Apnea

«Noi siamo qui da quattrocento anni». Non posso sottrarmi allora a questo flusso profondo. Il Maestro disse una volta che solo loro oggi hanno conservato un’idea diversa di Tempo – noi cerchiamo l’atemporale. È fu questa la risposta alla mia domanda «quanti anni ha qui», guardandomi attorno, nel chiostro, su un monte sparuto che si abbatte su un altopiano di campi coltivati grigi e marroni. Voglio anch’io essere parte di questo Tempo. Sbirciare in quell’altro Noi, per qualche giorno la settimana, per qualche tempo, un anno un mese che sia. A mille metri di altitudine, dove il mare non si vede, e le strade sono ancora irrimediabilmente sentieri. Torno a casa, la luna piena, un ammasso piramidale di paglia mi attraversa il selciato sbrilluccicoso wow. Ma che roba è? Ma ha delle zampe e si muove goffo ed eterno. Credo fosse un’istrice, credo quella roba fossero i suoi aculei cresciuti a dismisura. Il Maestro dice che la sua carne è prelibata e la caccia solo di frodo. Due ore di nulla, il viaggio in silenzio perché ho una macchina vecchia e stanca ma che ci tiene sempre a fare bella figura. Le luci delle città che sbucano improvvisamente. Le stazioni di servizio inaccessibili per i lavori in corso. I led che avvisano del prezzo del gasolio esorbitante. Il porto merci, il porto umano, l’aeroporto militare zona invalicabile. Il ritorno in città è questo. L’ansia della fine che torna dopo due giorni di apnea montana. Se scoppia una bomba nucleare però nessuna due-giorni bucolica fermerà la nube tossica. Forse l’altopiano è una barriera o forse no. Forse in città si sopravvive meglio o forse no. Lo Stratega mi piglia per il culo. Nessuna bomba. Nessuna terza guerra mondiale. Cambiare scenario. Uscire dal trauma del crollo dell’URSS. Io non ho mai creduto a un mondo polarizzato. Guardo chili di anime però e voglio tatuarmi Gojira su una coscia. L’ansia da conflitto globale è un’ottima scusa per scialacquare denaro nelle bevute e dire di sì a un tipa con cui non saresti stato mai. Il punto è che non basta accettare l’Antropocene con tutto ciò che è e che si porta con sé. Il punto è mandare a cagare anche le contronarrazioni. Costruire quindi una contronarrazione delle contronarrazioni come costruire un forte dentro il forte, anzi no, un bunker sotto il forte dentro il forte. Anzi no. Come costruire una via sotterranea che dal bunker sotto il forte dentro il forte ci porti in salvo, in luogo luminoso dove c’è acqua, legna, riparo e qualche coniglio da allevare per avere di che mangiare. Okay, forse mettere tutto da parte e ricominciare da zero con gli occhi verso il globo tutto e tutta la storia dell’uomo. Tutto. Ipercomplessità. Iperpoetica. Penso alle scene della battaglia del fosso di Helm. C’è una via per chi non sta combattendo. Una via ultima oltre la morte annunciata. Ma qui servono vie plurali. In teoria. In pratica, forse ne basta una, per ora, perché di meglio non riusciamo a fare. Sto leggendo Le Vie dei Canti. I miei due ultimi scritti sono stati rifiutati. Troppo fuori. Troppo lontani da ciò che ci si aspetta (eppure fra quelli vecchi, i mezzi compitini riusciti benissimo, qualcuno mi è stato pure plagiato). BOMBA! Le truppe Nato al confine e la nube di indifferenza! L’ultimo albero sarà rescisso domani. I sottomarini armati si aggirano insieme agli spettri di spermaceti già estinti. Quanta paura fanno i reel dove emergono improvvisamente lanciando barriti cosmici fra i vacanzieri in costume. L’umanità antica è quella che dorme sotto la torre, quando c’erano solo torce e il cielo stellato del terrore adesso, mio caro, musiche del Signore degli Anelli. Guardavo l’isola dall’isola quando è scoppiata la guerra. Quel giorno non partirono navi per il brutto tempo. Una stretta al petto. E se restiamo isolati? Blocco navale totale nel mediterraneo, nessuno parte nessuno arriva. Se nessuna nave domani, dopodomani, fra una settimana, non dovesse arrivare, cosa mangeremmo? Oppure. Semplicemente si dimenticano di noi, qui, a guerra in corso, perché esplode il porto della città. L’acqua non sappiamo più desalinizzarla. Come fuggiamo? Okay gli sbirri hanno un paio di imbarcazioni decenti, esproprio popolare. Qualsiasi tattica complessa o strategia semplificata dipende, è, costruita, da due cose: la