- “Quando i cavalli avevano le dita” è un testo del 1983 (prima edizione italiana del 1984) a firma di Stephen Jay Gould (1941-2002), uno dei più importanti scienziati del secolo scorso. Geologo e paleontologo di formazione, fu anche biologo, zoologo e storico della scienza. Il libro di Gould è composto da 30 saggi brevi che trattano temi che spaziano dalla biologia evoluzionistica, alla storia della scienza, alla sociologia, alla politica. È proprio all’interno di questi ultimi tre ambiti che vanno a inserirsi alcuni dei saggi a parer mio più interessanti della raccolta. In Evoluzione come fatto e teoria, Una visita a Dayton e La politica dei censimenti troviamo, attraverso le lucidissime analisi di Gould, una chiave di lettura per quello che vediamo accadere ai giorni nostri. Creazionisti, negazionisti, rifiuto di fatti e dati, diffidenza verso la scienza; Gould scrive della situazione americana a lui contemporanea evidenziando che quanto da lui osservato o vissuto potessero essere le prime avvisaglie di un futuro governato e controllato da demagoghi e manipolatori. Basta osservare il mondo che ci circonda per capire quanto Gould avesse visto lungo, e che le sue paure fossero ben più che fondate. “Quando i cavalli avevano le dita” offre interessanti spunti per capire come siamo giunti all’attuale situazione e come alcuni fenomeni sociali e politici che vediamo manifestarsi abbiano radici molto lontane, addirittura ai tempi di Darwin in qualche caso.

Fulvio Giachino
2. Matthew M. Bartlett – Gateways to Abomination
L’horror ha da sempre proliferato nella forma breve – il racconto, il particolar modo, e la novella. Ciò è forse dovuto alla peculiare ritmologia, fin dai tempi di Poe, soggiace alla fiction dell’orrore, del terrore e del bizzarro: non si può vivere costantemente sotto l’egida dell’angoscia o della paura, si tratta di intensità fluttuanti, instabili, cicliche. L’incubo, lo spavento improvviso, l’attesa snervante, l’insonnia e l’allucinazione sono le condizioni archetipali dell’Io più legate all’horror.
Quando tale forma si espande e si dilunga nel romanzo, di solito, altri generi e forme di narrazione – persino altre tonalità emotive – prendono il sopravvento sull’orrore puro (il fantastico, il tragico, il thrilling o l’avventuroso). Quando la coscienza prende il sopravvento sull’oblio, ciò che si ottiene è un sottile velo di coerenza; un manto abbastanza spesso, tuttavia, da rendere impercettibile la propria volatilità. Per certi versi, il romanzo dell’orrore è sempre foriero di inganni e menzogne. La forma breve – anzi, brevissima – trova il proprio coronamento stilistico nella vignetta: la rappresentazione essenziale, minima, di uno stato mentale o di un evento. Nell’horror, questo tipo di composizione presenta strette affinità con due forme espressive del tutto differenti: la barzelletta e il motto di spirito (andando a sostituire, seppur non nella totalità dei casi, la punchline con l’istante della rivelazione terrifica). Un rapporto ambiguo, segnato da strane confluenze. Non è un caso se ciò che, in una barzelletta o in un racconto horror, può turbare alcuni, faccia, al tempo stesso, scoppiare altri in un’incontenibile risata. Va da sé che tale legame – forgiato nei fuochi del subconscio – possa anche sfociare in una reazione isterica: la risata di orrore. A farci ridere di orrore sono le vicende che E.A. Poe definisce odd, ossia “bizzarre”: eventi di natura maligna, dannosa o persino catastrofica, contraddistinti da un irriducibile alone di stranezza. Essere uccisi da un pianoforte in caduta libera dal sesto piano di un palazzo sarebbe di certo strambo e, tuttavia, assolutamente orribile. Eppure, quando ciò accade in un cartone animato, la nostra risposta più frequente è proprio la risata. Un ulteriore passo avanti consiste nel notare come la “bizzarria” (oddness) è qualcosa che si può impossessare di una comunità, di una famiglia, di un individuo, ma anche di una società o di una intera civiltà. La logica dei grandi numeri rende lo strano quotidiano, l’anomalo normale, l’impossibile del tutto possibile. Gateways to Abomination trasporta il lettore a Leeds, una minuscola cittadina del Massachusetts infestata da misteriosi culti ed entità soprannaturali. Ma Leeds non è che l’intreccio, anzi, la sovrapposizione psicosomatica di un soggetto e di un ambiente. In nostro ambiente; il nostro presente. I passaggi scavati da Bartlett si snodano (come le cosiddette “droghe di passaggio”, o i labirintici passage benjaminiani) attraverso un continuum psicotico, nel quale l’abominio assume, a volte, la forma schizofrenica del delirio di moltitudine, e, in altre, quella della mania persecutoria. La radio e i quotidiani sono l’organo espressivo e comunicativo di un organismo diffuso – incarnato da larve e parassiti di ogni sorta; i corpi deformi e abietti, l’urbanesimo selvaggio delle periferie, i cadaveri, i non morti, i clown e gli animali (le capre in particolare) le protuberanze spirituali. Un male imperscrutabile – per quanto concreto ed evidente – propagato non da enigmatiche forze, né da “mostri” o altre creature, ma dal contagio della follia e della malattia corporale.
