Periferiche dell’Antropocene

I’m not actually predicting the future. I’m generating scenarios.

William Gibson

Quando mi è stato chiesto cosa stessi leggendo avevo appena iniziato The Peripheral di William Gibson, tirato dentro all’universo narrativo dell’ultima trilogia dello scrittore canadese dalla serie ispirata a quello stesso romanzo. Leggere tutto. Approfondire quanto più possibile. Lasciarsi trascinare. Perdersi dentro il testo. Appuntare. Tentare una mappa. Analizzare. Incrociare con altri testi. Continuare a vedere in parallelo e perpendicolarmente la serie. Riattivare esperienze di lettura passate che pulsano ancora incandescenti. Cyberpunk e oltre. Il tempo fino alla deadline è poco. Ma il traduttore italiano, Daniele Brolli, è stato il responsabile di una delle più intense riviste italiane di fumetto degli anni ‘90: Cyborg. Lo shock del futuro, “la prima rivista cyberpunk a fumetti”. Una periferica polimorfa che fa sprofondare “l’universo contemporaneo nel futuro” in un frammento impazzito del 2172 tra delfini cybernauti in megalopoli automatizzate, scultori organici, artisti tecnomitopoietici e pornostar risorte contro le apatie brandizzate da canali mediali totalitari, cloni di rock star belli e dannati in astronavi alla deriva senza più un mondo madrepatria, bikers radioamatori che attraversano le praterie postapocalittiche per uccidere il cervello di Custer, mutazioni devastanti di comunità pseudo-religiose nelle favelas di Rio de Janeiro. Nel primo numero compare anche un racconto inedito di Gibson, Inferno. No, non è vero. Il racconto è scritto dallo stesso Brolli, nello stile di Gibson. Uno stub-stilizzazione, un frammento alternativo dell’universo narrativo di Gibson. Decido di sfidare il poco tempo a disposizione. Voglio proporre questo testo. Leggo e annoto e contestualmente faccio previsioni di analisi possibili, rifletto in situazione e riformulo retroattivamente ipotesi, immergendomi in modo asincrono tra le pagine del libro e le scene della serie di una storia che è la stessa, ma diversa. Mi sembra di seguire la strategia di organizzazione del libro. È uno dei motivi per cui lo consiglio: libro e insieme manuale imprevisto di lettura. Leggere Gibson è come giocare a Pong. La pallina sono le parole-idea, i neologismi dell’immaginazione, i concetti parcellizzati e mescolati a puzzle. Ogni volta che colpiscono una scena, una situazione, una nostra aspettativa, un elemento di genere, innescano curiosità, meraviglia, sconcerto, inquietudine eerie. Ma soprattutto, come i pixel o fotoni della sigla della serie, attivano i mondi narrativi. Piccolo esempio:

“Netherton stava osservando il reticolo intricato del bustino di lei, che somigliava al modello in miniatura del tetto in ferro battuto di qualche stazione vittoriana, con una serie infinita di finestrelle che sembravano offuscate dal carbone di locomotive in miniatura. Eppure quel bustino aveva una sua elasticità, dal momento che si adattava ai suoi movimenti quando respirava e parlava.”

Un altro motivo per cui lo consiglio: Gibson sembra a tratti una sorta di Hugo contemporaneo: dà vita a metropoli in estinzione, paesi sul ciglio di arterie viarie che portano sempre altrove e luoghi oscuri di illuminazione descrivendo cose come altre cose che non c’entrano nulla, ma forse, inaspettatamente, sì, in una sorta di metonimia analogica molto efficace.

“Il bustino di ferro battuto con quei finestrini perennemente rigati di pioggia, rimpiccioliti come se fossero sempre sotto la lente di un telescopio alla rovescia. E sotto, strati di gonne sovrapposte che parevano una versione più lunga e più scura del tutù del capo dei pezzatori. E infine il disegno di un albatros solitario che le girava tutt’attorno al collo bianco in un volo distante.”

Una descrizione abissale che convoca Coleridge, Baudelaire e Poe. E crea ibridi di senso viventi. Come i tatuaggi migranti di specie estinte sulla pelle di Ash o i tilacini tyenna con la “mandibola di un’ampiezza straordinaria, più simile a quella di un coccodrillo che a quella di un cane ma con l’apertura al contrario”. Cyborg cognitivi come insurgent agents contro la minaccia sempre incombente del Jackpot?

