Diego non conosceva il mare. Il padre, Santiago Kovadloff, lo portò a scoprirlo.
Viaggiarono a sud.
Lui, il mare, stava al di là delle alte dune, in attesa.
Quando il bambino e suo padre, dopo un lungo cammino, raggiunsero finalmente quei culmini di sabbia, il mare esplose davanti ai loro occhi. E fu tanta l’immensità del mare, e tanto il suo fulgore, che il bimbo restò muto dalla bellezza.
E quando alla fine riuscì a parlare, tremando, balbettando, chiese a suo padre:
«Aiutami a guardare!».i
“Landness” è la parola che dà il titolo al nuovo libro di Matteo Meschiari.ii Un lemma cavo, un’idea vasta che sembra bordeggiare il Gargantua di Interstellar con una manovra a fionda, per superarne la forza di risucchio che chiamiamo Antropocene e continuare il nostro viaggio terrestre. Lo si sta traducendo con territà. È lo stesso autore a scandagliarne possibili significati:
territà s. f. [der. di tèrra dal lat. terră] – a. L’Eros per la terra che ci rende Sapiens. b. In antropologia, la condizione immanente dell’esperienza umana in quanto specie appartenente alla Terra. c. L’immaginario terrestre prodotto dalle varie culture del mondo. d. Nelle neuroscienze, l’origine paesaggistica delle strutture cognitive umane. e. Pensare la Terra come matrice mitopoietica.iii
Landness (il libro) è esso stesso un corpo polisemico di vent’anni di studio, di incontri intellettuali come snodi cognitivi, di abbacinanti immagini-lievito, esperienze pedotattili e luoghi-persona dai quali l’autore si è lasciato lavorare. Una genealogia scistosa che si ripercuote nella tettonica narrativa: dal diario di viaggio alla theory fiction, dal saggio al memoir, l’orientamento stratigrafico del testo si modifica, mostrando le sedimentazioni, permettendo letture multiple.
Sono molti i fili intrecciati dall’autore, molti i rimandi ai temi affrontati nei suoi testi precedenti.iv Il più diretto: Geoanarchia.v Ritroviamo infatti Pëtr Kropotkin, Elisée Reclus e Mosè Bertoni, geografi anarchici dell’Ottocento che hanno saputo esprimere la carica eversiva delle Terre Estreme, trasporla in metodo e assumersene una responsabilità politica; e più recenti “scrittori della Terra” come James Kilgo, Lorand Gaspar e Kenneth White, Gary Snyder e Seamus Heaney, che, seguendo i crinali sottili tra i saperi e la vita, hanno aperto vie per alimentare quel “ritorno quasi biologico della speranza” (p. 86).
L’iperoggetto Terra è ora il nostro non-pensabile: l’irruzione di Gaiavi sta agendo su ogni sistema umano e nonumano, globale e puntiforme, agisce sé stessa in modi ignoti alla nostra civiltà, per pervasività, magnitudo, frequenza. Se l’Antropocene è l’epoca del dis-locamento – dei corpi sloggiati e migranti, della capacità di discernimento cognitivo verso fughe variamente lisergiche, del TempoStoria neoliberista, della centralità dell’Uomo e della sua hybris agentiva, della facoltà immaginativa prestata al mercato performativo – se è un’epoca di dis-abitazione, di una homlessness, allora, piaccia o no, sbalziamo nell’incerto-nomadico di quel Sapiens alla perenne ricerca di “casa”vii che fu però capace (giacché siamo ancora qui come specie) di una pratica situata e di una pensabilità antropologica, primaria, della terrestrità fissata da sempre nel suo scheletro. Come risvegliare questa “competenza antropocenica che servirà alla nostra specie per passare la faglia”(p. 86)?
Epistemologie indigene verrebbe da dire, alterità radicali: popoli non occidentali che dispongono di strutture sociali e cosmogonie antropogeomorfiche immanenti, adatte ad alleanze/appartenenze alla rete del vivente, ad accompagnare i riti di passaggio trasformativi di umani, di paesaggi e comunità, di epoche e catastrofi. Eppure, possiamo uscire dalla dimora dei patriarchi, dalla domesticità urbana delle accademie, verso le terre incognite, seguendo anche altri segnavia e imparare a sentirci “a casa nel Grande Fuori” (p. 182).