Il dissolversi delle certezze ontologiche e persino della realtà condivisa è la chiave scelta da Bartlett per dischiudere i cancelli dell’orrore puro. Un processo di disfacimento fisico e mentale al quale è possibile attingere per via subconscia – pescando a piene mani dagli assurdi, impensabili fenomeni di tracollo che, ogni dove, squarciano il flebile velo di normalità dell’Occidente.

Claudio Kulesko
3. Periferiche dell’Antropocene
I’m not actually predicting the future. I’m generating scenarios.
William Gibson
Quando mi è stato chiesto cosa stessi leggendo avevo appena iniziato The Peripheral di William Gibson, tirato dentro all’universo narrativo dell’ultima trilogia dello scrittore canadese dalla serie ispirata a quello stesso romanzo. Leggere tutto. Approfondire quanto più possibile. Lasciarsi trascinare. Perdersi dentro il testo. Appuntare. Tentare una mappa. Analizzare. Incrociare con altri testi. Continuare a vedere in parallelo e perpendicolarmente la serie. Riattivare esperienze di lettura passate che pulsano ancora incandescenti. Cyberpunk e oltre. Il tempo fino alla deadline è poco. Ma il traduttore italiano, Daniele Brolli, è stato il responsabile di una delle più intense riviste italiane di fumetto degli anni ‘90: Cyborg. Lo shock del futuro, “la prima rivista cyberpunk a fumetti”. Una periferica polimorfa che fa sprofondare “l’universo contemporaneo nel futuro” in un frammento impazzito del 2172 tra delfini cybernauti in megalopoli automatizzate, scultori organici, artisti tecnomitopoietici e pornostar risorte contro le apatie brandizzate da canali mediali totalitari, cloni di rock star belli e dannati in astronavi alla deriva senza più un mondo madrepatria, bikers radioamatori che attraversano le praterie postapocalittiche per uccidere il cervello di Custer, mutazioni devastanti di comunità pseudo-religiose nelle favelas di Rio de Janeiro. Nel primo numero compare anche un racconto inedito di Gibson, Inferno. No, non è vero. Il racconto è scritto dallo stesso Brolli, nello stile di Gibson. Uno stub-stilizzazione, un frammento alternativo dell’universo narrativo di Gibson. Decido di sfidare il poco tempo a disposizione. Voglio proporre questo testo. Leggo e annoto e contestualmente faccio previsioni di analisi possibili, rifletto in situazione e riformulo retroattivamente ipotesi, immergendomi in modo asincrono tra le pagine del libro e le scene della serie di una storia che è la stessa, ma diversa. Mi sembra di seguire la strategia di organizzazione del libro. È uno dei motivi per cui lo consiglio: libro e insieme manuale imprevisto di lettura. Leggere Gibson è come giocare a Pong. La pallina sono le parole-idea, i neologismi dell’immaginazione, i concetti parcellizzati e mescolati a puzzle. Ogni volta che colpiscono una scena, una situazione, una nostra aspettativa, un elemento di genere, innescano curiosità, meraviglia, sconcerto, inquietudine eerie. Ma soprattutto, come i pixel o fotoni della sigla della serie, attivano i mondi narrativi. Piccolo esempio:
“Netherton stava osservando il reticolo intricato del bustino di lei, che somigliava al modello in miniatura del tetto in ferro battuto di qualche stazione vittoriana, con una serie infinita di finestrelle che sembravano offuscate dal carbone di locomotive in miniatura. Eppure quel bustino aveva una sua elasticità, dal momento che si adattava ai suoi movimenti quando respirava e parlava.”
Un altro motivo per cui lo consiglio: Gibson sembra a tratti una sorta di Hugo contemporaneo: dà vita a metropoli in estinzione, paesi sul ciglio di arterie viarie che portano sempre altrove e luoghi oscuri di illuminazione descrivendo cose come altre cose che non c’entrano nulla, ma forse, inaspettatamente, sì, in una sorta di metonimia analogica molto efficace.
“Il bustino di ferro battuto con quei finestrini perennemente rigati di pioggia, rimpiccioliti come se fossero sempre sotto la lente di un telescopio alla rovescia. E sotto, strati di gonne sovrapposte che parevano una versione più lunga e più scura del tutù del capo dei pezzatori. E infine il disegno di un albatros solitario che le girava tutt’attorno al collo bianco in un volo distante.”

Una descrizione abissale che convoca Coleridge, Baudelaire e Poe. E crea ibridi di senso viventi. Come i tatuaggi migranti di specie estinte sulla pelle di Ash o i tilacini tyenna con la “mandibola di un’ampiezza straordinaria, più simile a quella di un coccodrillo che a quella di un cane ma con l’apertura al contrario”. Cyborg cognitivi come insurgent agents contro la minaccia sempre incombente del Jackpot?
Un altro motivo per cui consiglio il testo è perché è molto gibsoniano, nel senso che prosegue l’inesausta metamorfosi della sua scrittura, mai del tutto uguale a se stessa. Una scrittura di genere. Ma di un genere dinamico e vitale. Difficile da fermare con un’etichetta. Gibson conferma infatti la struttura a linee narrative e punti di vista multipli apparentemente paralleli destinati a convergere. Conferma anche l’originaria duplicazione dei piani di realtà. Stavolta però linee, punti di vista e piani non sono separati – solo – dalla faglia tra reale e virtuale. Stavolta la faglia è temporale. Ma anche ontologica. I fratelli Fisher – per me è probabilmente un riflesso cognitivo condizionato, un pattern aptico? Ma non riesco a non pensare al Re pescatore arturiano menomato come Conner in una terra guasta e al narratore finale di The Road che osserva le scaglie dei salmerini per leggervi il mistero della creazione – i fratelli Fisher credono di entrare attraverso avatar virtuali nel mondo artefatto di un videogioco sperimentale e invece sono ospitati dentro periferiche neurorganiche nel mondo del futuro. Non si tratta tuttavia di un viaggio nel tempo. Il futuro ha trovato il modo di entrare in contatto con il passato, tramite un server misterioso, forse cinese, ma nel momento in cui è stabilito il contatto, il passato diverge dal continuum base e non è più il passato di quel futuro.
