DIMMI
“Raro thriller d’azione che fa aumentare l’adrenalina senza lesinare sullo sviluppo del personaggio” – come dicono su Rotten Tomatoes.
Prey è un ottimo prequel di Predator, forse l’unico film della “serie” degno dell’originale. Ho visto tutti i film che in qualche modo hanno cercato di ricreare il fortunato mix che rese il primo Predator un film interessante (a dispetto delle premesse), ma purtroppo nessuno si è mai dimostrato buono come il primo. Troppo noiosi o prevedibili e comunque sempre totalmente privi di sense of wonder oltre che totalmente piatti e scontati; quando originali, solo bizzarri.
Qui finalmente il miracolo si compie di nuovo: sarà per la bravura degli attori? Per la buona sceneggiatura? Per la credibilità dei personaggi?
Seguiamo la vicenda dal punto di vista di Naru, una guerriera Comanche: e già qui era facile cadere nella banalità affidando la parte a qualche pin-up che avremmo visto aggirarsi in modo molto poco credibile per le Grandi Pianure… invece la protagonista scelta è – oltre che molto brava – anche estremamente credibile dal punto di vista iconografico: un’ottimo incipit!
Naru è intenzionata e si allena duramente per diventare un abile cacciatore per la sua tribù: tanto per procacciare il cibo, quanto per proteggere le persone dai predatori; l’ambiente è ostile, sono molti gli animali pericolosi e anche qui il film rende molto bene il senso di precarietà che forzatamente accompagna chi viva nel wilderness. Il nostro amico riflettente è solo un altro dei problemi.
Qui vediamo un altro tocco di classe ed eleganza così rare nei “thriller d’azione”: quando appare Predator nessuno – come nel primo film – ci spiega niente su chi sia, perché sia giunto. La narrazione semplicemente ci mostra l’alieno che si aggira, caccia o combatte. Come fosse un puma, un orso, un serpente.
– un Predator è lì per compiere un suo destino-
Naru si accorge che qualcosa di diverso è là fuori e capisce quanto sia pericoloso – durante il film verrà dimostrato come e quanto la sua intuizione sia corretta: come tutti gli eroi, Naru dovrà superare difficoltà e sconfiggere, prima ancora del Nemico esterno, i nemici interni. Ma è un modello “nuovo” di eroe: non perché sia una giovane donna (no comment sull’abuso di Barbie Lara Croft in ogni film d’azione), ma perché utilizza veramente le sue abilità di cacciatrice che non sono (solo) quelle di colpire/combattere – anzi il film mostra realisticamente come in questo altri siano meglio di lei – ma quelle di osservare l’intorno in cui si muove, analizzare le informazioni collezionate, metterle in relazione. Naru analizza e deduce: usa l’immaginazione e la ragione. Se quello che vede è diverso dall’usuale non si volta dall’altra parte pensando “sembra, ma è una bestia come le altre” o “mi sbaglio, dato che non è mai esistita una cosa che fa questo, allora non esiste”, ma invece “se lascia tracce posso seguirla”o “se squarta ha artigli” o “se mangia ha una bocca”. Come in Conan: se un nemico sanguina si può uccidere.
Naru non ha dubbi perché ha fiducia nelle sue abilità di analista: tutto intorno a lei le parla di questa bestia e questa bestia mette in pericolo la comunità, quindi va resa inoffensiva, catturata o uccisa o messa in fuga. Nient’altro è importante: non le importa della derisione dei giovani maschi della tribù, dei tentativi di fermarla del fratello, del buon senso a cui la madre cerca di riportarla. Naru mantiene la sua mente aperta, riesce ad immaginare l’inimmaginabile e usa tutte le sue conoscenze (note: non esoteriche ma botaniche!) per sconfiggere la preda. Ci riusciremo anche noi?
Prey come nuovo Rakka o altre COSMOTEKNOLOGIE DI CACCIA
Utile per alcune cose. “È una sorta di specchio” dice il regista. È vero per diversi aspetti. Il primo è che rivela alcuni bias etico-cognitivi incistati in profondità, come un contatore geiger. Alcuni elementi del film risultano assolutamente inaccettabili a un certo tipo di spettatore, che pensa di essere il più illuminato del reame, e invece nello specchio del film vede riflessa la strega oscura che è. La protagonista è una giovane donna Comanche che nel 1715 infrange i pregiudizi della società cui appartiene per diventare cacciatrice e uccidere il Predator che infesta le Grandi Pianure. È anche l’unica che vede i segni della fine del suo mondo e avverte tutti che occorre rivoluzionare il proprio modo di vivere. La maggior parte delle streghe oscure non arriva fino a qui. Molte si fermano a “protagonista”, quasi tutte si inchiodano a “infrange i pregiudizi”, un manipolo protesta chiassoso a “cacciatrice” e un altro si ribella stracciandosi le vesti a “uccide il Predator”. Siccome uno dei segni del Collasso è un gruppo di trappeurs francesi, le streghe rimanenti fanno ironia su come gli Americani incolpino gli Europei per la devastazione del nuovo mondo, cioè mentre la luna gli crolla sulla testa deridono il dito medio che si nasconde dietro l’indice… Buffalo Calf Road Woman, la giovane Cheyenne che ha ucciso Custer a Little Bighorn, sorride come la Monna Lisa delle praterie e ci invita ad ascoltare la storia. Potremmo farlo ascoltando la traccia del film in lingua Comanche, ma per nostra ignoranza non ne siamo capaci. Possiamo però assistere a un film curato da una produttrice Comanche, approvato dalla comunità Comanche che lo ha visto in anteprima, non perfetto ovviamente nella ricostruzione storica – la producer ammette di essersi basata su testimonianze materiali risalenti all’ultimo decennio del XVIII secolo, pur essendo la vicenda ambientata all’inizio del ‘700 – eppure consapevole e rispettoso della cultura di riferimento.
-Guarda. Per Naru c’è un percorso sanzionato per diventare quello che è.-
“The title really suggests that it’s sort of a mirror to the main franchise. It came with the same double meaning” dice il regista. Prey indica anche l’azione del cacciare che collega il predatore e la preda in un legame che neanche la morte può sciogliere: se il cacciatore prevale la preda diventerà parte di lui, cibo che nutre; se la preda prevale, scappando o uccidendo a sua volta il predatore, esso diventerà parte di lei, esperienza che salva. Pre-dare, avere il cibo davanti a sé ed essere il cibo esposto. Cacciare è uno specchio. Sono sempre gli animali a controllare la caccia. Nel primo film, Predator indica sia l’alieno sia gli umani. La stessa cosa vale nell’ultimo film, Prey. Il mutamento del titolo, però, aggiunge un ulteriore significato. Il primo film è dedicato a chi caccia. È vero che ribalta la situazione iniziale per cui l’apex predator terrestre – i soldati americani – diventa preda inerme di un apex predator alieno, tuttavia la conclusione riafferma che il (super)soldato austroamericano Schwarzenegger è il meglio predatore che ci sia. L’ultimo film è invece dedicato alle prede. Certo, la struttura della trama non è molto dissimile, eppure il ribaltamento finale è chiaro: non importa se sei membro del gruppo più letale di cacciatori e guerrieri delle Pianure, non importa se tra questi sei la più intelligente in grado di integrare e sviluppare strategie e tecnologie adeguate a pericoli impensabili, non importa se sei sopravvissuta a orsi e Yautja. Nell’età del Collasso sei una preda come tutte le altre.