Un altro motivo per cui consiglio il testo è perché è molto gibsoniano, nel senso che prosegue l’inesausta metamorfosi della sua scrittura, mai del tutto uguale a se stessa. Una scrittura di genere. Ma di un genere dinamico e vitale. Difficile da fermare con un’etichetta. Gibson conferma infatti la struttura a linee narrative e punti di vista multipli apparentemente paralleli destinati a convergere. Conferma anche l’originaria duplicazione dei piani di realtà. Stavolta però linee, punti di vista e piani non sono separati – solo – dalla faglia tra reale e virtuale. Stavolta la faglia è temporale. Ma anche ontologica. I fratelli Fisher – per me è probabilmente un riflesso cognitivo condizionato, un pattern aptico? Ma non riesco a non pensare al Re pescatore arturiano menomato come Conner in una terra guasta e al narratore finale di The Road che osserva le scaglie dei salmerini per leggervi il mistero della creazione o al Fisher King senza nome senza poteri senza nulla che dal Seat of Nothing di Arakko pesca segreti e diramazioni per salvare la sua specie [consiglio nel consiglio: leggete X-Men Red di Ewing] – i fratelli Fisher credono di entrare attraverso avatar virtuali nel mondo artefatto di un videogioco sperimentale e invece sono ospitati dentro periferiche neurorganiche nel mondo del futuro. Non si tratta tuttavia di un viaggio nel tempo. Il futuro ha trovato il modo di entrare in contatto con il passato, tramite un server misterioso, forse cinese, ma nel momento in cui è stabilito il contatto, il passato diverge dal continuum base e non è più il passato di quel futuro.

“Il server è utilizzato per comunicare con il passato, o meglio, con un passato, visto che non c’è possibilità di relazionarsi con il nostro passato. […] La connessione produce una forbice nella casualità, e la nuova diramazione è un filamento unico. Noi la chiamiamo frazione.”

I continuum si moltiplicano come le radici e i rami di un bonsai seguendo gli innesti e le potature innaturali del futuro. Il presente dei Fisher non solo è il passato di un futuro ignoto, ma è un frammento, un moncone – uno stub – di un futuro che lo usa come ambiente di gioco per un’élite annoiata, nostalgica e incapace di immaginare qualcosa di nuovo.

“Ebbe la sensazione di precipitare in un pozzo senza fondo. Interi mondi erano in caduta libera, forse anche il suo”

La caduta libera dei mondi possibili ricorda il clinamen lucreziano e il supercomputer quantistico di Planetary: il calcolo delle possibilità di salvezza di un mondo genera mondi possibili. Nessuno di questi mondi è disposto a sacrificarsi in qualità di esperimento per il bene di un altro universo. Il supercomputer innesca una guerra per la supremazia. Anche i continuum di Peripheral sono generati dalle solerti ziette? Gli autoevolventi e ormai incomprensibili – autonomi? – sistemi di analisi che hanno salvato il 20% della popolazione umana? Sono le ziette cinesi che, cercando un modo di salvare il mondo, di tenerlo confinato nel loro campo di controllo, hanno trasformato simulazioni di scenari in realtà alternative?

“C’è qualcuno che possiede un dispositivo che invia e riceve informazioni dal passato e verso di esso. Quest’attività genera dei continuum”.

È il flusso di informazioni tra futuro e passato a generare il frammento e a biforcare il continuum. Lo scambio di informazioni genera frammenti che si sviluppano poi autonomamente in futuri alternativi. Questo meccanismo è un altro motivo per leggere il testo. È ciò che avviene nell’incontro con qualsiasi testo: il testo appartiene a un passato che non è nostro (è dell’autore, è il frutto di un mondo e di un’esperienza che non sono nostre) eppure grazie al tunnel quantistico della lettura/visione – della fruizione – vi possiamo accedere direttamente, possiamo entrarci dentro, interagire con i suoi elementi, fare la sua esperienza altra, trarre vantaggio e godimento dai suoi sviluppi. Il testo non può modificare il nostro presente e il nostro futuro (non è esattamente vero, ma per ora atteniamoci alla narrazione di sicurezza veicolata all’inizio ai personaggi), eppure la nostra interferenza può modificare il presente e il futuro del testo. La nostra lettura/intromissione cambia il testo. Lo fa nostro. Non è vero neanche questo. È un’illusione da piccolo colonialista della (pseudo)cultura. Da rampollo imprevidente di una cleptocrazia senza scrupoli. Nessuno ha l’esclusiva sul suo personale frammento. Anche altri hanno accesso a quel frammento (altri lettori, magari “illustri”, forse solo rumore di fondo, disturbi e distorsioni interessate, killer assunti specificamente per eliminare determinate possibilità di senso, percorsi di lettura valutati come pericolosi, antagonisti. Soprattutto se vengono a contatto con informazioni sensibili. Con domande sensibili). Il testo diventa uno spazio virtuale di conflitto totale per il senso. Un luogo di proiezioni e possessioni a caccia le une delle altre. Il tema della lettura-caccia si manifesta più volte all’interno del testo. Flynne apprende a cacciare nei mondi virtuali dal fratello Burton. Wilf vede Flynne come una sorta di Artemide. Il campo semantico della caccia è una pista da seguire.