geografia e la fiction. La geografia ci dice che alcuni conflitti sono inevitabili. La Russia è in una gigantesca pianura, gli Usa vivono in un mondo tutto loro fra atlantico e pacifico, la Cina è un’incognita. Eppure gli individui che compongono le tattiche sono sempre individui, con le loro nevrosi, significati che sfuggono. Quando si è considerata la patologia del singolo? Oltre la storia dei popoli, anzi, nel profondo della storia dei popoli, quante microstorie patologiche ci sono? Chi è sano oggi? O meglio, chi oggi ha una visione sana del futuro? Dobbiamo supporre che l’equilibrio del mondo sia retto da fili invisibili ma saldissimi o dobbiamo temere che questi fili saldissimi sono legati da nodi umani, semplicemente umani, quindi sfilacciati dai tempi, imprevedibili e, vertiginosamente, patologici? È la fiction che imita la vita o la vita che imita la fiction? Quanto pesa nella psiche l’immaginario della bomba, del fungo, dell’annientamento, della distopia da guerra fredda? Mai la Terra è stata così tanto legata al Mondo degli uomini. Mai gli uomini sono stati così tanto legati alla storia della Terra. Eppure c’è una vita che scorre oltre la fiction. Strade invisibili, una rete magica di individui in collegamento h24 che salvaguarderebbero la specie, in extrema ratio. Questa è fede o deduzione? Escapismo o immanenza. Fuga o alienazione psicotica. Attraversare immergersi. Dov’è l’altrove oggi? Dov’è l’oltre dell’Antropocene? Dove sono le colonie extra-mondo, le macchine a idrogeno, i cyberinnesti? Lo spettro della Storia come storie di massacri, appropriazioni, deportazioni e fame, è tornato a vivacchiare nelle nostre case. La bolla di pace e oblio delle coscienze è finito. Nessuna illuminazione però, nessuna nuova guida di morte e resurrezione. Ma della rinascita e sopravvivenza, obbligata, solo i cunicoli bui e senz’aria di una città-catacomba che si dirama parallela e cristallizzata in attesa di santi, in attesa della beatificazione, in attesa di un deserto a cui rimandare l’espiazione, in cui seppellire le colpe. Troppi fili, troppi equilibri, o forse solo troppi interessi che non comprendo. Cosa ti tiene in vita, amico mio? Cosa ti abbaglia a tal punto da frastornarti, ne vale la pena lo sbocco e il giramento di testa, dopo il lavoro, “non si scappa mai dalla macchina”, e quel senso mesto del pudore quando ti guardi allo specchio e vedi quel segno in più sotto l’occhio sinistro, quella lieve crepa in più sul tuo dolce viso innocente? Il giusto o lo sbagliato. L’errato o l’errore. L’orrore pornografico di svegliarsi, a mattina, nell’Antropocene manifesto. La geopolitica è pura fiction onanista. I tuoi miti, seppur i tuoi bisogni, sono puro rigurgito di una cultura agli sgoccioli immaginativi. L’Antropocene non lascia scampo, sottrae tutto a sé stesso. Come preferiresti morire, di stenti, combattendo, inabissandoti in un mare inesplorato su Europa? É già troppo tardi, gli archetipi e le paramentalpsicogonie sono tornate. Quale biasimo? Il mio sì. E gli incubi si allungano con la notte invernale. E ora ho deciso guardo il mondo per come mi si mostra. Guardo gli altri come si mostrano. Nel cuore di ognuno c’è il crollo della speranza, totale, e c’è l’imbarazzo dell’imbellettamento rituale, a parole, a immagini, stanche. O no? Tutte le idee, le ideologie, le narrazioni, hanno uno scoglio incrollabile, minimo o massimo, di fiction. Disimparare allora. Disapprendere. Sottrarsi prima di autosottrarsi. Eppure c’è sempre una vita antropocenica che scorre fra i monti e no, non c’è nulla di interessante. La fiction delle montagne imita la vita delle città. In città, se liberi di tracciare un segno su una tela, scarabocchiamo animali, alberi, fuochi, onde e barche solitarie. Qualche viso umano. O umanoide. Queste ancora le nostre ossessioni. Ciò che non siamo più è ciò che ci abita in silenzio dall’alba dei tempi, e che cerchiamo con altrettanto silenzio, di vergogna (la sensazione di una falla incomprensibile fra noi e il mondo), e con una cecità da stolti, bendati, come ubriachi, a tentoni e fiduciosi, in attesa. Siamo gli animali che non siamo, siamo le avventure che non viviamo, siamo la bomba che non esplode. No. Non esplode.

Giuseppe Sorce

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