-Gli Yautja utilizzano una tecnologia che non hanno inventato, di cui non conoscono il funzionamento. Tool senza meccanismo. Prosperano in una propria era oscura. Prosperare è cacciare.-
Questo spostamento dal veterano di guerra inossidabile Maggiore Dutch Schaefer alla giovane cacciatrice Comanche Naru è in linea con l’iposoggettività suggerita da Morton come specie nativa dell’Antropocene, alternativa all’apex androleukoeteropetromoderno, plurale, in divenire, dislocata tra gli interstizi degli iperoggetti, trasforma le cose dentro e fuori e lavora creativamente con scarti e frammenti, indaffarata a giocare, prendersi cura, adattarsi, ferire e ridere. Cacciare. Il legame tra preda e predatore è simile alla connessione tra iposoggetti nell’iperoggetto. La caccia è il frame ecosistemico altamente complesso tra i cui vuoti e anfratti si celano e corrono e intrecciano tracce prede e predatori. Le tracce come informazioni e immaginazioni. Cluster locali di deep events che germogliano da big data e flussi globali di agentività multiple. “Tutto avviene all’interno di un unico flusso di forme, dai ragni ai morti”.
-I cacciatori: se non torno dalla caccia non sarò considerato un adulto. In ogni pianeta.-
Naru è l’antenata degli information-surviving agents che sono i ratatoskr dell’Antropocene, il bleeding edge time scandagliato in parte da Pynchon, con l’involontaria detective Oedipa Maas, i primi migranti del tempo che in Contro il Giorno fuggono verso il passato da un futuro prosciugato di risorse e il superolfatto canino di Conkling Speedwell, e soprattutto da Gibson con la coolhunter Cayce Pollard che ha l’abilità di sentire i segni invisibili della noosfera. Nella Blue Ant Trilogy informazione e azione, mondo virtuale e mondo reale, presente e futuro perdono i rispettivi confini in un’unica trama potenziale di patterns significativi e sterili apofenie tra loghi multinazionali e divinità preumane. In Mason & Dixon un tumulo eretto da arcaici Nativi americani si rivela essere una sorta di accumulatore tellurico di forze e narrazioni, un’intelligenza artificiale terrestre composta di progressive stratificazioni di elementi di scarto. Il linguaggio operativo della Terra. Ogni paesaggio si presenta come un groviglio di stringhe di dati da interpretare e flussi di algoritmi da attraversare. Ossa. Feci. Sangue. Carcasse. Impronte. Fruscii. Alcuni segni sono chiavi utili, altri sono trappole pericolose. L’information-surviving agent si muove come un cacciatore in questo mediumscape molto reale, temendo sempre di essere una preda. La caccia e raccolta – l’arte cooperativa immersa nel mondo in cui è germogliata l’intelligenza animale – è anche il tema e allo stesso tempo il mindset con cui inseguire il film. A tutt’occhi e a sensi e mente aperti.
IMMAGINI
“Tanto tempo fa si racconta che un mostro venne qui”.
La storia inizia con il racconto della storia, un’Odissea continentale non solo umana, e se c’è un essere incognito, come nell’incipit di The Road, la storia deve essere di monito e insegnamento. L’importante è tramandare il racconto, il racconto è l’artefatto utile per risolvere l’inghippo, è la preda da scovare e l’idea-arma definitiva da usare per il colpo fatidico. La parola e la memoria e l’immaginazione, intrecciati in un tomahawk mai visto prima, sono la buona caccia che salva la comunità. Il legame tra passato, presente e futuro che inventa l’idea per sopravvivere, è allo stesso tempo la vera comunità che salva se stessa nel deep time wood.
Immagine. Paesaggio: un fiume che scorre nella pianura. Un cervo e una cerva. Erba mossa dal vento. La Genesi della terra può fare a meno dell’uomo al centro di tutto.
-Quella prateria una volta era foresta, il suo spettro è nella palude.-
Immagine. Scudo di pelle di bisonte con il sole e due cerchi disegnati e una penna d’aquila al vento. Dietro, un tipi. Protezione e fare casa. I Comanche dipingono sulla pelle di bisonte del tipi i simboli della vita e la storia di chi li ha abitati così tra trasformare una casa nomade in una storia animata di radici. I colori naturali utilizzati rispettano i toni del paesaggio, affinché il tipi sia accolto dalla terra circostante. Lo scudo comanche è un sofisticato strumento di difesa, capace di bloccare una freccia e la palla di un moschetto, fabbricato con due strati di pelle di bisonte indurita sul fuoco e resa ancora più densa con la sovrapposizione di piume, strati di pelli e carta. È stato rinvenuto uno scudo rinforzato con pagine di un’edizione inglese della storia di Roma. Retroingegneria di miti alieni per sopravvivere all’impatto con l’impensabile. Sulla pelle dello scudo sono disegnati sogni e visioni, le azioni del suo possessore e il suo destino. Lo scudo è sempre uno scudo medicina, un efficace strumento immaginifico di difesa perché il Sole e la Luna, il Lampo e il Tuono, gli spiriti di uccelli e animali e degli antenati hanno mostrato al guerriero come adornarlo dei loro poteri. Come il tipi, anche lo scudo adempie alla sua funzione solo dopo esser stato consigliato e benedetto dal mondo circostante. Chissà quale spirito della Storia ha evocato le pagine della Città Eterna allattata dalla lupa e schiantata da orde di guerrieri nomadi a cavallo. La Terra è la vera difesa e casa, l’organo supremo di sopravvivenza, solo adeguandosi a essa i Comanche possono abitare e prosperare.
Naru però non si sente a suo agio nel posto assegnatole dalla comunità. Il suo nome iniziale era Kee – No – poi cambiato in Naru, Lotta. In linea con il nome del suo popolo, Chiunque-voglia-combatterti-tutto-il-tempo. Dal rifiuto all’azione. Questo è il destino del suo nome. Conosce le erbe, ma si allena con il tomahawk. Deve raccogliere piante e bacche, ma corre dietro al cervo che le sfugge. Un classico della teoria dei giochi. Solo cooperando con un altro cacciatore è possibile catturare il cervo. Naru sbaglia, ma una delle sue qualità è imparare dagli errori. Sempre insieme a Saami, il cane, compagno fedele, che prova e sbaglia e migliora con lei.
Immagine. Saami nella trappola, Naru gli cura la coda poi studia la trappola di metallo.
Fare parentele, prendersi cura, esercitare creativamente una mente prensile. Demolizione di bias: ogni homo sapiens di ogni tempo ha lo stesso cervello e le stesse capacità cognitive. Shepard racconta di un gruppo di Inuit che in una base aerea militare alleata durante la seconda guerra mondiale si dimostrarono eccellenti meccanici, superando in destrezza, manualità e velocità i meccanici “occidentali”, pur non avendo mai visto prima un cacciabombardiere. Tacendo poi di saperi e capacità ecologiche, botaniche e di anatomia comparata… Rischio: contrapporre TEK e TECH, la tecnologia occidentale e la conoscenza ecologica tradizionale. Naru non commette questo errore. Come Yuk Hui e Silvia Rivera Cusicanqui, sa che non esiste una sola tecnica e che ogni tecnica è ch’ixi, uno sguardo meticcio di terra e radici materiali e immateriali che genera novità, una cosmotecnica che immagina mondi in cui funzionare e che funziona solo all’interno di mondi immaginati con cura, dove le trame non sono definite da divisioni, ma da zone liminali di interconnessione. Per vedere nuove realtà, per operare in esse, occorre mutare tecnica, mescolando se necessario strumenti noti a strumenti sconosciuti. La TEK è plurale e locale, non si identifica in uno o più oggetti, neppure in un apparato. È una cosmologia che connette in modo organico valori, saperi e pratiche al fine di prendersi cura del mondo che la ospita. Naru, interagendo con il paesaggio e con la ragnatela di connessioni che ne costituiscono lo spaziotempo profondo, ha sviluppato la sensibilità necessaria per osservare l’ambiente e il momento e le loro componenti così da leggere i segni, allertandosi quando questi segni rivelano criticità sistemiche. La caccia la attira perché è un caso particolare del più ampio gioco del fare-senso, gioco in cui la mente predatoria di Naru eccelle, adattandosi, convalidando e cambiando al mutare delle circo-stanze. La preda principe è sempre il senso. Naru com-prende la cura e la trappola. TEK e TECH insieme. La caccia è un prototipo di tecnomagia: tool multiforme, linguaggio primordiale, insieme sacro di codici e pratiche per interfacciarsi consapevolmente e attivamente con l’ambiente, cosmotecnica in progress.