Il testo è anche un plastico del tempo infestato dagli spettri di monconi di esperienze e da gusci sofisticati affamati di volontà che possono spostare le cose. I Polter – “Poltergeist. Spiriti che spostano le cose”, “spiriti incarnati” – animano periferiche neurorganiche di ogni forma e funzione (artefatti antropomorfi, homunculi, droni, armi cubiformi di distruzione di massa), “come se fossero una forma grottesca di intelligenza artificiale”. Il testo è un campo modulare che sfida strategie possibili di intra-azione con il mondo narrativo e/o reale – il perseguimento di uno scopo, l’interazione con altri agenti, l’esplorazione del mondo e delle sue possibilità, la dominazione dello stesso, secondo il Design Virtual Worlds di Bartle –, è “un mondo Polter”, una modellizzazione ludica di lotta per l’accesso e l’utilizzo di risorse vitali: domande e risposte possibili. Il testo, qualsiasi testo, è una “interfaccia di telepresenza”. È l’ambiente in cui sperimentare quanto più dal vivo possibile uno scenario potenziale, nel senso che Eva Horn e lo stesso Gibson conferiscono a questa sofisticata strategia cognitiva. I continuum accendono interesse proprio come un libro-film entusiasmante, un’esperienza speculativo-immersiva totale, una theory fiction abissale che consente di sperimentare ipotesi dal vivo, di fare worldexperiencing. Non si tratta solo di immedesimazione estemporanea in un personaggio. Il ribaltamento di prospettive innescato dal testo – che per fugare ogni dubbio si chiama Peripheral – non consente di tracciare confini e direzioni precise e univoche. Lowbeer, l’ispettrice plenipotenziaria del futuro, e Gryffyd, l’agente dei servizi del passato, sono la stessa persona: Ainsley James Gryffyd Lowbeer Holdsworth. Lowbeer e Gryffyd comunicano attraverso tempi diversi per influenzare i rispettivi frammenti. Io sono il lettore dentro il testo e il critico amatoriale appena fuori del testo in comunicazione serrata per scrivere l’articolo entro i tempi della scadenza. Siamo ognuno l’adulto e l’anziano della stessa persona, monconi che interagiscono in continuum inconciliabili. Siamo in qualche modo le periferiche della nostra stessa vita, le periferiche della nostra stessa storia o della nostra coscienza o del nostro patrimonio genetico-cognitivo?

La periferica, come la Coppa del Graal o il Calderone di Bran, può guarire le ferite della terra desolata e allungare la vita? O come “le mappe del mondo in divenire. Mappe e labirinti. Di una cosa che non si poteva rimettere a posto. Che non si poteva riaggiustare”, la periferica è “ogni cosa […] più antica dell’uomo, e vibrava di mistero”?

“La periferica neurorganica non aveva una se stessa in cui raccogliersi. Non era senziente, come aveva sottolineato Lowbeer, eppure sembrava perfettamente umana, e senza sforzo. Così umana, a dire il vero, da essere disumana. Ma quando Flynne era al suo interno, o si manifestava per suo tramite, non diventava una versione di lei?”

Siamo le periferiche di agentività non-umane che ci abitano e ci muovono come oggetti così bene da farci sembrare umani? Sembra una prospettiva molto interessante da indagare, tenendo conto anche del fatto che il secondo romanzo della trilogia si intitola Agency

