro sentire è solo coda di paglia e incapacità di gestire, sempre ritualmente, la polemica. Ma arriviamo al sodo. Perché non stiamo parlando neanche di questo esiziale metadiscorso su come dovremmo gestire il discorso.
Il punto è che mentre la bolla crede di parlare di massimi sistemi e si impantana invece in un citazionismo abbastanza ignorante e soprattutto sterile, si strugge in disquisizioni soteriologiche su dialettica e inclusione, moraleggia sulla pagliuzza e sulla trave nell’occhio, stiamo perdendo l’unico tempo prezioso che ci resta. Prezioso proprio in senso storico e di specie. Perché questi anestetici verbali all’emergenza, questo rimandare la discussione sul collasso tra astrologi, sibille, tarocchi, funghetti e streghette dei boschi, questa tiratina d’orecchie alla scienza da parte dei grandi maestri dell’olismo, questo lisergico non fare in pratica un cazzo tranne occuparsi della propria carriera di scrittori, questo paternalismo di alcuni scienziati-umanisti che non sono andati più in là di un PhD a Garbatella, sono crimini contro la consapevolezza di specie, che si gioca ora o mai più. Consapevolezza, se ancora non si è capito, del fatto che Homo sapiens si sta giocando le ultime occasioni per produrre un pensiero che salvi il culo a tutti, o che almeno lo salvi ai nostri figli e a quelli altrui. Ci rendiamo conto che il discorso potrebbe sembrare solo appassionato e molto poco antropologico, ma l’antropologia c’entra eccome, perché è pur sempre quella pratica dello sguardo da vicino e da lontano che alla bolla manca quasi completamente. Quello da lontano, certo, perché da vicino si stanno tutti annusando il culo.
La morale del discorso sarebbe semplice se presunzione e permaloseria non fossero il pantone monocromo in queste chiamiamole “discussioni serie”. La morale è che se non produciamo idee, se le nostre analisi sono scariche e anemiche, se crediamo di pensare duro e leggere durissimo ma emettiamo solo un pensiero flebile e fischiante che riempie la vanvera, non dobbiamo poi lamentarci se qualcuno ci sfotte (anziché massacrarci), non possiamo prenderci tanto sul serio da credere di essere in zona salva, non possiamo sperare di surfare la cresta del piccolo potere per sempre. Da un lato quindi c’è il Cosmologo, che tenta di inventare (invenio) un modello copernicano tra tanti filosofi tolemaici di serie B, dall’altro c’è il Ciarlatano che pretende di gestire la macchina culturale a suon di approssimazioni, vaghezze, atmosfere, clientele, reti, marchette aristocratiche, fuffa. E nel frattempo abbiamo un grave dispendio energetico con Raimo che usa il termine “animismo” in prospettiva solo occidentale, Lipperini che usa il termine “scientismo” come un faux ami tematico di “Illuminismo”, le combriccole interessate che dicono “signoramia”, i filosofi (sempre di serie B) che fanno salti mortali per difendere un Agamben o un Bifo o un Wu Ming (che in quest’anno e mezzo hanno tutti pestato delle merde colossali), e infine i volenterosi che ci si mettono d’impegno ma in buona sostanza nei loro commenti ai post non dicono proprio una minchia.
Proposta: ma quale arturiana tavola rotonda, ma quale ottimismo delle intelligenze moderate e pacate e tanti bacini felici… Qui l’unica guerra reale al di là di chiacchiere e delle belle architetture da rivista notturna on line è la guerra con un Megapredatore venuto dal futuro, quello che nessuno vuole vedere, che nessuno sa prendere sul serio, proprio come il meteorite di Don’t Look Up, che almeno ha il merito di smascherare il circo e di dare dei cretini e dei buffoni a una classe di cretini buffoni che danzano sull’orlo del Nulla. La proposta è: mettiamoci invece a pensare seriamente, vediamo di tirare fuori dei paradigmi operativi, delle idee concretissime per far sì che la cultura cosiddetta umanistica non perda il treno nel dare un contributo certo a un progetto di salvezza collettiva. Oddio, sì, potete poi continuare con ogni diritto garantito da 10.000 costituzioni a scrivere di qualsivoglia cosa, ad alimentare escapismo e negazione del trauma, a soffiare sulle braci bagnate di una carriera-sogno in cui lo scrittore si guadagna da vivere solo scrivendo, ma non lamentatevi se poi Brancaleone a Bisanzio si diverte a perculare Teofilatto. Non siete voi che odiamo, comunque, odiamo il tempo che fugge.
Meschiari & Vena
L’ha ripubblicato su Downtobaker.
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Fantastico ma plausibile. E nessuno se ne accorge. È proprio così.
Forse occorrerebbe dire di cosa occorra accorgersi.
Sistematizzazione delle evidenze: alla spicciolata potrebbero sembrare follie.
Forse si tratta di vedere l’anatra fuori della bottiglia…
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Una riflessione sui paradigmi:
https://hamonveg.blogspot.com/2021/12/il-paradigma-dellinadeguatezza.html?m=1
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