Ma niente è mai semplice.
Immagine. Il cielo è squarciato da fulmini. Il mondo di Naru non è più lo stesso. Appare un’astronave. Appare l’Uccello del Tuono. Nello scudo erano disegnati due cerchi. Uno con una croce. Il Sole. L’altro con una X. Il Thunderbird. Il destino annunciato si avvicina. L’uccello del Tuono porta il Grande Cambiamento. La Crisi. L’Apocalisse. Naru lo sa. Quando appare il titolo, anche noi sappiamo che la Preda sarà fare-senso della metamorfosi di se stessi nel/del proprio mondo.
Immagine. Speculare all’astronave. L’aquila vola alta nel cielo. È sempre lo stesso segno. Naru mira all’aquila. Taabe prende la parola. Il fratello maggiore, il cacciatore riconosciuto, il guerriero. Il suo nome significa Sole. Ha il mandato di garantire la vita della comunità. Naru è quindi la Luna. La ragazza con il cane, armata di arco a caccia nel bosco. A lei spetta illuminare il cammino durante la notte. A lei spetta custodire il mistero della selva. Nell’intervallo della radura è forse la verità.
Taabe racconta della sua prima caccia, kattamya, il suo rito di passaggio. Abbatte l’aquila. Naru aveva risparmiato il colpo aspettando che i volteggi del rapace lo conducessero sopra la loro sponda. Immaginando i suoi movimenti non ancora compiuti. Cacciando l’invisibile. Taabe le chiede se sia pronta a cacciare qualcosa che dà la caccia a lei. Il vero rito di passaggio è scoprirsi preda. Naru non ascolta il racconto del fratello. Vuole raccontare una storia diversa. La sua kattamya.
Immagine. L’astronave se ne va. Un alieno è sbarcato e caccia invisibile.
La Terra è una delle tante riserve di caccia dei Predators, una razza aliena divisa in Yautja e Hish-Qu-Ten, fazioni che competono tra loro per l’egemonia, assicurata dalla quantità di trofei di caccia guadagnati uccidendo avversari degni. Ogni Predator deve cacciare da solo nel corrispettivo alieno della kattamya comanche: il rito di passaggio è sempre cacciare un animale che può cacciarti a sua volta. Per scoprirti anello localizzato nella catena trofica. I Predators sono una civiltà tribale guerriera che visita la Terra da secoli e continuerà a visitarla anche nel futuro. Non perché l’uomo sia un avversario particolarmente degno. Il nostro è considerato un pianeta arretrato, a coefficiente di pericolosità moderato, una riserva di caccia per esemplari alle prime armi o che devono riabilitarsi. Il clima della fascia tropicale terrestre è inoltre molto simile al clima del pianeta alieno, un mondo vulcanico e con vegetazione quasi assente, arroventato da due soli, con molteplici asteroidi in orbita forse frutto di un qualche cataclisma astronomico. La fauna nota comprende cavalcature e grosse iene da caccia. E gli altri animali? Sono stati estinti da secoli di cacce intensive? Per questo motivo la caccia è diventata un rito da svolgere nelle stagioni torride di altri pianeti con biodiversità vitali? Questa esociviltà di cacciatori spaziali basata su riti stagionali ci ha superato lungo la scala di Kardasev. Quindi il sentiero dei Comanche non è così anacronistico come pensano i colonizzatori e come attestano le sistematizzazioni di Diamond? Wengrow e Graeber hanno le loro ragioni nel raccontare le ipotesi di storie altre. Gli Yautja risparmiano chi non può difendersi, riconoscono il valore delle prede che li cacciano, onorano la memoria della preda. Il mostro alieno ha un proprio codice etico di caccia, un esobushido che implica un legame extraspecie. Le pratiche di caccia sono inseparabili dalla tradizione morale e valoriale. I saperi ecologici tradizionali di Yautja e Comanche sono diversi eppure condividono l’interdipendenza delle dimensioni epistemologica, pratica ed etica. I Predators sono migliori dell’uomo occidentale? Oppure hanno la stessa vulnerabilità dei Comanche e sono destinati a essere colonizzati dalla civiltà tossica del consumo?
-C’è un mostro, è vicino al campo. Io l’ho visto. Sembra un mostro delle nostre storia, forse è proprio quel mostro. L’ho visto e non potevo vederlo. E sono qui, elaboro le nostre storie e non ho paura. Nel mio, nostro immaginario non è previsto che io ascolti di un mostro nella foresta e rimanga ferma, impaurita, preda. Non c’è una storia in cui non debba uscire nel buio, a cacciarlo.-
Lo scontro tra le due civiltà è giocato dai Predators secondo un codice di caccia, una versione selvatica ed ecosistemica del codice cavalleresco, un gioco serissimo, stagionale e sacro che è solo una piccola mossa all’interno del gioco del mondo, lo stesso gioco delle civiltà umane della preistoria. Gli Yautja sembrano una preistoria senza neolitico, una civiltà di cacciatori-raccoglitori che ha fatto la propria storia. Sulla Terra giungono piccoli gruppi, ma sul loro pianeta sorgono città monumentali. Sanno costruire astronavi che viaggiano tra sistemi solari. È una scoperta autoctona o il trofeo della caccia a un’altra specie? Forse hanno razziato le colture di astronavi osteoorganiche degli Ingegneri, l’altra razza aliena che, insieme agli Xenomorfi, popola l’universo. Non lo sappiamo. Gli Yautja sono un mistero, soprattutto perché non conosciamo il loro linguaggio. Mentre loro riescono a riprodurre ogni suono, avendo perfezionato la pratica che permette di ingannare e stanare le prede mimando i loro stessi versi. Forse non conosceremo mai la loro lingua (composta del miscuglio di suoni di una miriade di specie animali) perché un’altra civiltà muove guerra dal futuro per prosciugare ogni risorsa e colonizzare ogni nicchia ecologica. Conglomerati capitalisti si diffondono come xenomorfi, come vaiolo sulle coperte, per infestare attecchire devastare ogni pianeta. Come reagiranno i Predators? Abbandoneranno la riserva di caccia terrestre come una zona ad alto pericolo biologico? Sterilizzeranno il pianeta? O lo promuoveranno a riserva di caccia estrema per le élite guerriere della loro specie? –Sì–
Guarda, la terra brucia
Il cambiamento climatico avvicina sempre di più la Terra al pianeta dei Predator.
-Arida, soggetta a radiazioni stellari. Bipedi, sono usciti dal Rift, eretti, mani prensili. Fratelli evolutivi. Devono essere canivori-.
Le loro battute di caccia si intensificheranno in una Terra al di là del collasso? Qualche umano o altra specie terrestre apprenderà nuove tecniche di sopravvivenza dai migliori Yautja?