Flynne, come Cayce Pollard e Hollis Henry, è una metagiocatrice. Gioca per interagire con il mondo e sopravvivere, ma in realtà esplora per comprendere. “Il suo compito era tenere a bada gli insetti, non prenderli. Comunque loro avevano la registrazione di qualsiasi cosa facesse. Così lei si limitava a scacciare gli insetti, ma nel frattempo riusciva a dare ben più di una semplice occhiata a quello che stava succedendo all’interno”. Osservare l’interno del gioco, scrutarne la struttura logico-narrativa, il database di codici e linguaggi che ne costituisce il framework pluristratificato di significati, il lore che anima lo storyworld del mondo di gioco. “A lei non piaceva giocare, a differenza di Madison e Janice. Lo aveva fatto per denaro, aveva raggiunto un livello così elevato nella missione di Operation Northwind che Dwight non voleva nessun altro. Ma adesso aveva cambiato idea. Stasera voleva essere concentrata, e non solo per il lavoro. Voleva vedere più che poteva di quella Londra. Forse era un gioco che l’avrebbe coinvolta. Burton diceva che non era uno sparatutto. Lei voleva saperne di più di quella donna, scoprire di più del modo in cui viveva.” Il gioco, per ogni uccello e mammifero, è un’attività complessa fondamentale per sviluppare, testare e allenare le potenzialità della mente e del corpo, per esplorare, conoscere e relazionarsi con l’ambiente e i suoi elementi. La posta in gioco sono i limiti e le possibilità: dati determinati vincoli, cosa si può fare? Bateson considera il gioco una strategia di linguaggio per inventare – insieme – un’interpretazione del mondo. Un gioco di ruolo che sperimenta la vita in simulazioni di scenari. Il metamessaggio è che nel gioco non ci si fa male. Flynne e gli altri personaggi lo ribadiscono più volte proprio a conferma che quello strano incarico sia una simulazione, un gioco. Questo patto implicito sviluppa socialità. La commissione di esperti che studia il caso di Charles Whitman, il primo mass shooter che uccide dodici persone nel 1966, individua tra i possibili fattori scatenanti della sua violenza omicidiaria la totale assenza di gioco durante l’infanzia. Tale deprivazione, secondo il team di esperti, avrebbe impedito a Whitman di sviluppare le capacità psico-emotive, la flessibilità e la forza interiore necessarie a gestire situazioni di stress senza ricorrere alla violenza. Flynne ha una reazione fisica di rifiuto quando in Operation Northwind uccide l’avatar del suo avversario. Nella sessione della nuova simulazione si sente di nuovo l’avatar di uno sparatutto. Non le piace. Ma si sta sempre, in qualche modo, in un gioco sparatutto? Quando, durante la sua missione nel gioco, assiste a un omicidio, Flynne decide di non connettersi più a quella “specie di fantasy nanotecnologico con tanto di maniaco assassino”. Poi inizia a mettere in dubbio la natura virtuale stessa di quel mondo. “Il gioco di merda” non ha confini così definiti, però. È un gioco strano. Non è semplice disconnettersi dall’ambiente di esperienza. Flynne teme di aver sviluppato un disturbo post-traumatico da stress, attaccatogli dal fratello, per em-patia, o scatenato dalle sue incursioni in ambienti pericolosi. Virtuali? Reali? L’indecidibilità ontologica sullo statuto delle esperienze è un effetto collaterale del PTSD o è un aspetto intrinseco agli ambienti-scenario? Questi ambienti sono caratterizzati da uno scambio significativo di informazioni, una osmosi di dati e interazioni – intra-azioni – che ne evidenzia la vitalità e l’agentività reciproca. “What differentiates a complex network of cross-references from a world? How can we tell if a new code relationship forms a database that is different from the one that it was originated from? And, in turn, is it possible to affirm that exploring in-depth the origin and functioning of a code is itself a journey through different worlds?” [Davide Tolfo e Nicola Zolin, How to Create a World, in KoozArch, 9/6/2022, https://www.koozarch.com/columns/how-to-create-a-world-1-database]. Difficile stabilire con certezza quale sia il codice-mondo sorgente e quale il codice-mondo derivato.

Il server che genera i frammenti “è una platonica scatola nera”. Il continuum che genera “è un ambiente compatibile con quello di un gioco”, ma come precisa la tecnica esperta, Ash, “qui parliamo di realtà”. Frammenti diversi e divergenti di realtà. “C’è qualcuno che possiede un dispositivo che invia e riceve informazioni dal passato e verso di esso. Quest’attività genera dei continuum. A meno che questi continuum, in numero praticamente infinito non siano già là”.

Il gioco è per Flynne una sorta di piattaforma di empatia, un ambiente simulato intra-attivo di immaginazioni incarnate e scenari animati per sperimentare e coltivare metempsicosi altre, un gioco di co-ruoli, che però non è solo un gioco. Non lo è nella storia, periferica cutting-edge. Non lo è mai, forse. Non lo è per noi lettori che con in mano il libro-hardware di interfaccia, insieme a Flynne, “è come se stessimo facendo un collaudo di qualche software”. La lettura è quel collaudo di idee, di esperienze vissute in periferica, per sperimentarne l’attualità, la realizzabilità, la fungibilità nel nostro personale frammento. Flynne siamo noi. Anche Conner siamo noi. E Gibson, funzionario sensibile del Dipartimento Veterani di un qualche conflitto asimmetrico multidimensionale, ci adesca con la promessa di «azionare un oggetto usando solo la forza del pensiero», come modello per azionare la realtà usando solo la forza dell’idea. Fiction is action.

Gibson rivela che le idee da cui è nato il libro sono due. La prima deriva da una notizia di cronaca: la pianificazione dell’omicidio di un poliziotto come esca per l’attentato dinamitardo al suo corteo funebre da parte degli Hutaree – guerrieri cristiani –, una milizia religiosa di estrema destra del Midwest convinta che lo Stato sia l’Anticristo. Leggendo l’articolo Gibson ha iniziato a immedesimarsi in uno dei figli dei fanatici arrestati e a chiedersi come avrebbe compreso il mondo in cui era appena stato lasciato solo.