A fondamento c’è l’idea di esporsi “nudi di fronte al limite, alla potenza fantastica, alla luce dei paesaggi ultimi. E da lì risalire a una sola, tragica idea, dura, dolcissima: la Terra” (p. 10). Allora, ci serve un Kropotkin che, nel gelo di una prigione russa e poi in quello siberiano, immagina un ghiacciaio che rivoluzionerà la storia della glaciologia; un Reclus che, randagiando febbricitante in Sudamerica, intuisce che il paesaggio è la matrice dei processi cognitivi e l’immaginario la sua operatività; un Bertoni, immerso in una folle utopia sociale, che ha messo la visione geografica della Terra al centro della sua vita e delle sue opere. Ci servono i dipinti animici di Gino Covili – nei quali terra, uomo, animale, pianta, pittura a olio si travasano l’uno nell’altro – e il “fuori contesto” della balena a grandezza naturale di tessuto imbottito che Claudia Losi ha portato nelle città. Ci servono le poesie organiche di Gaspar e quelle torbose e archetipiche di Heaney; osservare il giardino nomade di Andres Lutz & Anders Guggisberg e sostare nell’atelier geologico di White. Ci serve scoprire James Kilgo, per il quale il paesaggio “funziona da cerniera” tra mondi lontani nel tempo (p. 114), da connettivo intergenerazionale.
Figure guida che ci aiutano non a trovare, ma “a tagliare” (p. 133), gente che ha praticato il poetico e politico, ha immaginato forte e ha osato incarnare il sogno.
E qui emerge un altro scisto. Perché Landness è soprattutto l’adesione ai momenti germinali di un immaginario che ha portato l’autore – e tutta la compagine di geografi, poeti, viaggiatori, narratori, artisti da lui chiamata a raccolta in questo libro – a un’esplorazione inesausta, a tratti nostalgica e dissipativa, della connessione intima tra le midolla antropologiche e le arterie del pianeta; è la lealtà verso quella verità intravista, intuita, annusata, in condizioni di apertura fanciullesca (anagrafica o di temperamento) ed esposizione pre-linguistica al mondo. Un imprinting, che è anche la nota iniziale del libro, dove l’autore bambino è assieme al padre che gli racconta l’Odissea e dal quale eredita un vecchio libro sull’orogenesi terrestre: “Io vengo da lì. Da quella confusione infantile tra epica e paesaggi” (p. 10). Quell’incipit, dopo 230 pagine di randagismi, tra storie e geografie, trova ricucitura nel pensiero di quell’età bambina, “quando si seminano i semi che resteranno incistati per sempre in qualche voluta del cervello” (p. 233).
Il punto non è certo la parabola biografica dell’autore o dei personaggi raccontati. Il punto (e il pungolo) è la domanda di ricerca che ribolle in tutti i lavori di Meschiari:viii e le bambine, i bambini? Cosa lasciamo ai bambini e alle bambine, oltre a una catena di collassi dei sistemi planetari? Oltre al mito-zombie del produttivismo neoliberista, tra programmi scolastici, parcheggi di distrazione coatta, surrogati digitali e gite naturalistiche, agende serratissime del quotidiano con cui saturiamo le loro vite? Oltre la nostra (di adulti-non-adulti)ix onnipresenza irriducibile a ingolfare l’immaginario con un presente senza vicarianza di futuro?