Ha senso immaginare ipotesi basandosi sul presupposto del franchise, uno species divide che contrappone in una legge di natura universale i Predators e noi umani? Parafrasando Kim Stanley Robinson, la legge di natura siamo noi, la legge di natura è ciò che accade, che non è detto coincida con ciò che riusciamo a percepire e a processare anche perché non cessa mai di accadere, quindi ciò che accade e il nostro tentativo di comprenderlo è un processo speculare che assomiglia terribilmente alla caccia: un’irrintracciabile fearful simmetry. Predatore e preda sono due facce dello stesso bioma, anche se e quando valica i confini planetari. I pianeti sono come isolotti che emergono dalla palude cosmica, ricca di vite pulsanti e vite invisibili. Gli Yautja sono emissari del bioma nascosto che ci ricordano il nostro legame indissolubile con esso. Un legame sacro con regole ineludibili. La legge suprema di natura è un’etica di partecipazione leale, rispettosa e consapevole al gioco della vita. Il gioco della preda.
Lealtà. Prey ribalta la missione di partenza: nel primo film un manipolo di mercenari è cooptato in una falsa missione di salvataggio per coprire azioni di guerra – lo sterminio di ribelli, presumibilmente appartenenti alle FARC, nella foresta del Guatemala –, secondo la tattica ben individuata da Nicholas Mulder della guerra celata in tempo di pace, una interguerra negata nella lingua biforcuta della GUERRA È PACE. Naru e i suoi compagni invece sono una vera squadra di soccorso che spontaneamente si organizza per salvare un compagno catturato da un puma. Anche in questo caso caccia, valori e comunità sono intrecciate in un arazzo che è natura sacra.
Immagine. La catena trofica si muove grazie all’attrito tra le specie come lo scheletro di un serpente che neanche la morte può arrestare. Tempo profondo, intimità, intreccio e scarto. La poiesis della nostra era, secondo Farrier. De rerum Antropocene. Vale per le specie. Vale per le civiltà. Vale per idee e immagini. Vale soprattutto per le corrispondenze e i clinamina tra specie, idee e civiltà. Anche le culture giocano il sacro gioco della preda.
Naru è una giocatrice strana. Una sorta di metagiocatrice. Non si limita a prendere decisioni in base al contesto di gioco in cui si trova. Naru interroga il gioco. Prima di cercare la soluzione per vincere, cerca di osservare e comprendere ogni elemento potenzialmente significativo del contesto. Sa che il gioco include delle trappole. Sa che alcune decisioni sono irreversibili. Il labirinto mangia se stesso alle calcagna del giocatore come un bisonte mannaro o un alieno dalle fauci retrattili. Naru cerca i segni nascosti – perché il compagno è ancora vivo? –, ragiona contro-intuitivamente – il ferito ha freddo, ma non va riscaldato per evitare il dissanguamento – e ascolta i sensi di Saami. Si fa domande su ciò che non capisce e non accetta le spiegazioni facili e riduzioniste.
Immagine. La pelle scuoiata si muove. La traccia grida il pericolo. La traccia è il pericolo futuro che con le spoglie del passato attacca il presente. Naru vede l’invisibile che cerca di morderla.
“Siamo nel suo territorio di caccia”. Ma chi è il predatore alpha? Il passato? Il futuro? Il territorio stesso la cui profondità è insondata e insondabile in entrambi i sensi del tempo?
Prey è un film di fantascienza, il genere dell’improbabile che secondo Ghosh deve rappresentare l’uncanny catastrophe del cambiamento climatico e immaginare futuri possibili. È anche un film horror. Secondo Botting il terrore – gli occhi sbarrati calamitati verso il pericolo, le pupille dilatate avide di particolari – è il meccanismo eerie di sicurezza che innesca l’espansione immaginativa: c’è qualcosa dove non dovrebbe esserci o manca qualcosa che dovrebbe esserci. Cosa?! La sopravvivenza dipende direttamente dalla risposta a questa domanda ineludibile. DeLoughrey ci ricorda però che il terrore in quanto promessa di pericolo, profezia gotica su apocalissi imminenti, qui e ora nell’Antropocene manifesto segna un ritardo in se stesso pericoloso. Perché la minaccia abita già qui. La bestia ci è già balzata addosso. E in alcuni luoghi e per milioni di persone la fine del mondo è già avvenuta. Non solo nel Sud globale, ma anche nelle periferie e nei condomini del Nord. Solo per alcuni privilegiati – ancora per quanto? – il cambiamento climatico è un’inquietante profezia che avanza lentamente. Nixon propone di dare forma sensibile, narrativa, alle minacce informi e indeterminate che si manifestano solo a sprazzi o in slow motion in alcune parti del globo. Per rendere evidente l’imminente minaccia di quella che definisce una slow violence. L’horror rappresenta proprio questo: l’esperienza viscerale e personalissima dell’impatto violento inevitabile con quel qualcosa di sbagliato che un club di norne ha predetto mezzo secolo fa. Il Predator invisibile che ti insegue smuovendo l’erba alta e che ti infilza l’addome con il suo artiglio di metallo e ti apre in due per sfilarti la spina dorsale è questo drammatico impatto. L’elmo d’osso, forse il cranio di una qualche bestia estinta in un pianeta prosciugato, disinnesca l’aspetto sci-fi dello Yautja che potrebbe rischiare di differire in altri spazi e in altri futuri l’imminenza della minaccia. Il dispositivo del genere horror invece, come un puntatore luminoso di cunei d’acciaio, collega fatalmente il presente – ma anche lo stesso futuro – al passato. Il futuro ci attacca, ora, con armi acuminate scheggiando il passato. L’accelerazione della violenza rivela la prossimità fisica del pericolo mortale, per quanto incomprensibile, per quanto incredibile. Le lame ci hanno già squarciato la pelle. Le nostre scelte ci stanno scuoiando brano a brano.
Violenza raccapricciante, predatori rettili (il primo Predator avrebbe dovuto avere una coda da alligatore, poi eliminata per praticità e fluidità di movimenti nella giungla), ecosistema fuori controllo (ecatombe dei bisonti, neve o polvere a settembre) sono tutti elementi correlati al collasso globale e agli (ultimi?) colpi di coda del necrocapitalismo in una galassia di film di genere che secondo Nixon si inserisce nella vena horror della climate fiction. Come Crawl, quest’ultimo Predator è anche una metonimia della violenza climatica antropogena.
Naru pensa un piano sfruttando la convinzione del puma di essere un apex predator. Anche la preda può cacciare il predatore. Soprattutto se collabora con le altre prede. Umiltà vs Tracotanza. Pensarsi in basso vs Pensarsi al di sopra. Adeguarsi al limite della terra vs Innalzarsi oltre il limite della terra. Il limite è l’orizzonte degli eventi biotici. Oltre c’è solo lo squilibrio e il collasso.
“Puoi arrivare solo fin qui. Non oltre. È la fine”.
È la frase che Taabe insegna a Naru. È la frase da dire alla preda. È la frase che Taabe dirà prima di sacrificarsi come preda. È l’espressione del limite necessario alla corrispondenza del bioma e dell’ambiente. È il riconoscimento del tabu. O tapu. O rahui. Per le culture delle isole le parole limite e sacro coincidono. Il senso del limite è il senso del sacro. Il riconoscimento e il rispetto della nicchia di ogni elemento dell’ecosistema, di ogni anello della catena trofica. È il segno dell’armonia.
Immagine. Naru è su un ramo e il puma è sull’altro ramo dello stesso albero. Di notte. La bilancia trofica. Il puma si avvicina. È sullo stesso ramo di Naru, che indietreggia. I rami oscillano. C’è sempre meno spazio per lei. Un lampo rosso la distrae. Il Predator imprevisto. Il ramo si spezza e Naru cade. Sembra la cacciata dal paradiso terrestre. Per l’intromissione di un serpente alieno. Per la superbia di Naru?
“Credi che la ragione della kattamya [e del film] sia provare che tu sai cacciare? C’è una sola, unica ragione: sopravvivere!”