La seconda idea deriva dalla visione del paesaggio rurale impoverito del Midwest meridionale a cui l’umanità resta aggrappata rabbiosamente, quello rappresentato dal film Un gelido inverno e dalla serie Deadwood, ambientata due settimane dopo la sconfitta di Custer a Little Bighorn. Gibson si immaginava l’arrivo di uno straniero imbroglione nella comunità rurale che è una periferia della civiltà. All’inizio lo straniero sarebbe arrivato da una metropoli, New York o Los Angeles. Poi Gibson ha capito che lo straniero sarebbe venuto dal futuro. E ha iniziato a scrivere Peripheral. Uno dei temi è la domanda: Cosa è lo Stato? Cosa è la comunità?

Il libro si conclude con la protagonista, Flynne Fisher, che mentre riorganizza la cura dei frammenti-bonsai del continuum, si domanda se non stia diventando uguale ai suoi antagonisti:

“Aveva detto ad Ainsley di come a volte temesseche stessero semplicemente costruendo una loro versione di oligarchia criminale. Al che Ainsley aveva ribattuto che riflettere su quanto stavano facendo non solo era una cosa buona, ma essenziale.”

Cosa è l’organizzazione della casa comune? Cosa è l’oikos nomos per Gibson? Uno strano agente sacro? Una religione altamente pericolosa? Una categoria della coscienza? Di una coscienza umana, storica, planetaria? È la coscienza stessa una periferica del paesaggio?

“This attemptis made in order to show how the human body itself is subject to the political and economic factors that control society. Rather than the active, almost libertarian outlook of Neuromancer’s cyberpunk cowboys, The Peripheral shows the subjection of the planet to anthropogenic disasters and humans as materially embedded within that threatened world.” (Anthropomorphic Drones and Colonized Bodies: William Gibson’s The Peripheral, Anna McFarlane, ESC, vol 42, Is 1-2, March/June 2016, p. 131).

Altro tema è il tempo. Come l’orrore è il terrore reso più prossimo, avvicinato al lettore, così quello che scrive Gibson a partire dalla Trilogia dello Sprawl, passando per la Trilogia del Ponte, e poi per il Ciclo di Bigend, per finire con il Ciclo del Jackpot, è il futuro reso sempre più prossimo. Fino al collasso nel presente. La prima trilogia inaugura un genere, il Cyberpunk, che trasforma la fantascienza in profezia. Il futuro pre-visto nei suoi libri si avvera. Ma non basta. Gibson, a differenza della narrazione tossica di Fukuyama, non fa finire la Storia. Ma la profezia. Che è sempre, in una qualche misura, una narrazione tossica. Gibson non proietta il presente nel futuro, allontanando la minaccia, il pericolo – come avviene nel Gotico rispetto all’Horror – ma avvicina il futuro. Il futuro non esiste perché è già tutto nel presente. Non si può pre-vederlo, distanziandolo da noi e di fatto disinnescandolo, perché non c’è distanza di sicurezza tra presente e futuro, l’impatto dei due tempi è già avvenuto. Dobbiamo solo vederlo. Questo impatto. Rendercene conto. Contare i cocci. I morti. I feriti. I dispersi. I Frammenti che esplodono a raggiera. Osservare il luogo dell’incidente dei due tempi mentre la sua dinamica è – sempre – in svolgimento. Gibson quindi non fa profezie. Annuncia i processi in corso. Così come l’Horror dice di una minaccia non che sta per, ma che già ci ha raggiunti, così la sci-fi di Gibson dice di un tempo non che sta per, ma che già è. Che ci è già addosso.

“Le epoche danno conforto soprattutto a chi non ne ha mai fatto un’esperienza diretta. Definiamo la storia a partire da una complessità che va ben oltre la nostra portata. E applichiamo delle etichette ai risultati. Attribuiamo a essi una denominazione. E poi parliamo di queste denominazioni come se fossero cose che esistono veramente.”

Quest’ultima trilogia apparentemente è un ritorno al futuro, ma i due frammenti temporali – il 2030 e il 2100 – sono in realtà due luoghi distanti eppure in connessione tra loro.

“Qui parliamo di realtà. Quando Abbiamo mandato la nostra prima mail a Panama, siamo entrati in una condizione di proporzionalità fissa rispetto al tempo del loro continuum: uno a uno. A un determinato intervallo nella frazione corrisponde il medesimo intervallo nella nostra realtà, dal primo istante di contatto. Non possiamo accedere al loro futuro più di quanto possiamo conoscere il nostro.”

Peripheral sembra abolire il futuro, inteso come dimensione teleologica, come Regno a venire. Il futuro è un collage di presenti. Mondi in un instante.

