Con il terzo episodio di AdP si conferma quello che nei primi due episodi era offuscato dalla magnificenza dei paesaggi, dalla sorpresa nel vedere nuovi scenari, da un orizzonte d’attesa che poi si è ingolfato per sovraccarico di luoghi fantastici. Adesso, invece, l’impressione è netta: la Terra di Mezzo secondo Amazon è una geografia artificiale che non genera mito.
Prima i fatti: le terre sono rappresentate con un display didascalico al limite dell’arroganza, la post-produzione in digitale è così spinta da sembrare un filtro anti-età come in FaceApp. Nella prima trilogia di Peter Jackson la Nuova Zelanda assomigliava ancora a sé stessa. Nella seconda trilogia l’espressionismo nanesco sembra aver contaminato anche i luoghi che, per eccesso di “favolismo”, diventano cartoonistici. Nella serie Amazon questo vettore sembra non solo accettato a mani basse ma spinto, se si può, alle estreme conseguenze. Alla fine ci troviamo di fronte a una geografia che per eccesso di spettacolarità e per i ripetuti strati di cerone e fondotinta ricorda il pappagallo di Pirandello: “Vedo una vecchia signora, coi capelli ritinti, tutti unti non si sa di qual orribile manteca, e poi tutta goffamente imbellettata e parata d’abiti giovanili. Mi metto a ridere. ‘Avverto’ che quella vecchia signora è il contrario di ciò che una rispettabile signora dovrebbe essere.” (L’umorismo, 1908).

Ma in che modo, nel dettaglio, il land-making di AdP non funziona? Sappiamo che Tolkien disegnava mappe prima di scrivere storie. Questa informazione non è l’aneddoto di una idiosincrasia autoriale ma è un’indicazione narratologica ben precisa: un worldbuilding che trascura la geografia è un errore capitale, perché la geografia fantastica non è un mero setting di sfondo ma è una vera e propria matrice narrativa, che predetermina il racconto. In Tolkien la geomorfologia di Numenor, delle Terre Selvagge, di Rohan o di Mordor sono campi morfici, un sostrato di spazio potenziale che letteralmente guida l’invenzione, predispone le azioni dei personaggi, imprime in essi una traccia emotiva, spazializza idee e messaggi. Tutto questo, però, può davvero funzionare solo se il paesaggio contiene quelli che potremmo chiamare dei “bug generativi”. Ciò che rende vero un luogo, dunque credibile nella fiction, dunque capace di generare la sospensione dell’incredulità, è l’imprevedibile difettoso, la stortura senza correzione ortopedica, il neo o la cicatrice nel posto sbagliato. Detto altrimenti, la forma fisica dei luoghi deve mantenere errori, rughe, segni anomali, che un filtro beauty cancella invece in automatico.

Ma perché questi bug sono generativi? Perché in realtà lo sono sempre stati a livello evolutivo, perché le anomalie stimolano una reazione cognitiva, chiamano una spiegazione, attivano l’immaginario per colmare le lacune, provano a spiegare ciò che è strano, hanno bisogno di addomesticare l’alieno. Tecnicamente si chiama eziologia, cioè cercare i perché di un come. Nel paesaggio in particolare, questo ha prodotto folklore, leggenda, mito, perché Homo sapiens ha dovuto spiegare ciò che non capiva, immaginando cause, dinamiche, storie. Se però prendiamo un paesaggio reale e lo ridisegniamo completamente per esasperarne la grandiosità, per renderlo riconoscibile a un pubblico amante del fantasy, magari imitando passivamente tonnellate di concept art che dagli anni Settanta ha provato a dare visibilità al legendarium tolkieniano o evocando dipinti paesaggistici dell’Ottocento, otterremo una Terra scarica, immobile come una quinta teatrale, sterile come un plastico per miniature dipinte. Il debito con l’ultimo Peter Jackson è palese. Il riuso di un déjà vu iconografico è stucchevole. La fiction geografica è così stereotipata da diventare molto presto il grado zero di sé stessa.

Si poteva fare meglio, molto meglio. Si poteva osare di più. Una grande occasione mancata, insomma. Ma la ragione è chiara a chiunque: la mancanza di immaginazione è direttamente proporzionale alle esigenze di mercato: meglio la vittoria facile su un pubblico che non distingue più tra mito e cronaca, tra epica e banalità grandiosa, tra sublime e pittoresco. C’è un fraintendimento colossale, perché quello che vince su tutto, qui, è un’estetica della magnificenza, una visione del bello orientata, una visionarietà a senso unico, quando invece l’epica, il mito sono sempre un disorientamento nel dolore, nell’imperfezione, nell’ansia dell’imprevisto, nella crisi che chiede uno sforzo di risoluzione, mai un appagamento. Tutto questo è molto triste e deludente. A tratti inquietante. Eppure, nonostante una sensazione di non ritorno, Tolkien funziona ancora, potente, enorme, perché, al di là di ogni banalizzazione, malgrado tutto, perfino in una serie Amazon, continua a produrre complessità.
M.M.

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APPENDICE
Peter Jackson, Alan Lee e i Fratelli Hildebrandt a confronto su Rivendell, Edoras, Minas Tirith e i Porti Grigi. Per quanto nella trilogia de Lo Hobbit e in alcune scene de Il Signore degli Anelli Jackson usi in modo palese anche i Fratelli Hildebrandt (si veda qui sotto il ritratto di Bilbo), appare chiaro che la palette cromatica e il place-making della trilogia cinematografica di LOTR sono al 100% Alan Lee, che appunto vinse l’Oscar 2004 per la scenografia del terzo capitolo della saga. La “tradizione” iconografica generata da questa scelta ha condizionato pesantemente anche la fotografia di AdP. Di tutta la concept art sul tema, quella di Lee è forse la più lontana dall’immaginario tolkieniano, praticamente agli antipodi, mentre quella dei Fratelli Hildebrandt, pur con picchi espressionistici un po’ centrifughi, indica una via possibile più aderente all’originale. Forse è solo questione di gusti, ma la Terra di Mezzo cinematografica sta diventando qualcosa di molto simile a una pasticceria leziosa.