La caccia è la scuola della propria nicchia nell’arazzo trofico, il gioco grazie a cui si comprende il proprio e l’altrui limite.
Non si può sopravvivere da soli (Naru aiuta Taabe. Taabe aiuta Naru. Il gruppo si supporta e aiuta). Il gioco del cervo docet.
“Se loro non vedono, tu mostraglielo”.
-Non come appari. Sorella, fratello: dobbiamo fare quello che dobbiamo. Siamo allo specchio.-
Immagine. Il lupo caccia la lepre. Lo Yautja caccia il lupo. Il lupo è scarnificato in trofeo. Anche il Predator è a caccia per apprendere quale animale sia l’avversario più degno con cui misurare se stesso. Mette in mostra lo scheletro delle prede come tasselli di un totem della perfetta biodiversità che perpetua la sfida. Lo Yautja caccia sempre da solo. Secondo la teoria dei giochi è già destinato a fallire la cattura dell’esocervo, il cervo della Luna.
Naru inventa un tomahawk con la corda. Per avere contemporaneamente gittata e disponibilità. È una raccoglitrice. Una guaritrice. Una cacciatrice. Ma è anche prima di tutto un’inventrice. Una TEKmante. Di fronte a un ostacolo, immagina e realizza ciò che non esiste, ma è necessario per superare l’ostacolo.
Immagine. Massacro dei bisonti. Carcasse rosse. Mosche.
Naru prega per i loro spiriti. Trova un proiettile.
Come con lo scheletro di serpente, come con il Predator, il futuro l’attacca. È uno dei tanti proiettili sparati dalla guerra nel futuro la cui entropia invertita uccide a ritroso nel tempo. È l’algoritmo di devoluzione dell’oligarca Sator, l’arrocco apocalittico del Capitalismo al Collasso. Il Re che si scambia con il resto del mondo.
Immagine. Naru sprofonda nella palude. Si salva grazie al tomahawk. Sopravvivere è una seconda nascita, un approfondimento (del limite) della nicchia, un upgrade nell’arazzo trofico. Growing down!
Il paesaggio è un campo da gioco di sopravvivenza, un arazzo narrativo/segnico/speciespecifico da osservare, decifrafre e cifrare, in cui intrecciarsi e da districare per intrecciare ancora fili consapevoli e agenti. Naru è la Penelope dell’Antropocene che deve difendersi dai Proci intra muros e dai Predators esoplanetari. Non ha re da aspettare, ma azioni di consapevolezza e salvataggio da intraprendere. Non per preservare se stessa, ma tutta la comunità. La sua arma è l’immersione nel paesaggio-arazzo, nella terra di cui divenire parte, nell’humus che è minaccia e marchingegno di morte e brodo primordiale di vita ed evoluzione.
Immagine. Naru e Saami sono minuscoli nel paesaggio. Posizionamento consapevole di immersione nella vastità, di decentramento e ampliamento dello sguardo.
Immagine. L’orso attacca Naru. Saami lo distrae. Naru si rifugia in una tana di castori. Il Predator la salva uccidendo l’orso. Il sangue dell’orso cola sul Predator e lo rende visibile. È la teatralizzazione ipercinetica della Cerimonia Comanche del castoro. Una cerimonia per curare le malattie che deteriorano. Il fiume salva Naru. Che ha finalmente visto la minaccia: “sembrava quasi un moopiz”, un mostro delle storie per bambini. Il racconto, come il rito, serve a concepire e comunicare l’incomprensibile, l’inaspettato.
Immagine. Naru finisce nella tagliola. Il Predator la risparmia. Ma arrivano trappeurs francesi e la catturano. Il capobranco francese ha la pelle del bisonte. “Hai ucciso tu il bisonte”. La minaccia più grande è rivelata.
Adolini, che parla molte lingue, le chiede cosa abbia visto. Lui crede che sia un cacciatore in cerca della bestia più forte. I francesi sembrano le bestie più spietate. Hanno catturato Taabe. Lo torturano tagliandogli il petto. È la scena speculare a quella di Billy che, nel primo film, si incide il petto con il machete per sfidare lo Yautja. Billy, che vediamo morire eviscerato solo nella novelization di Predator, al pari di Taabe, rivela la natura sacrificale del suo popolo, immolato al progresso colonialista.
Naru e Taabe sono legati a un albero come esche.
Il Predator è la Kattamya di Naru.
I francesi sono macellati. Karma alieno. C’è sempre un colonialista più forte di te.
Taabe ammette a Naru che il puma è stato ucciso grazie al suo piano.
“Tu vedi ciò che a me sfugge”. È questa la capacità essenziale di Naru. Vedere l’invisibile. Scorgere le tracce impresse su di sé e sull’ambiente dall’iperoggetto. Come la biologa dell’Area X che si immerge/fa divorare da essa. Lo sbarco del Predator innesca un evento complesso che ci comprende lungo spazi e tempi eterogenei.
“Aiutami e ti insegnerò a usarla”.
La pistola passa di mano dal francese a Naru, dal secondo film al fumetto e di nuovo all’ultimo film che li precede tutti, da Rapahel Adolini a Naru al Predator del futuro fino a Mike Harrigan, da Los Angeles alle praterie e all’oceano Atlantico, a ritroso lungo la rotta del colonialismo e dello schiavismo, da 2 secoli a 2 anni, dalla guerra tra gang in una metropoli in preda a un’ondata di calore, allo scontro tra trappeurs e nativi americani, alla pirateria nella costa degli schiavi. Le armi come la predazione sono sempre in circolo, nascoste in agguato, pronte a far balzare in avanti la bestia europea, secondo lo schema di Jared Diamond. Non è l’unica traiettoria possibile, ma è la traiettoria alpha che ha seminato teschi spolpati di civiltà.
-Sembrano pochi i Comanche. I cacciatori sono morti. La tribù deve spostarsi –dove? Su quale pianeta, dove è possibile la sopravvivenza. Accelerare il nomadismo funziona?- C’è una pistola, deve essere la stessa pistola, a Los Angeles-
Adolini nel fumetto del 1996 è il capitano di una nave pirata che nel 1718 vuole restituire l’oro depredato da una chiesa. Travolto dall’ammutinamento della sua ciurma si trova a combattere fianco a fianco con un Predator, Greyback, la furia del suo equipaggio nel clima torrido della foresta tropicale. Sterminati i pirati, il Predator si appresta ad affrontare il compagno dimostratosi l’avversario più degno. Ma un pirata nascosto uccide Adolini alle spalle. Il Predator lo uccide. Adolini gli dona la sua pistola, con una placca che riporta il suo nome e l’anno 1715. Greyback lascia la sua spada sopra il cadavere del capitano. Nel film del 1997, Greyback è ormai un elder Yautja a capo di un gruppo di caccia che osserva un giovane Predator massacrare i membri di una gang a Los Angeles. Quando il giovane predator è sconfitto e ucciso dal detective Harrigan, Greyback fa portare via il corpo e dona la pistola di Adolini ad Harrigan, in segno di rispetto.
Nel film del 2022, nei boschi del 1715, la pistola non è più né trofeo né segno di valore guerriero. Torna a essere merce di scambio, un bene barattato da Adolini con Naru affinché lei curi le sue gravi ferite, e poi di nuovo arma mortale.
Naru fischia per chiamare il Predator, come fosse uno spirito. Come Tito che in Spook Country si fa abitare dai Loa, donando il suo corpo ad agentività ancestrali con capacità divine/animali.
Naru fa cadere il Predator nella palude. Per farlo possedere dalla Terra.