“Any work which engages with the future must necessarily consist of fragments of the past; any vision we have of the future is necessarily built of our experience to the moment in which we conceive of the vision. There’s no way to have a vision of the future in a vacuum. […] Imaginary futures are about the moment of their creation, they aren’t about the real future. Ultimately every imaginary future will be read as an artefact of the moment of its creation.”

È stato domandato a Gibson se i suoi siano quindi romanzi a prova di futuro. Preferisce definirli un futuro attuale. Questa riflessione sul tempo è uno dei motivi per cui leggere il libro. Gibson lega il tempo e lo spazio alle differenze di classe. Nei suoi romanzi c’è sempre un conflitto tra futuro e passato. Qui è ancora più evidente che il conflitto sia un conflitto di classe. Flynne si è guadagnata la sua fama da player in un gioco di simulazione, Operation Nortwind, in cui impersonava un membro della Resistenza ingaggiata da players ricchi che le subappaltavano ore di gioco. Per lei, e per altri come lei, era un’attività come un’altra per guadagnarsi da vivere, un’operaia del videogioco, in un contesto, quello del Midwest, in cui l’economia è in mano a un ex venditore di auto ora barone del narcotraffico. Il suo avversario nel gioco era un ricco annoiato impegnato a fare il serial killer di altri giocatori come lei con l’unico scopo di sottrarre loro la paga dell’ingaggio. La stessa rapacità di classe è messa in atto da Lev Zubov – altro riflesso aptico: LexLuthor – il rampollo klept della Londra del futuro o da Vespasian, altro elitario entusiasta dei continuum, che conducono “deliberatamente esperimenti su continuum multipli, portandoli fino alla distruzione con tutta la loro popolazione umana.”

«Per una questione di puro imperialismo» intervenne Ash. «Stiamo terzomondizzando i continuum alternativi. Chiamarli “frazioni” ci rende la cosa più facile.»

Necrocapitalismo insaziabile da apocalisse reiterata come un tic senziente da rigor mortis. Questa colonizzazione totale di spazi e tempi e persino possibilità è l’ultima frontiera del Capitalocene. Robert Tally e Christine Battista la considerano l’alienazione definitiva dell’uomo dall’ecosistema inteso come matrice delle condizioni di possibilità. Una condizione che Istvan Csicsery-Ronay Jr. definisce future flu, una cronosi per cui un futuro distopico infetta tempi ospiti – il passato, il presente, i futuri alternativi – riproducendosi in essi come un virus di simulacri, accartocciando fino alla paralisi e poi alla morte ogni possibilità di cambiamento che modifichi il mortifero futuro infestante, in una condanna autorealizzante. Flynne si contrappone a questa pandemia. Con le sue azioni. Ma anche con un’attenzione nuova ai dettagli dell’ambiente. Seguendo gli insegnamenti del fratello:

“Flynne si chiese se quello che scorgeva nei suoi occhi era la sua rapidità da Marine, l’intensità, la violenza d’azione oppure solo il suo modo di comprendere le cose correttamente. Perché Aveva capito. Aveva ignorato l’aspetto folle della faccenda, spingendosi tatticamente in avanti. E Flynne si rese conto di quanto tutta quella faccenda fosse inquietante, e di quanto lui fosse intuitivo e concreto, e per un attimo si domandò se non avesse anche lei quella qualità.”

Flynne segue anche la pratica del Tito di Spook Country che si lasciava cavalcare da agentività altre – i Loa – per sentire e muoversi nel mondo non solo come un umano, ma come un elemento intrecciato a tutto il resto. Anche in Peripheral Gibson cerca di far emergere il non-umano. Non solo per quanto riguarda le periferiche neurorganiche o i pezzatori o gli sciami di droni o le indagini dei sistemi algoritmici di controllo. Gibson cerca di riportare al livello di percezione il paesaggio, provando a superare quella che James Wandersee ed Elisabeth Schussler hanno chiamato la plant blindness. Sulla scena di un pluriomicidio è allestito un laboratorio scientifico forense mobile – con teli e camici tutti di carta, come un origami con il potere di leggere e interpretare le tracce del tempo nello spazio – e uno sciame di droni rincorre le molecole degli pneumatici sull’asfalto del luogo del delitto. Le molecole tuttavia sfuggono come la caduta inafferrabile dei mondi possibili, lungo un clinamen che nel microscopico sembra sfuggire all’onnipresenza delle i.a. La polizia è lontana dalla risoluzione, ma Flynne ha un’epifania dell’ambiente circostante, per lei quotidiano eppure percepito per la prima volta:

“C’erano dei cespugli di carota selvatica che erano venuti su piatti e schiacciati, formando un tappeto di fiori lungo il ciglio della strada e mascherando il burrone che si apriva subito oltre il bordo. Flynne era passata di lì centinaiadi volte, andando e tornando da scuola, ma non l’aveva mai considerato un vero e proprio luogo. Ora invece, con tutte quelle luci e la tenda bianca quadrata, sembrava che stessero girando una pubblicità. Anche se di fatto era la scena di un crimine.”