“Il server è utilizzato per comunicare con il passato, o meglio, con un passato, visto che non c’è possibilità di relazionarsi con il nostro passato. […] La connessione produce una forbice nella casualità, e la nuova diramazione è un filamento unico. Noi la chiamiamo frazione.”
I continuum si moltiplicano come le radici e i rami di un bonsai seguendo gli innesti e le potature innaturali del futuro. Il presente dei Fisher non solo è il passato di un futuro ignoto, ma è un frammento, un moncone – uno stub – di un futuro che lo usa come ambiente di gioco per un’élite annoiata, nostalgica e incapace di immaginare qualcosa di nuovo.
“Ebbe la sensazione di precipitare in un pozzo senza fondo. Interi mondi erano in caduta libera, forse anche il suo”
La caduta libera dei mondi possibili ricorda il clinamen lucreziano e il supercomputer quantistico di Planetary: il calcolo delle possibilità di salvezza di un mondo genera mondi possibili. Nessuno di questi mondi è disposto a sacrificarsi in qualità di esperimento per il bene di un altro universo. Il supercomputer innesca una guerra per la supremazia. Anche i continuum di Peripheral sono generati dalle solerti ziette? Gli autoevolventi e ormai incomprensibili – autonomi? – sistemi di analisi che hanno salvato il 20% della popolazione umana? Sono le ziette cinesi che, cercando un modo di salvare il mondo, di tenerlo confinato nel loro campo di controllo, hanno trasformato simulazioni di scenari in realtà alternative?
“C’è qualcuno che possiede un dispositivo che invia e riceve informazioni dal passato e verso di esso. Quest’attività genera dei continuum”.
È il flusso di informazioni tra futuro e passato a generare il frammento e a biforcare il continuum. Lo scambio di informazioni genera frammenti che si sviluppano poi autonomamente in futuri alternativi. Questo meccanismo è un altro motivo per leggere il testo. È ciò che avviene nell’incontro con qualsiasi testo: il testo appartiene a un passato che non è nostro (è dell’autore, è il frutto di un mondo e di un’esperienza che non sono nostre) eppure grazie al tunnel quantistico della lettura/visione – della fruizione – vi possiamo accedere direttamente, possiamo entrarci dentro, interagire con i suoi elementi, fare la sua esperienza altra, trarre vantaggio e godimento dai suoi sviluppi. Il testo non può modificare il nostro presente e il nostro futuro (non è esattamente vero, ma per ora atteniamoci alla narrazione di sicurezza veicolata all’inizio ai personaggi), eppure la nostra interferenza può modificare il presente e il futuro del testo. La nostra lettura/intromissione cambia il testo. Lo fa nostro. Non è vero neanche questo. È un’illusione da piccolo colonialista della (pseudo)cultura. Da rampollo imprevidente di una cleptocrazia senza scrupoli. Nessuno ha l’esclusiva sul suo personale frammento. Anche altri hanno accesso a quel frammento (altri lettori, magari “illustri”, forse solo rumore di fondo, disturbi e distorsioni interessate, killer assunti specificamente per eliminare determinate possibilità di senso, percorsi di lettura valutati come pericolosi, antagonisti. Soprattutto se vengono a contatto con informazioni sensibili. Con domande sensibili.) Il testo diventa uno spazio virtuale di conflitto totale per il senso. Un luogo di proiezioni e possessioni a caccia le une delle altre. Il tema della lettura-caccia si manifesta più volte all’interno del testo. Flynne apprende a cacciare nei mondi virtuali dal fratello Burton. Wilf vede Flynne come una sorta di Artemide. Il campo semantico della caccia è una pista da seguire.
Il testo è anche un plastico del tempo infestato dagli spettri di monconi di esperienze e da gusci sofisticati affamati di volontà che possano spostare le cose. I Polter – “Poltergeist. Spiriti che spostano le cose”, “spiriti incarnati” – animano periferiche neurorganiche di ogni forma e funzione (artefatti antropomorfi, homunculi, droni, armi cubiformi di distruzione di massa), “come se fossero una forma grottesca di intelligenza artificiale”. Il testo è un campo modulare che sfida strategie possibili di intra-azione con il mondo narrativo e/o reale – il perseguimento di uno scopo, l’interazione con altri agenti, l’esplorazione del mondo e delle sue possibilità, la dominazione dello stesso, secondo il Design Virtual Worlds di Bartle –, è “un mondo Polter”, una modellizzazione ludica di lotta per l’accesso e l’utilizzo di risorse vitali: domande e risposte possibili. Il testo, qualsiasi testo, è una “interfaccia di telepresenza”. È l’ambiente in cui sperimentare quanto più dal vivo possibile uno scenario potenziale, nel senso che Eva Horn e lo stesso Gibson conferiscono a questa sofisticata strategia cognitiva. I continuum accendono interesse proprio come un libro-film entusiasmante, un’esperienza speculativo-immersiva totale, una theory fiction abissale che consente di sperimentare ipotesi dal vivo, di fare worldexperiencing. Non si tratta solo di immedesimazione estemporanea in un personaggio. Il ribaltamento di prospettive innescato dal testo – che per fugare ogni dubbio si chiama Peripheral – non consente di tracciare confini e direzioni precise e univoche. Lowbeer, l’ispettrice plenipotenziaria del futuro, e Gryffyd, l’agente dei servizi del passato, sono la stessa persona: Ainsley James Gryffyd Lowbeer Holdsworth. Lowbeer e Gryffyd comunicano attraverso tempi diversi per influenzare i rispettivi frammenti. Io sono il lettore dentro il testo e il critico amatoriale appena fuori del testo in comunicazione serrata per scrivere l’articolo entro i tempi della scadenza. Siamo ognuno l’adulto e l’anziano della stessa persona, monconi che interagiscono in continuum inconciliabili. Siamo in qualche modo le periferiche della nostra stessa vita, le periferiche della nostra stessa storia o della nostra coscienza o del nostro patrimonio genetico-cognitivo?