“Puoi arrivare solo fin qui. Non oltre. È la fine”
Naru ha lo sguardo aperto a ogni possibile, compreso l’impossibile. Il suo territorio di caccia comprende ogni tempo: il passato (le tradizioni e i saperi, le storie e gli erbari, i riti di passaggio e le esperienze del territorio, non teme gli spiriti, vuole anzi evocarli, vuole evocare il predatore invisibile ricoperto di scheletri di prede, un totem vivente che il suo popolo caccia e studia da milioni di anni) come i futuri (dove cadrà l’aquila infilzata dalla freccia, come avere sempre a disposizione il tomahawk, perché atterra un velivolo alieno/cosa significa un cigno nero-uccello del fulmine di metallo ed elettricità che appare dal nulla nel cielo, qual è il vero pericolo che incombe, quando decidere di agire in accordo al complesso intreccio di informazioni e immaginazione). È l’unica che vede l’invisibile.
“Si avvicina un pericolo. Ci dobbiamo spostare su un terreno più sicuro”.
Ogni segno è un fossile dal futuro, ogni traccia è un segno possibile di passati irrealizzati.
Mettere tempi in relazione è la risorsa principale della sopravvivenza. Movimento generativo della cognizione che entra in contatto con il paesaggio e quindi con un nuovo strano sé, per un’etica di comunità non solo umana.
She has composed, so long, a self with which to welcome him,
Companion to his self for her, which she imagined,
Two in a deep-founded sheltering, friend and dear friend.
The trees had been mended, as an essential exercise
In an inhuman meditation, larger than her own.
No winds like dogs watched over her at night.
She wanted nothing he could not bring her by coming alone.
She wanted no fetchings. His arms would be her necklace
And her belt, the final fortune of their desire.
But was it Ulysses? Or was it only the warmth of the sun
On her pillow? The thought kept beating in her like her heart.
The two kept beating together. It was only day.
It was Ulysses and it was not. Yet they had met,
Friend and dear friend and a planet’s encouragement.
The barbarous strength within her would never fail.
She would talk a little to herself as she combed her hair,
Repeating his name with its patient syllables,
Never forgetting him that kept coming constantly so near.
The World as Meditation, Wallace Stevens
Specchi
C’è un parallelo fra la protagonista di Prey e la Galadriel della serie Amazon gli Anelli Del Potere. Sono entrambe cacciatrici, sono cacciatrici di spettri, spettri che prefigurano un nemico molto più forte di loro. È un avversario impensato il loro spettro, che viene da un altro piano del reale, più oscuro e potente. Diventa necessario alla caccia tradurre quei pochi indizi sul terreno, trovarli e interpretarli, mentre se ne costruisce una narrazione. Sauron e Predator sono superpotenti, oltre alla loro imponenza fisica, attingono a un campo di forze e potere inaccessibile alle eroine umane ed elfiche che possono contare solo su spade, archi, tattiche e spirito di vendetta. Sauron e Predator, magia oscura e tecnologia-come-magia. Sauron e Predator rappresentano l’enormità dell’ignoto, l’inafferrabilità di ciò che si muove su un altro piano del percepito, ciò che è troppo oltre, che è inconoscibile. È la riproposizione di Gea vs. Cton, Linguaggio vs. Mondo, Umano vs. Non-umano, in termini non più di opposizione dialettici. Lo spettro si può cacciare, noi possiamo infestare il mondo dello spettro, saturarlo al punto da renderlo più carne e ossa possibile, al punto di annientarlo, qualsiasi forma abbia, pur sapendo che la minaccia che lo spettro porta con sé non finirà, pur sapendo che in fondo il vero male sta infondo altrove (i coloni occidentali in Prey, il cuore vacillante degli uomini nella seconda era di Arda). La spettralità dell’Antropocene è totale. Il futuro attacca il presente, l’estinzione è già iniziata, nessuna azione di Homo oggi può fermare il cambiamento climatico.
Perché un film oggi ripesca un alineaccio tamarro pompato anni ’80? – perché Predator arriva dagli anni 80 – perché la protagonista sembra uscita fuori da un manga? Perché i comanche in versione buon selvaggio? Perché il cane, aiutante fondamentale, estensione braccio-mente dell’eroina? Perché Predator si fa fottere da un’adolescente. Perché la storia, dal suo punto di vista, è una disfatta totale, arriva con una navicelle intergalattica e si prende una pistolettata sulla nuca, dimentica che non ha più il casco, che cacciatore è mai? Il primo caso nella narratologia pop in cui l’invisibilità non serve a nulla. Perché la protagonista non vede predator, lo intuisce. Perché la protagonista non caccia Predator – ne è terrorizzata, salvo sul finire della storia – ma lo cerca. Ed è una ricerca curiosa, lei sa che non può farci nulla ma lo cerca, lo avverte, ne segue le tracce, vuole forse solo ritrovarsi faccia a faccia col mostro. Cosa fare? Non lo sa. Ma lo vuole trovare, lo vuole vedere, vuole dire “avete visto? Avevo ragione! C’è un mostro più forte dell’orso e del leone”. C’è un mostro migliore. È timore sacro, reverenziale, è ricerca profana di qualcosa che viene dal cielo e che morirà sulla terra. È un’operazione demonologica. Predator precipita dal cielo come un diavolo, non è uno spirito cattivo nativo, più un fratello minore del diavolo cristiano. Naru è san Giorgio, senza cavallo – immagine occidentale per eccellenza – ma con un cane, compagno di caccia per eccellenza. Perché Naru non è un cavaliere senza macchia e senza paura, Naru è un’aspirante cacciatrice, segue le tracce, interpreta i segni, usa il paesaggio come arma. È la strategia l’arma di Naru. È la paura e l’ignoranza degli altri. È il balletto eterno uomo-lupo. Naru non è un cavaliere, no. Non salva nessuno. Potrebbe andarsene, Predator non l’attaccherà mai e probabilmente predator non arriverà mai al suo insediamento, distratto dallo spirito sanguinario degli occidentali in arrivo. Naru non salva nessuno. Il suo è un atto egocentrico, un’affare personale, un conto in sospeso con il suo processo di costruzione identitaria. Il collasso dei comanche è inevitabile. Forse sarebbe stato meglio avere Predator che gli occidentali. Ecco che Naru, come gli occidentali, come gli uomini, tutti, non può rinunciare all’istinto di guerra. Cosa differenzia Naru dei francesi grassi e pacchiani? Nulla. Certo è carina, ha gli occhi grandi, è gentile verso gli animali morti (e qui mal si comporta il team di antropologi del film perché la reverenza verso l’animali ucciso non si dava solo verso i grandi erbivori ma questo ci viene mostrato, non sappiamo perché, se per ignoranza, negligenza, scelta politica, scelta estetica), sta compiendo un percorso di emancipazione. Io vorrei vedere cosa succede dopo. Naru riuscirà a uccidere intere compagnie di occidentali pazzi? Naru riuscirà a essere capo guerriero rispettato e temuto oppure dovrà portare di tanto in tanto una testa d’orso o di leone? Naru andrà ala ricerca della navicella di predator? La mattina dopo si sveglierà fiera e orgogliosa o traumatizzata per l’assassinio violento del fratello a un metro da lei? Perché la Disney distribuisce oggi in Italia un film in cui si ripesca un alienaccio verde, umanoide, muscolosissimo, dalla tecnologia retrò? Perché la Disney non si preoccupa di farci vedere un film che ci mostra animali squartati vivi ma che glissa sulle violenze sessuali che subivano le native catturate dagli occidentali? Perché il vero mostro doveva essere predator e l’umanità in fondo tanto male non è? Perché è meglio “il cattivo conosciuto che il buono da conoscere”? Penso a un’umanità che rinuncia alla tecnologia e alla guerra pur di sopravvivere in un pianeta abitato da predator, una sorta di autocondanna alla devoluzione pur di sopravvivere come le civiltà di Cixin Liu che si autosalvano chiudendosi dentro un’area dove la velocità della luce è rallentata – noi non siamo una minaccia per voi lasciateci stare, lasciateci mangiare bere e fottere tranquilli, il sogno del neoliberismo borghese. Abbiamo bisogno del grande male per capire il piccolo bene? Probabilmente sì. Ma nell’Antropocene manifesto il grande male è già arrivato, ha già messo le radici ed è invisibile, come predator. Colate di fango e budella. Lo vediamo. Eccolo. Ci accorgiamo che, invisibile o no, siamo fottuti. Speriamo nell’aiuto del cane, che una volti morti, mangerà volentieri le nostre budella.