Gibson fa emergere piano piano, attraverso piccoli dettagli, la dimensione temporale dell’ambiente. Un tempo lento, tuttavia, che pare quasi immobile, non umano, vegetale e oggettuale. Fatto di anelli arborei e schiuma di poliuretano espanso che trasforma la roulotte di Burton Fisher in “un vecchio bozzolo enorme” di ambra che racchiude il tempo. Forse per farlo schiudere in una nuova forma inaspettata. Flynne è l’insurgent architect – nel senso proposto da David Harvey – o la botanica alternativa di questo tempo. Non ne tronca il libero sviluppo ai margini, anzi cerca di favorirlo ogni volta che, con meraviglia, ne scorge piccoli indizi.

L’ultimo motivo per leggere il testo, forse il più importante: lo slittamento da una prospettiva visuale, molto evolutivamente umana, razionale, chiarificante, a una prospettiva aptica, apparentemente devolutiva, animale, incapacitante. Burton ha innesti che permettono al corpo di riconquistare una sorta di primazia ancestrale sulla coscienza, interrotta, incespicata. Gli innesti sono una tecnologia militare per la guerra. Burton, come Conner, li trasforma però in uno strumento per fare altro. Per essere diversamente umani. Nella serie gli innesti sembrano cicatrici o cheloidi a forma di icona gigante di periferica usb. Pulsano quando i membri del commando aptico si connettono tra loro, una specie di empatia o metempsicosi di gruppo. Addirittura oltre la morte. Un salto indotto verso una coscienza di sciame? Uno scatto in alto su un’ipotetica scala di Kardashev-Wilson?

La prospettiva aptica è una modalità di percezione e conoscenza ravvicinata che si basa sul venire direttamente, personalmente, intimamente a contatto con la cosa da conoscere, è un fare esperienza con l’ambiente e con sé stessi nel momento del contatto. Consente una profonda prossimità con l’altro. Soprattutto, ancora, con l’altro umano, ma non solo. Anche con sé stessi come altro dall’umano. Con il compagno morto. Con gli strati dimenticati dei corpi. “Sentì una specie di ululato, nel profondo delle ossa della sua periferica”. Comunicazione profonda con il proprio scheletro che non è il proprio scheletro. È un primo passo.

L‘esperienza aptica del mondo è una percezione complessa pre- e ultra-razionale, una geografia agente che coinvolge e integra tutti i sensi, privilegiano il tatto, l’udito, la consapevolezza posizionale, la visualizzazione spaziale, l’equilibrio e il senso posturale, il movimento, le memorie e le proiezioni e le potenzialità di sviluppo incorporate, una percezione-azione somastetica e cinestetica simultanea.

Oltre alle protesi aptiche dei membri della squadra speciale HaptRec1, “una specie di arto fantasma, spettri dei tatuaggi che si era fatto in guerra, messi lì per dirgli quando correre, quando stare immobile, quando ballare a scatti come una marionetta del cazzo, quanto e dove”, ci sono anche le mutazioni cannibali dei Pezzatori con “la pelle ricoperta da una variante modificata di cheratosi attinica” organicamente inseriti nel nuovo ciclo terrestre delle plastiche, i Camminatori, ibridi animale-inanimato composti dai Pezzatori e alimentati dai venti, “un carapace dismesso da qualche altra bestia, e si muoveva come se sopra ci fosse ad animarlo un marionettista impacciato […] caracollava su entrambi i lati, con un giardino di tubi in cima che senza dubbio contribuivano alla melodia dell’Isola di plastica”, come un guscio cavo per le forze dell’atmosfera, un corpo per il vento, così come i tatuaggi sulla pelle di Daedra “erano rappresentazioni stilizzate delle correnti che mantenevano e alimentavano il Vortice del Nord Pacifico”, una pelle che l’artista scortica via e appende come opere d’arte progressive di se stessa, esperienze incarnate in cortecce connotative segnate nel tempo dagli eventi, e infine i tatuaggi migranti di specie estinte sulla pelle della tecnica Ash, “un tumulto di ali e corna, tutti gli uccelli e le belve in estinzione nell’Antropocene”. E poi i droni, i moby, i materiali mutanti, i mattoncini Lego polimorfi, gli homuncoli e i neurorganici, le Michikoidi e gli assemblatori, i manti delle tyenna come “stemma araldico” della nuova scienza, i palazzi forse vivi, forse consapevoli, gli alberi “più vecchi di chiunque”, case cresciute dentro alberi dallo sviluppo accelerato artificialmente, i “collettori di diossido di carbonio megavoluminosi e semibiologici che sembrano alberi”, gli “ibridi, provenienti in parte dall’Amazzonia, in parte dall’India […] la corteccia era come la pelle degli elefanti”, le tute come quelle di Daedra e Ash per coprire i tatuaggi e il linguaggio del corpo, quindi gli intenti, quella di Conner “per contenere una forma che non si riusciva neppure a immaginare”, quella mimetica di Janice per somiglianza reciproca con il marito, quelle di carta bianca degli agenti per proteggere i corpi da materiali potenzialmente pericolosi che attenuano le voci, quelle militari che mimano il mimetismo delle seppie – leggendo ed emulando l’ambiente prossimo fino a “divenne l’ombra che la circondava” – per cacciare gli uomini con un’efficienza sviluppata in milioni di anni, quelle retrò e proletarie che vestono alcuni neurorganici per simulare la Storia. Tutti questi corpi mettono in scena mondi abitati da faune di periferiche. Un meshwork di ibride superficialità (tatuaggi e paesaggi) e vertiginose profondità (periferiche e frammenti). Il nostro stesso corpo è una periferica. La periferica che consente la nostra interazione aptica con il mondo. (Iper)periferica a sua volta?