La periferica, come la Coppa del Graal o il Calderone di Bran, può guarire le ferite della terra desolata e allungare la vita? O come “le mappe del mondo in divenire. Mappe e labirinti. Di una cosa che non si poteva rimettere a posto. Che non si poteva riaggiustare”, la periferica è “ogni cosa […] più antica dell’uomo, e vibrava di mistero”?
“La periferica neurorganica non aveva una se stessa in cui raccogliersi. Non era senziente, come aveva sottolineato Lowbeer, eppure sembrava perfettamente umana, e senza sforzo. Così umana, a dire il vero, da essere disumana. Ma quando Flynne era al suo interno, o si manifestava per suo tramite, non diventava una versione di lei?”
Siamo le periferiche di agentività non-umane che ci abitano e ci muovono come oggetti così bene da farci sembrare umani? Sembra una prospettiva molto interessante da indagare, tenendo conto anche del fatto che il secondo romanzo della trilogia si intitola Agency…
Gibson rivela che le idee da cui è nato il libro sono due. La prima deriva da una notizia di cronaca: la pianificazione dell’omicidio di un poliziotto come esca per l’attentato dinamitardo al suo corteo funebre da parte degli Hutaree – guerrieri cristiani –, una milizia religiosa di estrema destra del Midwest convinta che lo Stato sia l’Anticristo. Leggendo l’articolo Gibson ha iniziato a immedesimarsi in uno dei figli dei fanatici arrestati e a chiedersi come avrebbe compreso il mondo in cui era appena stato lasciato solo.
La seconda idea deriva dalla visione del paesaggio rurale impoverito del Midwest meridionale a cui l’umanità resta aggrappata rabbiosamente, quello rappresentato dal film Un gelido inverno e dalla serie Deadwood, ambientata due settimane dopo la sconfitta di Custer a Little Bighorn. Gibson si immaginava l’arrivo di uno straniero imbroglione nella comunità rurale che è una periferia della civiltà. All’inizio lo straniero sarebbe arrivato da una metropoli, New York o Los Angeles. Poi Gibson ha capito che lo straniero sarebbe venuto dal futuro. E ha iniziato a scrivere Peripheral. Uno dei temi è la domanda: Cosa è lo Stato? Cosa è la comunità?
Il libro si conclude con la protagonista, Flynne Fisher, che mentre riorganizza la cura dei frammenti-bonsai del continuum, si domanda se non stia diventando uguale ai suoi antagonisti:
“Aveva detto ad Ainsley di come a volte temesse che stessero semplicemente costruendo una loro versione di oligarchia criminale. Al che Ainsley aveva ribattuto che riflettere su quanto stavano facendo non solo era una cosa buona, ma essenziale.”
Cosa è l’organizzazione della casa comune? Cosa è l’oikos nomos per Gibson? Uno strano agente sacro? Una religione altamente pericolosa? Una categoria della coscienza? Di una coscienza umana, storica, planetaria? È la coscienza stessa una periferica del paesaggio?
“This attempt is made in order to show how the human body itself is subject to the political and economic factors that control society. Rather than the active, almost libertarian outlook of Neuromancer’s cyberpunk cowboys, The Peripheral shows the subjection of the planet to anthropogenic disasters and humans as materially embedded within that threatened world.” (Anthropomorphic Drones and Colonized Bodies: William Gibson’s The Peripheral, Anna McFarlane, ESC, vol 42, Is 1-2, March/June 2016, p. 131)
Altro tema è il tempo. Come l’orrore è il terrore reso più prossimo, avvicinato al lettore, così quello che scrive Gibson a partire dalla Trilogia dello Sprawl, passando per la Trilogia del Ponte, e poi per il Ciclo di Bigend, per finire con il Ciclo del Jackpot, è il futuro reso sempre più prossimo. Fino al collasso nel presente. La prima trilogia inaugura un genere, il Cyberpunk, che trasforma la fantascienza in profezia. Il futuro pre-visto nei suoi libri si avvera. Ma non basta. Gibson, a differenza della narrazione tossica di Fukuyama, non fa finire la Storia. Ma la profezia. Che è sempre, in una qualche misura, una narrazione tossica. Gibson non proietta il presente nel futuro, allontanando la minaccia, il pericolo – come avviene nel Gotico rispetto all’Horror – ma avvicina il futuro. Il futuro non esiste perché è già tutto nel presente. Non si può pre-vederlo, distanziandolo da noi e di fatto disinnescandolo, perché non c’è distanza di sicurezza tra presente e futuro, l’impatto dei due tempi è già avvenuto. Dobbiamo solo vederlo. Questo impatto. Rendercene conto. Contare i cocci. I morti. I feriti. I dispersi. I Frammenti che esplodono a raggiera. Osservare il luogo dell’incidente dei due tempi mentre la sua dinamica è – sempre – in svolgimento. Gibson quindi non fa profezie. Annuncia i processi in corso. Così come l’Horror dice di una minaccia non che sta per, ma che già ci ha raggiunti, così la sci-fi di Gibson dice di un tempo non che sta per, ma che già è. Che ci è già addosso.