Prey ci dice cosa l’umanità può fare e cosa no, limiti e possibilità, pregi e difetti. Gettare il cuore oltre l’ostacolo e torturare. Senza la guerra saremmo il popolo eletto. Guerra, lo so che è un film sulla caccia, ma predator vede due cose: l’arma e la testa. Il film produce un progressivo slittamento fra la caccia e la guerra. Per ignoranza? Per banalità? Per esigenze di trama? Lo fa. È questo che conta. E io sono scivolato con piacere. La caccia-guerra. L’attitudine, il mindscape di specie. In prey l’escapismo arriva alla fine. Il turning point è quando, ucciso il fratello, naru decide di non rinunciare. Il turning point identitario coincide con il possibile annientamento della protagonista, che è semplicemente il suo essere totalmente ignorata, privata del suo io identitario, guardatemi sono donna bella e caccio meglio degli uomini, che invece vince, perché è un film e si deve pur raccontare qualcosa che ispiri chi la guarda o l’ascolta. Eccomi sono qui, sono così e ti uccido. Meno male. Identità croce e delizia. L’affermazione del sé, di specie e del singolo, coincide col l’affermazione dello spirito guerriero, eroico ma non tragico. Naru è l’eroina del cristianesimo epurato. A morte i mostri e gli infedeli. È la paladina del sincretismo religioso dell’antropocene dei credenti. Morti gli infedeli prima (a causa del peccato-guerra senza rispetto incarnato dal mostro-demonio) e il mostro-demonio poi, spostiamoci perché sta arrivando il vero pericolo. Il vero pericolo non sono i muscoli e la tecnologia ma il colonialismo. L’infedeltà ai dettami liberali e pseudoecologisti. Il vero male però non è il demonio dentro-fuori di noi, siamo noi quando ci organizziamo alla cazzo, senza strategia reale visione e previsione del futuro, siamo noi che incateniamo e scuoiamo i bisonti e avveleniamo l’acqua. Non si fugge da questo. E non lo fa, in fondo, neanche Naru che però coglie nel suo limite la sua grandezza. Quanti ce ne sono così? Quanti esseri umani ci sono così? A che serve questa grandezza nell’ottica della sopravvivenza della sua comunità? E noi come specie? Diamond dice che l’esistenza dei grandi uomini della storia è irrilevante nell’ottica della grande storia del grande gioco geografico dell’umanità sulla Terra. I nativi sono stati decimati dalle malattie e dall’alcol e predator alla fine ne esce come un nemico irrilevante se non per l’emancipazione del singolo che nulla porta sul piano sociale diffuso. E se ne potrebbe fare una lettura enorme in questo senso. Muscoli e tecnologia non servono. Strategia, ricerca, anche ossessiva, e visione invece sì.
““Nel mio immaginario antropocenico gli anni 80 sono il decennio della monnezza. Pensate a tutti gli oggetti che servivano per fare le cose che oggi fa uno smartphone di serie c. Ma predator è un cacciatore con un etica (quantomeno nel primo film della serie) che viene dall’immaginario del decennio della monnezza. Predator è eccessivo come gli usi, i costumi e l’estetica degli anni 80. Predator è il fantasma del consumismo che ci tormenta ogni qual volta ci facciamo i conti in tasca per la bolletta della luce d’estate. Predator è l’incubo che viene dal passato dell’immaginario che ci ricorda che ci siamo inculati il futuro e ora lui incula noi senza preliminari. C’è dell’ingenuità dietro l’estetica dei comanche in prey. Nel Settecento c’era ancora dove nascondersi. Oggi non più. Immaginate un film ambientato nel futuro, che so, nel 2148, in cui l’umanità vive in un mondo super tossico e arriva pure predator a rompere i coglioni. Sarebbe un film tanto diverso da quello ambientato nel 700 con i Comanche? Tolta l’estetica dei personaggi, avremmo sempre un’umanità in fuga, avremmo sempre un super predatore più super degli altri – un altro virus, un altro alieno, un altro spettro, un altro nemico. E la risposta sarebbe sempre la stessa. Chi ci può salvare se non la visione? Chi ci salva se non la capacità di vedere prima, immaginare scenari, farsi guidare dalla sopravvivenza organizzando una resistenza di specie. Forse Prey vuole dirci che le micro comunità sono la strada per affrontare il collasso. Forse prey vuole dirci che è ora di praticare una società non maschilista. Forse prey vuole dirci che in fondo meglio essere cacciatori che prede o forse vuole dirci proprio il contrario. Forse Prey vuole dirci “guardate che nel prossimo pianeta che colonizzeremo faremo le stesse cose che abbiamo fatto nel nostro”. Forse prey vuole dirci però che possiamo avere speranza. Che ci salveremo da soli, con un fedele alleato e con una cieca visione di sopravvivenza.””
Se vi chiedete chi siamo, probabilmente è nelle foreste che dovete cercare le prime risposte. Se vi chiedete qual è il posto dove tutte le nostre capacità trovano applicazione, dove tutti i nostri sensi si accendono fino alla dimensione spirituale, fino all’utilizzo consapevole, permeante, controllato di quelle facoltà per cui non abbiamo neanche un nome, è nelle foreste che dovete cercare le risposte. I cacciatori raccoglitori non erano per niente dei rozzi zoticoni, al contrario forse erano noi più di noi stessi. Il bagaglio di conoscenze e capacità di un cacciatore raccoglitore era di gran lunga superiore a quello dell’uomo medio di una società moderna e spaziava dalla botanica all’astronomia, dalla chimica all’artigianato, dalla geologia alla meteorologia. Un sapere non accademico ma pratico, non tanto delle cause prime ma degli effetti ultimi. Un sapere volto a restare a galla e muoversi sulla superficie del mare ostile, laddove il contemporaneo uomo di scienza sarebbe andato rovinosamente a fondo, pur conoscendo a menadito la struttura molecolare dell’acqua e i dislivelli di pressione atmosferica alla base dei venti. I nostri occhi colgono con particolare sensibilità la lunghezza d’onda dello spettro visibile intorno ai 550 nm, al confine tra il verde e il giallo. Abbiamo evoluto il nostro nervo ottico per dotarci di una maggiore sensibilità alle sfumature del verde, perché la percezione affilata di questo colore è stata la differenza tra mangiare ed essere mangiati per millenni. Se vi chiedete qual è la voce che ancor prima dei nostri timpani colpisce la nostra psiche, è quella della foresta. Lo sfregare delle foglie sui rami, il tac sordo di un ramoscello che si spezza, l’esplosione di un latrato in lontananza, un sasso che cade nell’acqua, un passo che affonda nel terreno.
Noi siamo nati per prestare l’orecchio a questo genere di suoni. E ancora per sentire quell’odore insolito che si insinua nel petricore, per notare quel mucchio di foglie stranamente spostate contro vento, quella luna increspata sull’acqua un attimo prima immobile. Siamo nati per muoverci in sintonia completa coi nostri compagni di caccia, umani e non umani, dei quali conoscevamo a memoria i movimenti, le debolezze, i sentimenti.