Infatti, placato lo sciame sismico della lettura, il precedente dello stesso autore che più degli altri sento tambureggiare, è Bambini: “Che ne sarà dei nostri figli buttati nella prossima notte sociale (…)?”xLa discesa ipogea che ruota attorno a questa domanda viscerale è in fondo la stessa che percorre Cormac McCarthy con La strada o Richard Powers in Smarrimento;xi è quella che spinge Amitav Ghosh, ne La grande cecità, a chiedersi: “cosa posso fare per proteggere i miei cari adesso che so cosa ci aspetta?”xii
Ma se in Bambini si esaminano i grumi di una biopolitica famigliare che sistematicamente disinnescano la potenza vitale dell’infanzia, in Landness si legge la filigrana di sentieri possibili per tornare noi (adulti-non-adulti) a mutuare quello spazio maieutico dell’immaginario incarnato – minerale, animale, atmosferico. Perché una cosa è certa, dice Meschiari, “stiamo di fatto rinunciando a formare bambini e bambine alla prossima Resistenza” (p. 228). E cita un’altra autrice, Lydia Millet,xiii che registra “l’incepparsi della trasmissione generazionale, l’incapacità di vedere sul serio le proprie figlie e i propri figli per il troppo guardarsi nel riflesso di uno specchio anticato (…) incapacità di mollare le priorità di quarantenni e cinquantenni onanisti per concentrarsi su bambini e adolescenti ormai ai bordi della wilderness” (ivi).
Quella “speranza biologica”, o potremmo dire ottimismo di specie, non è un sentimento: parla di un agire quotidiano che ha il respiro delle generazioni. Speranza parla di come essere dei buoni antenati nel collo di bottiglia della pace climatica olocenica, dentro un’estate invincibile, nell’assetante morte dei ghiacciai.xiv E se la territà fosse l’orizzonte immaginabile, se fosse un programma geo-politico di una rinnovata abitabilità terrestre, allora per Meschiari serve una nuova geografia che ci affranchi da distopia e paralisi, che sia metodo pedagogico per chi “voglia sviluppare un discorso sensato su Terra e libertà” (p. 105):
“[Geografia] Non come disciplina ortopedica del disordine naturale ma come pratica dell’immaginario, come tensione esplorativa dell’invisibile. (…) Dal primo gesto cartografico nel Paleolitico superiore all’ultima carta che verrà disegnata da un umano, la dimensione utopica e visionaria della geografia è la domanda e la risposta a tutto. (p. 94-95)
Ecco che l’ipertraducibilità di quel suffisso –ness permette di azzardare un’altra topologia, meno spendibile forse, ma parimenti centrale: terranza. T-erranza. Un movimento, una cinestesia di corpi nel corpo della Terra, una prossemica del mindscape (spazio pensato) nel landscape (spazio concreto), un tracciamento di quei pattern batesoniani che connettono mente e ossatura terrestre: “(…) se è vero che già prima di essere Sapiens sapiens il nostro cervello si è modellato sui paesaggi terrestri per capire i paesaggi terrestri, e per usare i paesaggi terrestri come metafore della complessità (Landscape Mind Theory).” p. 223
Arriviamo, allora, a due ipotetiche articolazioni ricombinabili: terranza come pedagogia immaginativa di impegno civile e territà come pratica situata (o viceversa). Territà come programma politico-poetico e terranza come metodo geo-maieutico (o viceversa). Tutto da inventare, ma la tensione maieutica incistata in Landness è preziosa: quella techné ostetrica – che accompagna l’attraversamento, la recisione e il libero movimento autopoietico – consente di mappare dai bordi, dai vuoti, perché “quel che conta nelle mappe è proprio ciò che manca, è lì che lievita un abitare, un cercare, un viaggiare” (p. 51).