“Le epoche danno conforto soprattutto a chi non ne ha mai fatto un’esperienza diretta. Definiamo la storia a partire da una complessità che va ben oltre la nostra portata. E applichiamo delle etichette ai risultati. Attribuiamo a essi una denominazione. E poi parliamo di queste denominazioni come se fossero cose che esistono veramente.”
Quest’ultima trilogia apparentemente è un ritorno al futuro, ma i due frammenti temporali – il 2030 e il 2100 – sono in realtà due luoghi distanti eppure in connessione tra loro.
“Qui parliamo di realtà. Quando Abbiamo mandato la nostra prima mail a Panama, siamo entrati in una condizione di proporzionalità fissa rispetto al tempo del loro continuum: uno a uno. A un determinato intervallo nella frazione corrisponde il medesimo intervallo nella nostra realtà, dal primo istante di contatto. Non possiamo accedere al loro futuro più di quanto possiamo conoscere il nostro.”
Peripheral sembra abolire il futuro, inteso come dimensione teleologica, come Regno a venire. Il futuro è un collage di presenti. Mondi in un instante.
“Any work which engages with the future must necessarily consist of fragments of the past; any vision we have of the future is necessarily built of our experience to the moment in which we conceive of the vision. There’s no way to have a vision of the future in a vacuum. […] Imaginary futures are about the moment of their creation, they aren’t about the real future. Ultimately every imaginary future will be read as an artefact of the moment of its creation.”
È stato domandato a Gibson se i suoi siano quindi romanzi a prova di futuro. Preferisce definirli un futuro attuale. Questa riflessione sul tempo è uno dei motivi per cui leggere il libro. Gibson lega il tempo e lo spazio alle differenze di classe. Nei suoi romanzi c’è sempre un conflitto tra futuro e passato. Qui è ancora più evidente che il conflitto sia un conflitto di classe. Flynne si è guadagnata la sua fama da player in un gioco di simulazione, Operation Nortwind, in cui impersonava un membro della Resistenza ingaggiata da players ricchi che le subappaltavano ore di gioco. Per lei, e per altri come lei, era un’attività come un’altra per guadagnarsi da vivere, un’operaia del videogioco, in un contesto, quello del Midwest, in cui l’economia è in mano a un ex venditore di auto ora barone del narcotraffico. Il suo avversario nel gioco era un ricco annoiato impegnato a fare il serial killer di altri giocatori come lei con l’unico scopo di sottrarre loro la paga dell’ingaggio. La stessa rapacità di classe è messa in atto da Lev Zubov – altro riflesso aptico: Lex Luthor – il rampollo klept della Londra del futuro o da Vespasian, altro elitario entusiasta dei continuum, che conducono “deliberatamente esperimenti su continuum multipli, portandoli fino alla distruzione con tutta la loro popolazione umana.”
«Per una questione di puro imperialismo» intervenne Ash. «Stiamo terzomondizzando i continuum alternativi. Chiamarli “frazioni” ci rende la cosa più facile.»
Necrocapitalismo insaziabile da apocalisse reiterata come un tic senziente da rigor mortis. Questa colonizzazione totale di spazi e tempi e persino possibilità è l’ultima frontiera del Capitalocene. Robert Tally e Christine Battista la considerano l’alienazione definitiva dell’uomo dall’ecosistema inteso come matrice delle condizioni di possibilità. Una condizione che Istvan Csicsery-Ronay Jr. definisce future flu, una cronosi per cui un futuro distopico infetta tempi ospiti – il passato, il presente, i futuri alternativi – riproducendosi in essi come un virus di simulacri, accartocciando fino alla paralisi e poi alla morte ogni possibilità di cambiamento che modifichi il mortifero futuro infestante, in una condanna autorealizzante. Flynne si contrappone a questa pandemia. Con le sue azioni. Ma anche con un’attenzione nuova ai dettagli dell’ambiente. Seguendo gli insegnamenti del fratello:
“Flynne si chiese se quello che scorgeva nei suoi occhi era la sua rapidità da Marine, l’intensità, la violenza d’azione oppure solo il suo modo di comprendere le cose correttamente. Perché Aveva capito. Aveva ignorato l’aspetto folle della faccenda, spingendosi tatticamente in avanti. E Flynne si rese conto di quanto tutta quella faccenda fosse inquietante, e di quanto lui fosse intuitivo e concreto, e per un attimo si domandò se non avesse anche lei quella qualità.”