Jackpot… l’iperoggetto antropocene è una lotteria di causalità, cicli, dati, enti e scale incommensurabili di cui possiamo comprendere a stento solo lo schianto inevitabile del montepremi di cause-effetti contro le nostre esistenze. L’iperlotteria, ovviamente, non finisce mai, è sempre in corso e facendone noi parte, è impossibile non giocare. Consciamente potremmo fare finta di nulla, di essere estranei al gioco. Molto probabilmente con risultati catastrofici. Il corpo però sa diversamente. Il corpo gioca su tutti i tavoli possibili. Respirazione. Corredo genetico e orizzonte di specie. Nicchia ecosistemica. Puzzle trofico. Posizionamento e spostamento… come gioca il corpo? Improvvisando. Confrontandosi alla mutevolezza del contesto e alla moltitudine dell’universo dei giocatori da una parte e alla biblioteca di esperienze, desideri e scenari possibili dall’altra, il corpo si muove accordandosi alla variabilità continua dei momenti, intesi come ambienti altamente dinamici. Come il mondo virtuale di uno sparatutto, riprendendo la metafora (?) di Flynne. La posta è in gioco è sempre la stessa: muoversi con precisione per non essere presi, “always adjust or fine tune movement in relation to a continual monitoring of the task as it unfolds” (Ingold).

La conoscenza per contatto immersivo diretto innesca tuttavia il paradosso di Bernstein: come è possibile osservare, interagire, conoscere e realizzare qualcosa in un ambiente inconoscibile in perenne mutamento? La soluzione è nelle capacità di Burton, che lo rendono un corpo abile, preciso, in grado di adattarsi a contesti incostanti, “capace di improvvisare, avvalendosi di materiale totalmente sconosciuto”. Anche quando deve consigliare i suoi alleati, riguardo le strategie di sopravvivenza agli attacchi di avversari dal futuro, Burton consiglia “di improvvisare”. Anche il tecnico collega di Ash, Ossian, riesce a operare e gestire il frammento grazie alla sua “capacità di improvvisazione”. La stessa Flynne, mentre pianifica le sue mosse sulle due scacchiere dimensionali ammette che “sto improvvisando”. La risposta a come muoversi nell’iperoggetto è praticare improvvisazione. Allo stesso modo in cui il fabbro sembra battere sempre allo stesso modo sullo stesso punto del ferro che si raffredda e invece il ferro si sta trasformando a ogni secondo e la spalla, il gomito e il polso del fabbro mutano angolo, inclinazione, rotazione, pressione in modo da sferrare ogni secondo un colpo sempre diverso, ma sempre il colpo giusto in accordo alle trasformazioni del ferro. Giocare con le periferiche è come operare con i testi è come improvvisare esperienze e il movimento è come l’arte: esplorare scenari e possibilità, “moving forward, temporarily moving forward, in tandem with, in correspondence with” (Ingold), incorporando il proprio movimento nel groviglio di tutti gli altri movimenti. Com-muovere.

“Burton era tornato a controllare secondo un programma prestabilito, si era seduto accanto a lei, e le aveva dato consigli a seconda della situazione. Ogni tanto lei lo sentiva sobbalzare, con quel suo inceppamento aptico, mentre la aiutava a trovare la propria strada. Non poteva insegnarle come fare, diceva lui, perché certe cose non si potevano insegnare, ma la aiutava a seguire la traiettoria a spirale, avvicinandosi sempre più a ogni giro, inoltrandosi sempre più nella foresta, e a ogni giro la visuale si faceva sempre più chiara.”

Francesco Mattioni

Un pensiero riguardo “Periferiche dell’Antropocene

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