Per sentire infine la foresta, alla quale apparteniamo, dalla quale prendevamo e alla quale eravamo pronti a tornare.
Se vi chiedete chi siamo, dovete partire dalle foreste, e nelle foreste, dalla caccia; che non è mai stata solo volta al cibo o alla distrazione, ma sempre una ricerca, un dialogo con l’alterità e con se stessi, col conosciuto e l’inconosciuto. La caccia è un viaggio che si libera crudelmente di chi non rispetta le sue regole. Anche a gente come noi, murata nelle scatole dell’individualismo neoliberista confortevole e cannibale, il pensiero della caccia è familiare. Ci dice qualcosa che comprendiamo senza analizzare. Ogni storia che parla di caccia è una storia che parla di noi.
Prey è un trionfo in salsa pop di tutto questo. Per questo non ci lascia intatti. Ci contamina qua e là di sensazioni che ci pungono, come il graffio di un felino su un albero, gratta lo scorrere della solita catena di pensieri routinaria, come un qualche ricordo lontano che tentiamo ma non riusciamo più a mettere a fuoco, ormai solo un ectoplasma emotivo. Naru è una comanche, smussata per risultare commestibile al nostro immaginario cinematografico, un po’ sciamana guerriera un po’ principessa Disney in cerca di riscatto. Naru è un membro di una civiltà sull’orlo del collasso, sempre più consapevole ormai che la vera apocalisse aliena, quella degli invasori dallo spietato pianeta Europa non è più evitabile. È in questo spaccato che appare l’inconosciuto di fronte al quale si è tutti prede, tutti primati della prima ora confusi davanti a una tempesta elettrica sul mare, a un baluginare di luci verdi oltre il circolo polare artico. Il mostro è presente in tutte le colture e quello dotato di una tecnologia iper avanzata è solo la sua declinazione postmoderna. Francesi e Comanchi sono uguali di fronte al mostro alieno, perché per combatterlo è richiesto un solo prerequisito: appartenere al genere homo sapiens, tirare fuori gli strumenti che hanno consentito alla nostra specie di contrastare era glaciali e megafauna. Bisogna trovare una strategia che funzioni a partire dalle nostre mani e dalla nostra testa, che sappia individuare le debolezze del nemico e sfruttare l’aiuto dei compagni rimasti e di un terreno conosciuto. L’uomo che arriva dall’altra parte di questo viaggio diventa cacciatore. Questa è infine la storia di Naru. E anche la nostra storia, quella che crediamo di aver dimenticato.
Quindi
L’ethnobuilding di Prey è una macchina narrativa a doppio taglio. Mentre da un lato illustra una procedura decisionale corretta in presenza di un macroevento distruttivo (l’arrivo dell’uomo bianco), dall’altro propone una visione neocoloniale del nativo che in pratica azzera il messaggio. Non si tratta solo di superficialità frettolosa e di folklorismo “per bianchi”, ma di appropriazione di un setting storico, naturale e umano per riproporre l’ennesima declinazione dell’eroina adolescente Disney, da Merida a Moana. Il cliché della rottura con la tradizione, del rovesciamento dei ruoli di genere, del coming of age è una tipica proiezione occidentale bianca su gruppi umani che vivevano le stesse questioni in maniera diversa e complessa, orientata a soluzioni e in contesti culturali che ci sfuggono quasi completamente. L’impressione è quella di un riuso di superficie che non si limita a tradire i fatti reali ma li svuota e li riduce a un mero involucro, come un costume di Pocahontas a una recita di Thanksgiving. Questo procedimento, visto e rivisto al punto da passare a grado zero, ha forse però uno scopo più sottile del semplice cinismo neoliberista. Perché la saga di Predator viene declinata in un cronotopo simile? Semplice esaurimento di risorse narrative o capacità di intercettare un altro immaginario del collasso? La trasposizione nel 1719 di “catastrofe che viene dal futuro” (Terminator, Tenet, The Tomorrow War) è una mera declinazione “esotica” dell’assunto antropocenico o è lo sforzo di illustrare varianti e variabili nuove del potenziale narrativo? La risposta è nel titolo: l’attacco dal domani non è solo una minaccia nucleare o un’armata aliena, dunque una dialettica convenzionale, ma è una predazione (di corpi, di risorse, di idee), una regressione primaria da “guerra” ad “agguato”. Tutto il film è un moltiplicatore di trappole e appostamenti, di sopravvivenza artigianale e bricolage di difesa/offesa. Quello che si legge in filigrana, quindi, è uno shift strategico-cognitivo: se vogliamo reagire agli agguati del futuro dobbiamo adottare tecniche analoghe, e se vogliamo apprendere tecniche analoghe non possiamo affidarci a un asset convenzionale. Di qui l’intuizione: il repertorio etnico non serve solo a ciarlatani sciamanizzanti o a scrittori esausti, ma può offrire all’occidentale urbanizzato un altro mindset di sopravivenza. L’ethnobuilding del film, al netto di scivoloni etnografici e residui patriarcali, ci sta indicando una pista per rivitalizzare non una saga cinematografica ma un toolkit cognitivo: meno muscoli, più cucina svuotafrigo. Il punto del discorso, in Prey, sta tutto nel finale. Lei torna, dipinta con il sangue del predatore, capo guerriera de facto, condizione suffragata dalla testa della creatura che da cacciatore s’è trasformata in cacciato. La sua preoccupazione non è ostentare la propria conquista a conferma formale del proprio status. La sua preoccupazione è la salvezza della sua gente e prime parole che si premura di pronunciare riguardano questo.
Il terreno su cui vivono è diventato pericoloso. Dobbiamo spostarci.
E qui capisci davvero perché Naru è il capo guerriera naturale della sua tribù. Non per il tomahawk al guinzaglio stile Mortal Kombat. Non perché ha prevalso su tutto e tutti nonostante la sua condizione di inferiorità fisica, oltre che sociale essendo donna in un determinato periodo storico e tutto grazie alla sua spiccata intelligenza. Naru è il capo guerriera perché conosce, anzi, comprende il suo territorio.
E il suo avvertimento non riguarda il Predator.
Quello è un caso eccezionale e lei lo sa. Ma i pionieri, quelli no. Quelli sono un’altra tribù che per ora, solo per ora, è riuscita a tenere a bada. Ma torneranno. Armati. Numerosi. Senza pietà. E allora non ci saranno guerrieri che tengano. Non ci sarà Naru che tenga. I vecchi schemi, le vecchie strategie, i vecchi strumenti, sono obsoleti, non bastano più e già questa volta la tribù esiste ancora per una combinazione di fattori in cui la fortuna ha giocato un ruolo non di secondo piano.
Naru ha capito che, ammesso e non concesso che la sua gente abbia un futuro, non sarà mantenendo lo status quo. In tal senso il ruolo del Predator è più importante in termini di metafora, di concetto, di strumento di pensiero che ti permette di rilevare lo stimolo che costringe una specie, un gruppo, una tribù, a variare l’assetto del proprio mondo interiore, sia collettivo che a livello d’individui.
Il Predator è un avvertimento. Il Predator è una sineddoche. Il futuro sta nella misura in cui saremo in grado di coglierlo.
-La tribù di Naru non sopravvive/sopravvive. Il feral Predator è funzione nella sopravvivenza. Una tra le tante. Forse l’ultima. È una questione di tempo, come useranno quello che rimane.-
All’estrazione su Prey hanno partecipato Bresci, Mattioni, Meschiari, Moscarelli, Sorce, Tevini, Vena, Verdolini.
L’ha ripubblicato su Downtobaker.
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