Flynne segue anche la pratica del Tito di Spook Country che si lasciava cavalcare da agentività altre – i Loa – per sentire e muoversi nel mondo non solo come un umano, ma come un elemento intrecciato a tutto il resto. Anche in Peripheral Gibson cerca di far emergere il non-umano. Non solo per quanto riguarda le periferiche neurorganiche o i pezzatori o gli sciami di droni o le indagini dei sistemi algoritmici di controllo. Gibson cerca di riportare al livello di percezione il paesaggio, provando a superare quella che James Wandersee ed Elisabeth Schussler hanno chiamato la plant blindness. Sulla scena di un pluriomicidio è allestito un laboratorio scientifico forense mobile – con teli e camici tutti di carta, come un origami con il potere di leggere e interpretare le tracce del tempo nello spazio – e uno sciame di droni rincorre le molecole degli pneumatici sull’asfalto del luogo del delitto. Le molecole tuttavia sfuggono come la caduta inafferrabile dei mondi possibili, lungo un clinamen che nel microscopico sembra sfuggire all’onnipresenza delle i.a. La polizia è lontana dalla risoluzione, ma Flynne ha un’epifania dell’ambiente circostante, per lei quotidiano eppure percepito per la prima volta:
“C’erano dei cespugli di carota selvatica che erano venuti su piatti e schiacciati, formando un tappeto di fiori lungo il ciglio della strada e mascherando il burrone che si apriva subito oltre il bordo. Flynne era passata di lì centinaia di volte, andando e tornando da scuola, ma non l’aveva mai considerato un vero e proprio luogo. Ora invece, con tutte quelle luci e la tenda bianca quadrata, sembrava che stessero girando una pubblicità. Anche se di fatto era la scena di un crimine.”
Gibson fa emergere piano piano, attraverso piccoli dettagli, la dimensione temporale dell’ambiente. Un tempo lento, tuttavia, che pare quasi immobile, non umano, vegetale e oggettuale. Fatto di anelli arborei e schiuma di poliuretano espanso che trasforma la roulotte di Burton Fisher in un “un vecchio bozzolo enorme” di ambra che racchiude il tempo. Forse per farlo schiudere in una nuova forma inaspettata. Flynne è l’insurgent architect – nel senso proposto da David Harvey – o la botanica alternativa di questo tempo. Non ne tronca il libero sviluppo ai margini, anzi cerca di favorirlo ogni volta che, con meraviglia, ne scorge piccoli indizi.

L’ultimo motivo per leggere il testo, forse il più importante: lo slittamento da una prospettiva visuale, molto evolutivamente umana, razionale, chiarificante, a una prospettiva aptica, apparentemente devolutiva, animale, incapacitante. Burton ha innesti che permettono al corpo di riconquistare una sorta di primazia ancestrale sulla coscienza, interrotta, incespicata. Gli innesti sono una tecnologia militare per la guerra. Burton, come Conner, li trasformano però in uno strumento per fare altro. Per essere diversamente umani. Nella serie gli innesti sembrano cicatrici o cheloidi a forma di icona gigante di periferica usb. Pulsano quando i membri del commando aptico si connettono tra loro, una specie di empatia o metempsicosi di gruppo. Un salto indotto verso una coscienza di sciame? Uno scatto in alto su un’ipotetica scala di Kardashev-Wilson?
La prospettiva aptica consente una profonda prossimità con l’altro. Soprattutto, ancora, con l’altro umano. Anche con sé stessi come altro dall’umano. “Sentì una specie di ululato, nel profondo delle ossa della sua periferica”. Comunicazione profonda con il proprio scheletro che non è il proprio scheletro. È un primo passo.
“Burton era tornato a controllare secondo un programma prestabilito, si era seduto accanto a lei, e le aveva dato consigli a seconda della situazione. Ogni tanto lei lo sentiva sobbalzare, con quel suo inceppamento aptico, mentre la aiutava a trovare la propria strada. Non poteva insegnarle come fare, diceva lui, perché certe cose non si potevano insegnare, ma la aiutava a seguire la traiettoria a spirale, avvicinandosi sempre più a ogni giro, inoltrandosi sempre più nella foresta, e a ogni giro la visuale si faceva sempre più chiara.”
Francesco Mattioni
4. Territà poetica
Di fianco al The Duke di Dublino c’è la libreria antiquaria Ulysses. Lì la prima edizione paperback di North di Seamus Heaney (non firmata) costa 150 euro. Il libro è del 1975 e in Italia è uscito per Mondadori nel 1998 a cura di Roberto Mussapi. Nei giorni di falsa catastrofe e di dissipazione cognitiva, North è una bussola per uscire dalla cronaca e calare l’adesso-qui nel tempo grande della preistoria e del mito. Un manuale di territà per rinarrare l’Antropocene con la parola poetica.

Matteo Meschiari
5. Gli animali che amiamo. Intracarne
Antoine Volodine
traduzione di Anna D’Elia
66thand2nd, 2017, 15€
Un libricino bizzarro e disturbante per descrivere il “(…) caos della Storia e le sue convulsioni come una sorta di carnevale (…) un’invenzione xenostorica, con in più qualcosa che potrebbe far pensare a una farsa di argomento animalier (…) Parodistica, decisamente incline al comico e persino al buffonesco (…) comunica la sensazione di un continuo saltellio intellettuale (…) ideata per evocare e al contempo depistare, proteggere e resistere a qualunque effrazione.” (pp. 63-64)
Questo condensato intrinsecamente palindromo, si struttura (e si dovrebbe legge anche) secondo uno schema metrico circolare:
A -B-C (+commento)-B-(commento+) C-B-A
Un abracadabra fatto di 5 intracarne (A e B) e 2 shaggå (C) – ovvero due delle forme narrative della tassonomia propria del post-esotismo (*) – capace di destare grumi un po’ oscuri e un po’ giocosi, che vivono da squatter in qualche remoto e vitale angolo del nostro essere, richiamati in superficie dall’uso personalissimo del linguaggio, delle atmosfere e delle immagini.

