Gli Anelli del Potere, S01 E01-02

Usciamo dal commento mainstream.

Il punto non è se ci troviamo in presenza o meno di un prodotto di consumo (lo è). Il punto non è se i testi di Tolkien siano stati ripetutamente, vertiginosamente traditi (lo sono stati). E il punto non è se l’immaginario un po’ cheesy di Peter Jackson sia stato condizionante o, al contrario, sia stato riveduto e corretto perché troppo “post-apocalittico” (è totalmente anodino). Il punto è capire perché, a quasi mezzo secolo dalla morte di Tolkien, il calderone di racconti che lui ha predisposto dedicandogli una vita intera sia oggi produttivo di nuove storie, di nuove varianti, di nuovi immaginari. Perché l’essenziale su cui riflettere, qui, è che proprio come sono esistite tradizioni celtiche e germaniche, come è esistita una materia di Francia e una di Bretagna, la nostra epoca possiede una “materia tolkieniana”, cioè un corpus di temi geograficamente radicati che sono generativi in via indipendente dal loro autore, un repertorio potenziale da usare e reinventare, un legendarium disponibile per chi, con mente creativa, si serve in varia misura di un mondo altrui ma, fedele al principio di subcreazione, lo completa, lo esplora narrativamente, lo sviluppa in direzioni inedite. Sarebbe dunque molto bello se lo spettatore si lasciasse alle spalle i mille disagi che questa serie Amazon propone ai puristi, sarebbe bello se non si lasciasse invischiare da setting caramellosi, da macchiette troppo simpatiche, da interpretazioni fumettistiche del concetto di epopea, da un’idea davvero urtante di favola, ma si concentrasse sulla matrice generativa-trasformazionale della geostoria tolkieniana, dimenticando per un momento il testo che l’ha cristallizzata. Perché, in questo senso, AdP è una prova inconfutabile del fatto che la mitopoiesi della Terra di Mezzo funziona. Per chi poi fa della scrittura e dell’immaginazione fantastica una vocazione letteraria è il piano narratologico che dovrebbe catalizzare l’attenzione e la pulsione al commento. Invece, ad esempio, di fare gossip sulla “nuova” Galadriel e il “nuovo” Elrond, sarebbe utile vedere in che direzione si muove la costruzione dell’eroe. Nella scena in cui la tormentata fanciulla torna a nuoto verso il proprio dovere, non sarebbe esagerato riconoscere l’ipotesto del Beowulf, quando nelle primissime parti del poema il giovane eroe dei Geati lotta nella tempesta contro i mostri marini. Nella tenzone un po’ grottesca tra Durin ed Elrond sarebbe onesto leggere in filigrana il motivo leggendario della sfida rituale come pratica di esorcismo culturale della violenza, recuperando e comparando gli esempi classici e medievali. Nell’amore senza corpi tra l’elfo Arondir e la mortale Bronwyn sarebbe stimolante non limitarsi a leggere la metafora, molto trita, della difficoltà interetnica, ma l’antropologia della parentela e l’avventura esogamica. Ovviamente, sarebbe sbagliato immaginare uno think tank di scenaristi così colti, così sul pezzo, così votati a una stratigrafia narrativa. Probabilmente non hanno nemmeno le competenze filologiche per capire i vettori che hanno spinto Tolkien a reinventare una tradizione. Se insomma nella marcia di Galadriel nelle lande desolate a Nord si può riconoscere il riuso visuale di Caspar David Friedrich, Il mare di ghiaccio detto anche Il naufragio della speranza (1823), non possiamo però pretendere molto più di così. Ma il punto è proprio questo: non c’è bisogno di sapere tutto di un’apparecchiatura complessa per poterla usare correttamente. Esiste cioè una proprietà “vischiosa” della macchina immaginativa che non ha bisogno di preparazione consapevole, di competenza professionale, di un rapporto di verità tra fonte ed evoluzione. Se allora vogliamo commentare seriamente, cioè se vogliamo uscire dal descrittivo per andare nel potenziale, sta a noi individuare un sostrato narratologico possibile di AdP, sostrato che molto probabilmente non è mai entrato nella testa di un regista o di uno sviluppatore. Questo significa cercare un reagente, un catalizzatore, un colorante che illustri una direzione, non una genesi della subcreazione. Detto altrimenti, questa serie non è l’oggetto finale e finito ma, a sua volta, un motore. Piuttosto, la domanda che può liberarci dalla prigione dell’intrattenimento e della polemica di superficie è “in che modo AdP ci parla del presente?”, oppure “quale idea di presente ci propone?”. A un certo punto, Galadriel dice a Elrond: “Il male non dorme, è in attesa, e nel momento del nostro compiacimento ci appanna la vista”. Come può cadere una frase del genere nell’immaginario collettivo dopo due anni di pandemia, in piena crisi climatica, in un momento storico dove saper leggere i segni può fare la differenza tra la salvezza e l’abisso? L’ostinazione cupa di Galadriel e lo scetticismo negazionista di chi la circonda sono così sintonizzati sulle nostre ansie contemporanee che l’equazione Sauron-Antropocene non è del tutto peregrina. Perché Tolkien possiamo leggerlo come un rifugio escapista, una locanda per continuare a non vedere, ma poi sappiamo molto bene che per lui le Grandi Guerre sono state uno scenario fondante. Possiamo immergerci in una serie TV dai colori ipersaturi per alleviare la monotonia claustrofobica della cenere e del fango, ma poi sappiamo molto bene che Tolkien raggiunge vette letterarie altissime scavando nella storia di incesto e fallimento di Túrin Turambar. Il passo successivo, e tutto si andrà chiarendo negli episodi a venire, sarà capire il sostrato ideologico che gli scenaristi hanno affidato a Galadriel. Un messaggio prosociale, uno stimolo ad aprire gli occhi in un’era di collasso? Un modello elitario, in cui solo gli eccellenti sanno e devono sapere, per guidare le masse ignave verso un dopo in cui le insidie esterne diventano protesi del potere? Un ethos guerriero verso tempi di guerre sempre più frequenti per le risorse?

Umberto Eco leggeva Walt Disney. Aveva le sue ragioni. Noi, forse più di lui, abbiamo le nostre.

M. M.

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