Se l’Antropocene, in quanto iperoggetto, è pervasivo e viscoso è pur sempre un colabrodo di crepe ricchissime di realtà, di luoghi porosi di svernamento. È il vuoto il senso ultimo della wilderness, del Grand Dehors, è lì che con ingenuità e intuizione si può fare bricolage cognitivo dalle rovine,xv è lì che possiamo trovare “una parola molto scivolosa e molto trascurata: avventura” (p. 231). Perché:
(…) in questo momento, anche in Italia, c’è uno dei più grandi poeti viventi. Ha sedici anni e sta scrivendo cose che ci faranno vergognare del tenore insipido degli ultimi cinquant’anni di letteratura. Sarà considerato un grande poeta per due ragioni, perché non avrà letto nulla del Novecento e del primo Duemila italiano, perché avrà ricevuto direttamente dalla Terra il senso profondo del suo dovere cosmografico. In questo momento, questa ragazza, questo ragazzo, sta partendo senza soldi per Parigi, si illude di trovare qualcuno che la faccia sentire meno sola, meno solo. Comincerà anche lei, anche lui, a svernare, ma al posto di una città di chiese e di case vedrà morene e lingue glaciali. (p. 166)
Rebecca Rovoletto
i. Eduardo Galeano, “La función del arte / 1”, El libro de los abrazos, Ediciones la Cueva, p. 7
ii. Titolo del nuovo libro di Matteo Meschiari, Landness. Una storia geoanarchica, Meltemi, 2022. Un estratto è disponibile qui https://www.minimaetmoralia.it/wp/libri/landness-di-matteo-meschiari/?fbclid=IwAR1bigCMhlugeq8vazxzvZjZ_K8nGLxe6NtTl1X1H-bYdVpTnXyOk4VK4ws
iii. https://www.facebook.com/matmeschiari/posts/pfbid02ceHG926fUsAxFMShejKtaq4fNMPCw8vG36kvFr4VmFhg5dJqrQHWVScUbD6xHUs4l
iv. Si veda l’esauriente recensione di Elisa Veronesi su Ibridamenti https://www.ibridamenti.com/2022/10/11/viaggio-lungo-i-bordi-della-territa/
v. M. Meschiari, Geoanarchia. Appunti di resistenza ecologica, Armillaria, 2017
vi. La Gaia-evento che Isabelle Stenger rielabora dal concetto latouriano. Si veda I. Stenger, Nel tempo delle catastrofi. Resistere alla barbarie a venire, Rosenberg & Sellier, 2021
vii. Casa non come concetto inscritto nell’ontologia patriarcale, non quel sepolcro dell’immaginazione che da accumulatori neolitici ci siamo costruiti intorno e dentro la testa. Bensì casa come consapevolezza ecologica e cognitiva del saper co-dimorare, da terrestri, ovunque-sempre. Si veda M. Meschiari, Disabitare. Antropologie dello spazio domestico, Meltemi, 2018
viii. Il precedente saggio Geografie del collasso, ad esempio, si apre con una lettera ai figli adolescenti Claudio e Lucia. M. Meschiari, Geografie del collasso. L’Antropocene in 9 parole chiave, Piano B, 2021
ix. Il riferimento è relativo al saggio di Paul Shepard, Natura e follia, Edizioni degli animali, 2020
x. Ivi, p. 8
xi. Cormac McCarthy, La strada, Einaudi, 2007; Richard Powers, Smarrimento, La nave di Teseo, 2021
xii. Amitav Ghosh, La grande cecità, BEAT, 2019, p. 62
xiii. Lydia Millet, I figli del diluvio, NN Editore, 2021
xiv. “Essere un buon antenato è una cosa diversa dall’essere un buon genitore o un buon nonno. Comporta sentire la responsabilità verso generazioni che non conoscerai mai; i fantasmi dei milioni di umani ancora non nati.” come dice Robert Macfarlane in questa intervista https://www.corriere.it/sette/attualita/21_gennaio_15/macfarlane-scendere-sottoterra-diventare-buoni-antenati-468afb8a-5386-11eb-b612-933264f5acaf.shtml . R. Macfarlane, Underland. Un viaggio nel tempo profondo, Einaudi, 2020
xv. Sulla natura degli “iperoggetti” e sul costruire dalle rovine si rimanda ai lavori di Timothy Morton, Iperoggetti, NERO Edizioni, 2018 e (con Dominic Boyer) Iposoggetti. Sul diventare umani, LUISS University Press, 2022. Un mio breve contributo su questi temi è disponibile qui https://comune-info.net/smantellare-lapocalisse/
Un pensiero riguardo “LANDNESS: LA MAIEUTICA DELLA TERRA”