Gli abitatori del libro sono naturalmente “mostri” ibridi alieni sognanti, incollocabili nel tempo e nella geografia ma di altissimo lignaggio, le cui gesta (feroci e grottesche quanto le nostre) sono riportate dall’aedo narrante.
L’effetto eversivo, come in tutte le opere di Volodine, è raggiunto: attraverso quella che chiama “l’insolenza post-esotica” e l’uso della “parola sciamanica”, apre l’accesso a territori paralleli dove esperire straniamento e immaginazione, dove “spezzare ancora qua e là il reale, l’inesorabile reale della merce e della guerra” (p. 103). Il suo, sappiamo, è un delirio abile e controllato, destinato a quei “simpatizzanti, complici, portavoce” che intuiscono il potenziale di dissimulazione, mormorio, sogno ed esilio: capacità utili, forse, di questi tempi per “lasciare ai margini il nemico che continua ad aggirarsi da qualche parte tra gli ascoltatori, lasciarlo lì, irritato e impotente, a battagliare contro impenetrabili corazze ” (p. 101)
(*) Post-exotism è la corrente letteraria da lui fondata e di cui lui e i suoi eteronimi sono gli unici esponenti.
Rebecca Rovoletto
6. Ecco qui la mia proposta:
Cherie Dimaline – The Marrow Thieves – € 15,70
Nel futuro del Canada devastato dal cambiamento climatico, la gente ha perso la capacità di sognare. Tutti, tranne i nativi americani che ne conservano la facoltà in un punto ben preciso: il loro midollo spinale. Per questo vengono cacciati dai Reclutatori che li rapiscono e li portano in centri di ricerca in cui si viene fabbricata la cura all’incapacità di sognare a partire dal prezioso contenuto delle loro ossa. La fuga, la foresta e il racconto sono i pilastri delle comunità di chi sogna e sopravvive, o per lo meno ci prova.

In questo young adult scritto da una nativa americana di temi importanti ce ne sono diversi. L’immaginazione come strumento di sopravvivenza, l’antropocene, la decolonizzazione dell’immaginario. Interessante, dopo la lettura, approfondire con questo articolo: shorturl.at/MNUY8
Stefano Tevini
7. e nessun sette volte sette.
Alcune questioni/proposizioni casuali. Il collasso è in corso e solo chi è preparato ha qualcosa da dare. Non morire di Cringe. Ogni mindset è a doppio taglio. Un mindset è dual use. Un mindset funzionale ha aderenza alla terra. Un mindset valido è una forma di tecnologia. Bunker. Rimanere sani. La realtà aumentata è un inganno come in The Peripheral: le strade sono vuote, il movimento è ingannevole, la gente fantasmi, i palazzi in rovina; serve solo a coprire il tempo perduto. Basta piccole opere, pronti alla clandestinità tra le linee immaginarie. Il paesaggio partecipa al mindset e altre domande da intellettuali. L’usura delle parole come storia, pace, paesaggio, romanzo, theory + fiction, antropocene. Meschiari non ama la parola, eccone un’altra.

Dire che la cecità è indotta è approssimativo e romantico. Basta a Cassandra guardare dalle mura, tutto qui.
Così un romanzo deve essere analisi nodale.
Antonio Vena
8. Walkscapes – Camminare come pratica estetica
Le connessioni che si creano quando lasci che i pensieri trovino il loro modo di fluire e muoversi sono tante, anzi sono le stesse connessioni che si creano a farti capire che in quel momento sei nel giusto mood. Mentre un pomeriggio sto leggendo Underland di Robert Macfarlane (che dovreste davvero leggere) mi imbatto nel capitolo Città Invisibili, in cui ci racconta il suo Grand Tour nel sottosuolo della città di Parigi, nelle sue catacombe, in quella città sotterranea altrettanto viva e vera di quella di sopra, accompagnato da due guide catafili. Leggendo di questo errare ctonio, mi è venuto istintivo riflettere sul camminare e sulle sue molteplici accezioni, come pratica di riappropriazione dello spazio e mappatura dello stesso, come semplice vagheggio, come atto in grado di rimetterci in contatto con la terra e il suolo, come performance artistica. E allora mi sono ricordato di una piccola epifania avuta qualche anno addietro quando, per motivi del tutto casuali (ma devo comunque ringraziare qualcuno), mi sono ritrovato fra le mani un piccolo saggio di Francesco Careri, intitolato Walkscapes – camminare come pratica estetica. E’ un piccolo libro uscito nel 2006 per Einaudi (ristampato poi per Feltrinelli), in cui l’autore ci introduce in un viaggio, un’erranza si potrebbe dire, che parte da Caino e Abele attraverso i pastori e le loro transumanze, proto-mappatori del territorio e costruttori di un primo paesaggio (esteriore ed interiore, portatori di territà probabilemte), plasmatori (inconsapevoli) del camminare come forma simbolica per abitare il territorio, arrivando fino agli egiziani e ai primi menhir, prime costruzioni architettoniche immerse nel paesaggio e quindi prima costruzione cosciente di paesaggio. Per poi fare un salto temporale che ci fa atterrare fra i dadaisti, i situazionisti e la Land Art, per poi arrivare alle nostre città odierne, luoghi pregni di spazi pieni e vuoti. Il tutto filtrato da una visione che ha come lente principale l’architettura, l’estetica e l’arte, e che ci fa intuire in modo gentile ma chiaro, quanto tutte le discipline dell’uomo siano interconnesse e sovrapposte. Si cita Benjamin per i suoi I passages di Parigi (cosa che anche Macfarlane fa nel sua discesa nelle viscere di Parigi) si parla dei menhir sardi e dei pastori irlandesi che chiamavano quelli della loro terra Pietre Danzanti (nel mentre ascolto il podcast di Paolo Pacere su Il Dio che danza, giusto per dire del fluire delle connessioni), del simbolo egizio del Ka che porta in sé lo spirito dell’eterno errare. Si tira dentro Dada e il suo deambulare, Deleuze e Guattari, Richard Long che trasforma per la prima volta la Land Art in una forma d’arte autonoma (A Line Made by Walking), per arrivare a Bruce Chatwin con il suo The Songlines e agli Stalkers con le loro transurbanze.

Un piccolo saggio da portare in tasca, da sfogliare all’occorrenza nel caso ci si senta smarriti e immobili e si abbia bisogno di una spinta per ritornare di nuovo a camminare.
Corrado Verdolini
9. Jury Romanini, La forma della farfalla, LiberAria Editrice, 2022 (13,50 euro)
«Da quando sono caduto nella vita precipito» (p.75)
È un haiku del fuoco che apre il libro di Jury Romanini, La forma della farfalla. Un haiku di Nozawa Bonchō, che recita: «Accatasta per il fuoco,/ la fascina,/ comincia a germogliare» (p.7)
Sono quattrocento milioni di anni che le piante hanno a che fare con il fuoco. In questo lasso di tempo, una buona parte di esse ha sviluppato ingegnose modalità di sopravvivenza a questo elemento della fine. Molte, addirittura, ora necessitano del fuoco per riprodursi. La fine è diventata il loro inizio. Il Pinus palustris, per esempio, protegge la sua gemma apicale con un mazzetto di aghi che, quando il fuoco arriva, brucia e protegge la gemma. Il cisto, invece, lascia i propri semi in letargo fino a che questi, grazie al fuoco, si risvegliano a temperature che arrivano fino a 150°. Il pino di Aleppo lascia riposare i propri semi dentro a pigne così dure che solo il fuoco è in grado di sciogliere. E di far così germogliare.
Nell’ultima sezione de La forma della farfalla troviamo un’altra pianta, l’Hura crepitans, la quale ha trovato un suo modo per far continuare la vita: i suoi frutti, infatti, per poter spargere i semi, cadono a terra ed esplodono. «L’esplosione è l’unica via per la vita. La prole raggiunge la distanza ideale dal genitore e trova le migliori condizioni per la germogliazione».(p.56)

La storia che questo libro ci racconta, è la storia di un’esplosione. È la storia di una fine. È la storia della scrittura stessa che esplode e si frantuma in una prosa che si sfalda nella poesia, di generi che si ibridano per trasformarsi in forme nuove non ancora codificate, ma piuttosto liberate dai canoni inutili di una letteratura che brucia nell’esplosione, lasciando intatta la gemma: l’immaginario scrittorio.
La forma della farfalla non solo racconta il finale della storia, è la fine della storia. Ma lo racconta moltiplicando questa fine in un icosaedro di personaggi e di storie che hanno l’ambizione di narrare il mondo intero nell’attimo della sua stessa esplosione. Romanini sceglie di raccontare questa fine dall’interno di un supermercato, un non-luogo di dimensioni planetarie che è un luogo di transito e di eccesso di esseri umani. Un luogo dove la moltiplicazione di oggetti e immagini sembra assumere una dimensione infinita. Il supermercato, inoltre, rappresenta il catalizzatore di un’epoca che, più di ogni altra, ha causato distruzione, il capitalismo, di cui il centro commerciale è il tempio sacro. Sembra dunque essere una fine precisa quella che viene narrata, una fine causata e subita da un certo tipo di mondo, di cultura, di vita. I personaggi che si trovano all’interno del supermercato e che vengono colti negli ultimi istanti della loro esistenza, appena prima che un asteroide colpisca la Terra, sono suddivisi in tre macro-categorie, che corrispondono alle tre sezioni del libro. Coloro che hanno semplicemente subito la vita, come insetti rimasti agglutinati in una colata di resina, coloro che hanno vissuto e, infine, coloro che hanno elaborato modalità di generazione della vita, pure nella distruzione, come l’Hura crepitans. Molti dei personaggi sono spesso collegati tra loro, si mescolano, come il gabbiano e l’onda con il mare, mentre i dodici occhi a diciannove pollici di Dio osservano tutto dall’alto e le Moire, alle casse, tessono una fine inesorabile. Mito, rito, tecnica, colori, odori e suoni, tutto si mescola nella prosa poetica di questo universo che sta per esplodere, ma che, in realtà, continua ad esplodere da sempre, «in un modo che oltrepassa le possibilità del pensiero umano, (e) per ogni essere vivente, una parte immensa e invisibile sopravviverà alla distruzione della materia, al consumarsi della luce?». È questa stessa domanda a farsi eco nel boato dell’esplosione.
Il racconto della fine, oggi, pare accomunare molte narrazioni, forse perché oramai l’eco della notizia che «la nostra casa è in fiamme» è giunto anche ai più retrivi ad accettare una situazione catastrofica. Di questi racconti, tuttavia, pochissimi riescono a diventare piccoli libri preziosi in grado di esploderti tra le mani e di lasciarti una gemma che, grazie al fuoco, saprà germogliare.
Elisa Veronesi
L’ha ripubblicato su Downtobaker.
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